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lunedì 25 novembre 2013

[Un anno dopo] Eros in esametri ultraortodossi - "La sposa promessa"

November 25, 2012 at 4:32pm

Tel Aviv non si vede mai. Se non si sapesse che si è lì, non si capirebbe. Potrebbe essere un quartiere di ebrei hassidici di dovunque nel mondo: a Parigi, a Chicago, a Gerusalemme. Tel Aviv, la città della spensieratezza israeliana, del lungomare, della musica, della cultura d'avanguardia, dell'amore, e del tentativo di dimenticarsi che si è ebrei, non si vede mai. Una volta si sente: quando, dalle finestre aperte sulla strada, entra il rumore dei woofer e delle risate di Purim. No, Tel Aviv non si vede mai, ma non per questo non c'è, anzi, ciò che non si vede e si cerca di non vedere è inevitabilmente rimosso destinato a ritornare: laddove chi vive a Tel Aviv è forse più 'ebreo' degli ebrei di Gerusalemme.

La diciottenne Shira vive nell'enclave hassidica di Tel Aviv, appunto, dove se una ragazza a ventun anni non è sposata sia lei che il padre si cominciano a preoccupare seriamente. Non essere sposate, non essere state 'prese' da qualcuno, è un'umiliazione che si sconta ogni giorno: ed è il caso della cugina Frieda, bella ragazza dai capelli rossi (che, essendo non sposata, non copre col tichel), un 'diamante' di tenerezza che però nessuno sembra volere: ciò scava di giorno in giorno sotto i suoi occhi delle rughe di sofferenza (ad ogni festa tutti le dicono 'che tu sia la prossima' e non accade mai), e che alla fine però sarà presa anche lei da un anziano vedovo dallo sguardo buono. In quel quartiere gli uomini indossano lunghi cappotti neri, tallit con tzittzit e gli shtreimel, caratteristici cappelli di pelo di certi askhenaziti oppure larghi borsalini neri, mentre le donne hanno calze spesse e coprenti e gonne a pieghe ben sotto il ginocchio, e camminano cinque passi dietro agli uomini. Tutto orbita attorno al rapporto con un D-o onnipresente e incomprensibile, che pervade le esistenze suscitando una devozione folle e danzante che però è chiamata ad esprimersi attraverso osservanze letterali e apparentemente nevrotiche. Proprio questa è, a mio parere, la chiave del film. Una passione travolgente può essere declinata nella metrica rigorosissima delle osservanze hassidiche. Eros non soltanto non è cacciato, ma assume precisamente quel ritmo per cantare il suo canto. Nonostante i colbacchi, i veli, i cernecchi, nonostante le prescrizioni, nonostante le famiglie invasive fino all'assolutamente inverosimile.

Shira, accompagnata dalla madre Rivka (campionessa mondiale del double binding e del ricatto affettivo), intra-vede il suo promesso sposo mentre sceglie uno yogurt in un supermarket kasher. E' un bel giovane biondo, dai lunghi payot ben arricciati. I grandi occhi della ragazzina si illuminano, e la madre è contenta. Solo il padre temporeggia. Fatto è, che l'Onnipervasivo ha altri progetti. Ester, la sorella maggiore di Shira muore dando alla luce il piccolo Mordechai. I parenti siedono in lutto, le comunità li visita e gli augura Hamakom y'nachem etkhem b'tokh sha'ar avelei tziyon viyrushalayim, [L'Onnipresente vi conforti fra i dolenti di Sion e di Gerusalemme], mamma Rivka si spupazza il neonato e se ne innamora. Il lutto finisce, e il contesto preme perché Yochai - il padre del bimbo - si risposi. Si fa strada l'idea che sposi una antica sua conoscenza e vada ad abitare in Belgio. Trema la nonna alla sola prospettiva di perdere il nipotino, e pur di evitarla farebbe tutto, sacrificherebbe tutto. In questo caso la vittima è pronta e vicina: proprio Shira, che viene proposta al più maturo Yochai.

Più oltre non spingo il racconto, perché non c'è. C'è invece - appunto - un magistrale cogliere la trama delle passioni sull'ordito delle osservanze, l'accadere del desiderio, della paura, del subbuglio, delle farfalle nello stomaco, dello slancio, della ritrosia, della tristezza, della solitudine, della separazione, della distanza e della vicinanza: e tutto secondo passi di danza tassativamente regolati. Ogni tanto qualche perla. Shira che suona la fisarmonica per far danzare i bambini in un asilo, e, smarritasi improvvisamente nel sentire il dolore, vira senza accorgersene in una melodia struggente. Un vecchio Rebbe dalla barba bianca, a cui la famiglia si rivolge per dirimere la questione, e che cita Nachman di Breslav ove dice che il Signore id D-o si compiace se nell'arco di una vita un uomo riesce a dire una parola autentica, e che lascia ad attendere tutti per dare consigli a una vedova a proposito del numero dei fuochi e dell'altezza di una cucina che deve comperare.

Poi finalmente le nozze, tremante la sposa vestita di pessimo gusto, affranto lo sposo sostenuto dagli anziani, attorno canti che non si sa siano di gioia o di pianto. perché così è per gli ebrei, non si capisce mai, l'una cosa vira sempre nell'altra e forse per questo sono il Popolo amato dall'Altissimo.

Ultima, straordinaria, brevissima, necessaria scena. I due sposi entrano in casa, lei si toglie il soprabito, lui appende lo shtreimel all'attaccapanni. Si guardano dagli angoli della stanza. Ancora  l'accadere del desiderio, della paura, del subbuglio, delle farfalle nello stomaco, dello slancio, della ritrosia, della tristezza, della solitudine, della separazione, della distanza e della vicinanza. Ma questa volta non cornici di famiglie o di riti a difendere e a indicare i passi da danzare. Solo, forse, D-o. L'Onnipresente onniassente.




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