La sala dedicata a Giuseppe Verdi - nel Conservatorio
di Milano - è immensa vista dal palco. Si innalza sul fondo come un'onda
azzurra di poltroncine che sembra quasi travolgerti. In questa stessa sala, seduto
su uno di quegli stessi sedili, tanti anni fa - così tanti che quanti neppure ricordo
- ho veduto otto dervisci appartenenti all'Ordine fondato dal Poeta,
dall'Innamorato, dal Mistico Sufi Jalāl al-Dīn Rūmī
celebrare il loro rito d'estasi e di incanto. Verticali, immobili, incappati di
nero, un copricapo rigido e conico a simboleggiare la pietra del sepolcro: così
essi si sono mostrati sul palco - dove io ora mi trovo - i dervisci della
confraternita Mawlawiyya. Vicino a loro un Padre, un Anziano, un Maestro.
Lentamente, uno dopo l'altro, gli otto si sono recati da lui, gli hanno baciato
la mano e la spalla sinistra, si sono tolti il mantello, rimanendo con un
bianco corsetto aderente sul torso, ma che diventava largo come una gonna a
pieghe appena sotto la vita, e pantaloni bianchi. Poi han cominciato a ruotare sul proprio
asse, prima adagio, come pensosi, poi lentamente-e-improvvisamente (possono
stare insieme, sì, come anche danza-e- immobilità, come Dio-e-uomo) aprivano le
braccia con il palmo della destra rivolto verso il cielo e quello della
sinistra verso la terra, inclinavano docilmente il capo su una spalla, la
rotazione si faceva rapida, i volti assorti, gli abiti si aprivano come corolle
di fiori. Gli uomini-pianeta per decine di minuti orbitarono attorno all'invisibile
Sole che è il-Dio, o piuttosto l'-Amore, al batticuore di un tamburo. Si capiva
che non erano più nel corpo, quello era abbandonato al cosmo dove tutto ruota.
In una segreta cella dello spirito essi ricevevano la visita dell'Amore.
Corteggiavano il jadhb, il fanāʾ, l'estinzione, la theiosis, il
nirvana. Ma fu lo stesso Amore che d'un tratto - e da un altro imprevedibile
versante - levò la sua voce struggente: il ney, flauto dal suono che non si
dimentica mai, li chiamò da lontano: fu l'amore dell'anima - così differente da
quello dello spirito - che li fece tornare nel corpo, nel mondo, nella
vita-e-morte. Lentamente-e-improvvisamente la rotazione si concluse.
Adesso sul palco ci siamo noi. A, B, e io. Le
nostre pietre sepolcrali - i nostri indigeribili "sassi", come
direbbe A - ce li portiamo chiusi dentro. Non abbiamo il conforto di
rappresentarli in un cappello da far vorticare. E la dolce e forte A adesso
proverà a mostrarli con le parole,
davanti all'onda di poltroncine che ora è diventata multicolore e travolgente di
giovinezza di ragazzi e di ragazze delle scuole superiori di Milano.
Ci ha portato lì una giovane suora dai modi
semplici, concreti, sbrigativi. Pochi direbbero che questa donna velata è
cintura nera di judo, che ha passato infinito tempo a piedi nudi sulla pedana, tra
leve e strangolamenti, e che non è andata alle Olimpiadi solo perché all'epoca
il judo femminile non era specialità olimpica. Nessuno lo direbbe. Nondimeno è
così. In quell'abito dimesso, scontato, color navy blue, col piccolo velo, con le
calze spesse, le scarpe col leggerissimo tacco, insomma in quell’abito così da
suora, c'è un corpo che ha volteggiato come un derviscio, pur dentro una
diversa danza. E chissà quale judo pratica ora, ora che porta sul petto un
crocifisso di metallo decorato con due cuori sbalzati: l'uno - dell'Amato -
ardente e spinoso come il roveto di Mosè che rivelo il Nome che neppure Dio sa
pronunciare; l'altro - il proprio - teneramente trafitto da una freccia, come
quelli che gli innamorati delle storielle romantiche incidono sulle scorze
degli alberi. Chissà quali leve, quali strangolamenti, quando - esausta di
azione e di missione - in una cappella disadorna, l'Angelo la chiama ancora
alla lotta di Giacobbe.
Nel mio intervento mi accade di parlare del
fuoco: del fuoco come mediatore. Propongo la fantasia di due sconosciuti che si
trovano davanti a un camino acceso. Essi silenziosamente guardano la legna. E
cosa ‘fa’ la legna? Brucia. Illumina (rispettando però le ombre). Riscalda
(rispettando però il freddo che, non vinto, ti tocca un po’ le spalle). Emette
quei rumoretti graziosi, quegli scoppiettii, quei crepitii, il rumore del fuoco
che un sondaggio inglese dichiara essere il sesto rumore più amato dopo le onde
sulle rocce, la pioggia sulle finestre, i passi sulla neve, il riso dei bimbi e
il canto degli uccelli (quanto affidabile sia tale sondaggio, o quanto
affidabili siano gli inglesi testati, non so, dal momento che al 15° posto c’è
il bacon che frigge, al 24° lo scoppio degli avvolgimenti a bolle, al
27° l’urlo della gente sull’ottovolante,
al 29° la mazza da cricket che colpisce
una palla da cricket, al 40° il tagliaerba,
al 45° la metropolitana e al 47° il coro degli hooligans allo stadio; ma
insomma). Insomma il fuoco non fa praticamente niente se non essere fuoco. E i
due sconosciuti sentono affiorare intimità profonde finora mai condivise, e le
condividono in questa occasione, grazie a quel fuoco che non lo saprà mai,
visto che neppure conosce la sua stessa esistenza (forse). E' uno degli esempi
che propongo più spesso quando voglio spiegare come i mediatori umani debbano imparare
da quelli naturali a essere silenziosi, senza ego, ma densi di "presenza".
L'incontro finisce, l'onda di giovani vite si
sparpaglia. Viene da me un uomo robusto che indossa l'uniforme verde dei Vigili
del Fuoco, la pelle scura, lo sguardo luminoso. Fa parte del personale che per
l'occasione ha prestato servizio al Conservatorio. Mi dice: "Sa, quel che
lei ha detto sul fuoco mi ha molto colpito...". Penso ovviamente che si
riferisca alla sua professione, e sorrido, ma lui continua: "Se lei mi
permette, la userò nei sermoni." Lo guardo, sbalordito. "Sono un Pastore.
Di una Chiesa Evangelica. Sì, faccio il pompiere, mi rendo conto anche io che è
strano, la mia professione è spegnere, controllare il fuoco, regolarlo, mentre
io desidererei che divampasse. Sono
venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso!
". Gli dico che non mi sembra affatto casuale questa familiarità con il
fuoco, materiale e spirituale,:spegnere quello che distrugge, accendere quello
che vivifica. "Sì certo. Ma soprattutto fare il Vigile del Fuoco è esser
disposti a dare la vita".
Penso a queste vite. Agli otto dervisci tourneurs della mia memoria. Alla suora
cintura nera, chiamata un giorno sul tatami da un terribile Sfidante. Al Pastore
pompiere che mi ha fatto ricordare Bloy: Enfin
quelques journaux racontèrent la panique histoire d'un 'inconnu', accouru avec
cinquante mille curieux, qui s'était précipité, on ne savait combien de fois, dans
le volcan, ramenant surtout des femmes et des enfants, arrachant à la Justice
éternelle un nombre incroyable d'imbéciles, semblable à un bon pirate ou à un démon
pour qui c'eut été un rafraîchissement de se baigner au milieu des flammes, et
qui avait fini par y rester, comme dans "la maison de son Dieu".
Quelqu'un prétendit l'avoir aperçu, la dernière fois, au centre d'un tourbillon,
brûlant immobile et 'le bras croisés...
Penso dunque a queste vite. E alla mia. Che
secondo l'ordine della natura volge al tramonto. Se una vita media fosse un
giorno, per dire, dalle 7 alle 22, io sarei giunto alle 17.30. Se fosse
d'inverno, addirittura, il sole sarebbe già tramontato.
E se l'-Amore venisse a far rotolare la
pietra del sepolcro, Lazare veni foras,
o meglio, se tirasse fuori la pietra del cuore e la mutasse in carne palpitante
e infiammata, se squarciasse i veli, se sfondasse i muri, se facesse crollare
le colonne, i templi, gli idoli, se mi guardasse ancora una volta, una volta
sola, e mi facesse vorticare in estasi, e non per praticare una via, un’ascesi,
una disciplina, ma proprio perché l’-Amore è tale che il corpo non si tiene, oh
se mi trascinasse, derviscio straccione, vestito di lana grezza e il sudario a
cingermi la fronte, solo, a baciare i Suoi passi.
Ho bisogno di un amante che / quando si levi / produca finimondi di fuoco /
da ogni parte del mondo! / Voglio un cuore come inferno / che soffochi il fuoco
dell'inferno / sconvolga duecento mari /
e non rifugga dalle onde. (Jalāl al-Dīn Rūmī)