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domenica 13 luglio 2014

[Due anni dopo] Fort Silence: piccola introduzione alla mostra di Bill Viola

Questa nota risale al 14 luglio 2012. Ma Fort Silence esiste ancora, e (fra le sue mura chiare, sotto i suoi archi armoniosi e misteriosi, fra l'ìncanto rigoroso e di una classicità - così impossibilmente classica da trascendere nel romantico - dei suoi giardini) ospita ancora in questo luglio una formidabile iniziazione antropologica: Aisthesis, Robert Irwin e James Turrell.

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Fort Silence - Forte Silenzio. Forte non nel senso di 'forte' (strong), ma 'Forte' come Fort Apache, costruzione militare isolata, circondata da mura e da mistero. 'Forte' come la Fortezza Bastiani, allucinata da Buzzati. Il Conte Panza di Biumo, collezionista d'arte contemporanea, vero Guggenheim italiano, ha reso tale la sua villa, gioiello gentilizio settecentesco, collocata nei pressi di una Varese che non sono mai riuscito a conoscere, e quindi neppure ad amare. L'ha resa uno spazio cosmico e interiore, ornandola in permanenza con i monocromi di Phil Sims, il corridoio di Dan Flavin, le stanze dell'anima di Robert Irwin e di James Turrell. Solo per questo bisognerebbe andare a Fort Silence: per abitare un poco questo luogo e lasciarsi invadere dalla densità delle presenze che ospita.

Fort Silence, però, in questi mesi ospita anche Bill Viola e la sua Reflections (ed è proprio dalla parola Reflections, che, anagrammando alla rabbinica, mi è venuto in mente Fort Silence). Le sue videoinstallazioni trovano posto al primo piano e nelle scuderie. Tra l'uno e le altre, l'attraversamento di stanze da sogno e da estasi. Fuori, il giardino all'inglese arde sotto il sole di luglio.

Le opere di Bill Viola non si concedono allo sguardo rapace dell'intenditore d'arte. Bussano invece ai cuori pazienti e agli sguardi aperti di coloro che sono abbastanza innamorati o abbastanza infelici o abbastanza sapienti da potersi sedere davanti a loro e accettarne il ritmo lentissimo, eppure implacabile. Si negano al frettoloso - che subito sente ticchettare qualcosa di angosciante dentro, che gli preme nel cuore, nella testa e nelle gambe ed è costretto ad alzarsi e andar via - ma anche al faustiano incantato e incatenante che vorrebbe rendere eterno ciò che passa (Augenblick, verweile doch, du bist so schoen!). Tutto è molto lento, ma non si ferma mai. Come il respiro, come la vita.

Ecco, si entra e tre donne ci vengono incontro (Three Women, 2008). Sono parvenze grigie nel grigio, si avvicinano. Al centro forse una madre, alla sua destra un'adolescente, una bimba alla sinistra. Si sfrange il grigio e si comprende che il velo d'acqua che le separava da noi si sta rompendo ed esse appaiono alla luce del senso (de aqua et per aquam consistentes, Dei verbo). La madre è la prima, essa trae all'essere forse le sue due figlie. Ma è solo un attimo, perché come sono tutte e tre al di qua della barriera, subito qualcosa di inevitabile sembra chiamare da dietro la madre che viene riassorbita dall'indistinto. La figlia grande la segue, la bimba indugia ancora alla luce, non vuole andare, il braccio della sorella riattraversa la soglia per condurla con gesto fermo e dolce, anche lei è ripresa, ora sono tutte dietro, nuovamente grigie, volgono le spalle e ci lasciano. 'Ma chi ci ha rigirati così / che qualsia quel che facciamo / è sempre come fossimo nell'atto di partire? Come / colui che sull'ultimo colle che gli prospetta per una volta ancora / tutta la sua valle, si volta, si ferma, indugia - così viviamo per dir sempre addio.' RM Rilke, Ottava Elegia di Duino.

Nella stessa sala, due adolescenti, un ragazzo e una ragazza, emergono lentamente dalla barriera d'acqua (The Innocents, 2007). Lei, siccome è donna, è sacerdotessa, perché il sacerdozio di questi mutamenti è femminile (il maschio può esser solo sacerdote dell'eterno) quindi ha gesti solenni, di potere. Lui è più spaurito e più solo. Struggimento, bellezza, qualcuno fermi questa immagine! vien voglia di dire, e non è neanche Faust che parla, ma lo strazio di chi ha la sua giovinezza alle spalle e vorrebbe che per loro due così non fosse. Vanno, invece.

A queste due opere credo sia giusto associare la celeberrima 'Emergence' (2002). Ispirata esplicitamente a un affresco quattrocentesco di Masolino da Panicale, sconvolge e chiama a una comprensione più profonda. Due donne (una madre e un'amante) attendono sui gradini di un sepolcro, o di un pozzo, costruito nello stile apparentemente armonico del rinascimento italiano - ma che qui svela l'inquietudine di cui sempre è intessuto. D'un tratto si increspa la superficie liquida superiore del sepolcro, e un giovane nudo, il corpo bianco come la neve, emerge ad occhi chiusi dal basso, mentre l'acqua si riversa sui gradini, scuote le due donne che si slanciano, e l'innamorata  è piena di meraviglia, prende incredula la mano del giovane e gliela bacia. Ma a poco a poco questa resurrezione è come se abortisse, il corpo bianco si piega come un fiore, no, non ce la fa a risorgere, (le donne forse lo hanno trattenuto? Mê mou haptou!), ricade fra le braccia della madre, la resurrezione si trasforma in una deposizione piena di tenerezza: e la donna più giovane copre il corpo, che non è riuscito a risorgere, con il velo. La deposizione 'dopo' una resurrezione incompiuta? E' dunque una negazione? Ad un livello psicologico: vince veramente sempre la madre, sempre la morte, sempre l'Uno? Non si nasce, non si ri-nasce mai? Si è sempre trattenuti? Ad uscire da questo dilemma, credo che bisognerebbe dedicare mattutini e lacrime a contemplare l'icona bizantina del Nymphios, che, senza spiegare, tutto chiarifica, anche l'inversione del vettore del tempo.

Un'intera stanza dedicata all'apparire della luce dietro un albero bellissimo e regale, dalle infinite ramificazioni vibranti di foglie (The Darker Side of Dawn, 2005). Un'ora di durata. Dal buio totale alla luce del sole che appare da dietro, sorge, illumina, e tutto diventa nitido e meraviglioso, e l'albero è maestoso e presente davanti a noi, ma la luce continua a crescere, erode il tronco stesso, satura i colori che virano verso un colore livido, nuovamente si perde l'immagine (assorbita, questa volta, non dall'oscurità ma dall'eccesso di luce) e l'intero schermo - che occupa un'intera parete - diventa bianco. Siamo fatti per condizioni di mezzo, troppa luce e troppo buio ci impediscono di vedere, siamo abitanti del crepuscolo da-sempre-e-per-sempre "Non vi stupì sulle attiche stele, la discrezione / del gesto umano? E come posa lieve / sulle spalle Amore e Addio, come se fosse / d'altro che da noi? Rammentate le mani, / come posano senza peso, e sì che nei tronchi c'è vigore. / Questi maestri della misura sapevano: noi arriviamo fin qui, / 'questo' è nostro, di toccarci 'così', più forte / ci gravano gli Dei. Ma è cosa degli Dei" (RM Rilke, Seconda Elegia di Duino)

Poem B (The Guest House) (2006). Piccolo trittico, al centro un volto di donna. L'anima come ostello di ricordi frammentati. C'è un cielo pieno di stelle cadenti che si rivela essere una pozzanghera di un parcheggio illuminato da luci notturne. Onde marine. A un certo punto appare un volto d'uomo. Una candela. C'è una casa distrutta, ci sono decorazioni di festa o di natale. Sullo schermo centrale il dolore di lei, il cui cuore è premuto da queste memorie che appaiono per subito scomparire, senza che si crei un senso.

Soglia tra vita e morte. ma questa volta il tuffo è invertito. Sembra di cadere ma si è attratti verso l'alto. Anche qui il capovolgimento di un vettore, quello dello spazio stavolta (in Emergence, quello del tempo). Viene in mente Florenskij. "Forse che in questo mondo capovolto, in questo mondo ontologicamente riflesso in uno specchio, non riconosciamo il piano immaginario, anche se è piuttosto immaginario questo nostro mondo per coloro che si sono capovolti su se stessi, che si sono rovesciati, giungendo al centro del mondo spirituale che è più autenticamente reale di loro stessi". Eternal Return, 2000.

La più bella, almeno per me: Passage into Night (2005). In un deserto così luminoso che l'aria è come acqua, è un ariaacqua, fluida, tremante, densa, viene, eternamente viene, incessantemente viene-incontro una figura, chè è l'amata, la morte, la notte, il Messia. Non si capisce per molto tempo (durata: 50 minuti) se si stia avvicinando o si allontani. Poi si capisce che viene, ma viene lentamente, inesorabilmente ma lentamente, non puoi correrle incontro, viene, "verrà quasi perdono di quanto fa morire" (Rebora), e poco a poco si impone la sua presenza, occupa l'intero spazio, e vorresti vederne il volto ma non puoi, non ti è dato. Il blu profondo della sua veste, il blu quasi nero del centro delle icone teofaniche, il grembo misterioso delle cose, in questo sì, ti è concesso di entrare.

Ablutions (2005). N'tilat Yadaym, una mitzvah preliminare ad ogni gesto di senso. L'acqua - asse del corpo umano, suo rachide. Le mani, l'agire umano, hanno il compito di perturbare quest'asse primordiale, di scomporlo, di diffrangerlo, esso si ricompone incessantemente nella sua limpida verticalità.

Inaccessibiltà e intimità del sonno. Nei bianchi bidoni pieni d'acqua schermi che riproducono volti dormienti. Inquietudine da reparto di terapia intensiva dell'anima. Sensazione di violazione, i quasi inviolabilità del sonno. Appare in alcuni il sogno, in altri la resa. Per qualcuno è già il volto dell'agonia. 'The Sleepers' (1992)

Uno stagno-piscina quadrato in mezzo a un bosco, si avvicina un uomo, teso in una presa di decisione drammatica. D'un tratto balza, un grido, e tutto si congela, lui rimane sospeso, immobile, raccolto come un feto nell'aria. Solo la paziente riflessione dell'acqua della piscina continua a muoversi, riflette il cielo e le foglie, appaiono delle onde, si vedono delle presenze camminare sul bordo. Solo la superficie si oscura, è notte, passano misteriose luci. Cerchi concentrici, come se un sasso vi cadesse dentro. Lo spazio di sopra è fisso, solo il feto adulto sospeso perde consistenza, e alla fine non si vede più, confuso fra le fronde degli alberi. Riemerge più tardi, nudo, dall'acqua che mai è stata ferma. Superamento della pietrificazione esistenziale attraverso l'incessante rispecchiamento del qui-e-ora. Così il lavoro del mediatore, sulle relazioni congelate dal conflitto. 'The Reflecting Pool' (1977-1979)

Per ulltimo ci attende la straordinaria esperienza del 'Nantes Triptych' (1992). Una parete contiene tre grandi immagini: a sinistra quella di un parto, a destra quella di un'agonia e di una morte, al centro una figura vestita fluttuante in un ambiente acquoreo, grigionero, tridimensionale. Si tratta di un vero parto (amici di Viola) e di una vera agonia (la madre stessa di Viola). Il parto è glorioso, la donna è frontale, seduta, con le ginocchia raccolte al petto e le gambe aperte, un abito azzurro che la copre fino al grembo teso; dietro di lei il padre, a torso nudo, a piedi nudi, che la sostiene roccioso, senza emozioni vistose, ma comunicando fortezza, solidità totale, imperturbabilità fin sorprendente. Compaiono talvolta le mani e le teste di due ostetriche, che tergono i liquidi, appoggiano le mani sul ventre, verificano la dilatazione con le dita, con gesti caravaggeschi quanto al realismo totale e alla poeticità. La vecchia donna morente è distesa, un po' contratta, su un letto di ospedale, è intubata, alle sue spalle alcune prese elettriche. Il respiro è un rantolo, ogni tanto apre gli occhi e sbatte le palpebre. Anche qui c'è il suo sposo, seduto vicino a lei, le tiene la mano sotto il lenzuolo-sindone bianco, con il dito le umidifica le labbra. Mi viene fatto notare che le due donne (la madre e la morente) si assomigliano molto. Al centro la figura fluttuante rispecchia quel che sta accadendo nel ventre della madre e forse nella mente della morente. Il bimbo appare dalla matrice dilatata, e viene estratto con una certa violenza; deposto fra le braccia della madre, subito tende una mano verso il suo volto, con un gesto di incredibile e struggente tenerezza, da Maestà di Duccio, di Giotto o di Simone Martini. Si schiudono dopo poco gli occhi in uno sguardo che non si sa se veda. Anche la morente apre gli occhi, e anche il suo sguardo - dolcissimo in quel momento - non si sa se veda. Interruzione. Il bimbo adesso è stato lavato, ha gli occhi aperti e una sua fisionomia compiuta sembra potersi riconoscere: ha un volto da saggio. La donna è morta, la bocca disarticolata dell'agonia, il figlio adulto vicino compie gli ultimi atti di cura. La figura fluttuante scompare verso il basso, i tre schermi si spengono, prima quello al centro, poi quello a destra, infine quello a sinistra.

Scrive Chris Townend in un suo saggio su Bill Viola: "Si può almeno affermare con certezza che l'arte di Viola sia un'arte di emozione. E' raro, almeno nel tipo di musei e gallerie che frequento abitualmente, vedere qualcuno che piange davanti a un'opera d'arte. In quasi tutte le mostre di Viola che ho visitato, invece, ho sempre visto qualcuno in lacrime o almeno così profondamente commosso che, considerate le convenzioni sociali che limitano il pianto in Europa, avrebbe potuto esserlo."

Lascio Fort Silence. Che fino alla fine di ottobre accoglie fra le sue mura questa grande iniziazione al mistero dell'uomo.

(14/07/2012)


venerdì 11 luglio 2014

[Quattro anni dopo] G: un incontro

Ho scritto questa breve nota quattro anni fa. Quattro giri della terra intorno al sole, ma - spiritualmente - una vita fa; esistenzialmente - se fosse possibile - più d'una. Narra dell'incontro casuale - ma sono casuali gli incontri umani, o c'è Chi segretamente li tesse e se ne delizia pensando alla bellezza dell'opera conclusa? - con una strana figura di prete. G sta per Gino, ora lo posso dire: perché quest'uomo è morto. Don Gino Piccio. Un tipo assolutamente eccentrico, bizzarro - e questo mi piaceva. Quanto alle sue idee, non ne condividevo neppure una. Ma l'evidenza della vita sovrasta le legittime differenze di pensiero e anche di spirito.

Allora, quattro anni e non so quante vite fa - non conoscevo, se non per sentito dire, la categoria dei folli in Cristo, che la Chiesa d'Oriente (soprattutto russa)  ha ben presto creato, osando così ricoprire di luce - e perfino offrire alla venerazione di tutti - la stessa pazzia. "Si quis videtur inter vos sapiens esse in hoc saeculo stultus fiat ut sit sapiens", ammonisce l'Apostolo in 1 Corinzi. Adesso questi uomini e queste donne sono compagni quotidiani di viaggio, e i loro occhi folli ardono nell'oro delle sante icone.

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Ottiglio è un pugno di anime – non più di seicento – perdute nel basso Monferrato, e quindi già esse perdute per quasi tutti. Eppure G vive in un luogo tale che appare perduto per gli stessi abitanti di Ottiglio.

G ha novant’anni. Non è vero, la sua età andrebbe detta in francese, quatre-vingt-dix, quattro volte venti e dieci. Perché G ha vissuto almeno cinque vite, rinascendo ogni volta sulle ceneri della precedente.

G è nato contadino, ha fatto le scuole elementari e poi è stato mandato nei campi. Analfabeta di ritorno, G aveva un’innamorata. Ma G – chissà perché – vuole studiare, e per i poveri l’unico modo per studiare, negli anni trenta, è andare in seminario. G tuttora non riesce a capire come ha fatto a superare le scuole medie e il liceo classico, eppure fu così che andò. Divenne prete, alla fine, ed aveva ventotto anni, un’età per quell'epoca assai avanzata. Lo convinse un direttore spirituale dicendogli che un prete ha tra le mani i carboni ardenti, anche se dentro muore di freddo. G prova a inserirsi nella diocesi, e non ci riesce: allora diventa un predicatore di missioni popolari, e passa alcuni anni nei paesini sul pulpito e in confessionale. Però G preferisce andare nelle strade e incontrare le persone direttamente. G non ce la fa più. E fu sera e fu mattina: prima vita.

G va a visitare le mondine, donne contemporaneamente libere e schiave, libere moralmente e schiave fisicamente, che lo accolgono irridendolo, tenendosi a braccetto e cantando Bandiera Rossa. G ora ricorda con tristezza che, se avessero bestemmiato, lo avrebbero ferito molto di meno. Eppure resta da loro, e condivide con loro la durezza di una vita in cui la sera ciascuna ha in mano un ramo di salice da agitare per cacciare gli insetti, e poi, mentre si dorme come si può sul tetto di un fienile, a turno si tiene acceso un braciere fumigante: che soffoca ma è l’unico modo per tenere un po’ lontane le zanzare. Poi G non ce la fa più. E fu sera e fu mattina: seconda vita.

Nella terza vita G è un prete operaio, il secondo in Italia. Condivide la vita della fabbrica e ovviamente è guardato storto dagli altri preti. Ha una piccola casa di due locali in affitto dalla fabbrica stessa. Passano alcuni anni di semplice e duro lavoro da operaio. Poi G non ce la fa più, si licenzia di punto in bianco e porta al padrone le chiavi della casa. E fu sera e fu mattina: terza vita.

Nella quarta vita G è un clochard, un mendicante, gira per le strade chiedendo l'elemosina, chissà se si ricorda ancora di essere un prete. A un certo punto però G si scopre, si vede, mentre sorride per farsi dare la monetina o la carità, e questo suo sorriso ammiccante lo disgusta. Non ce la fa più. E fu sera e fu mattina: quarta vita.

Alcuni amici di G gli danno in affitto simbolico un rudere di pietra di tufo, con la maggior parte delle stanze senza la parete di fronte, in pratica una facciata su cui si aprono delle grotte. In queste grotte vive da quasi quarant’anni. Nel frattempo ha non si sa come incontrato gente del calibro di Milani, Mazzolari, Freire o Lanza del Vasto. Lui vive nelle grotte di questa casa in rovina, fra zanzare, topi, vipere e insetti di ogni tipo, e chiunque può andare lì e starci. G non chiede nulla a nessuno e non impone a chi si autoinvita alcuna regola. Ama incondizionatamente, e sostiene che questa sia l’unica cosa che conta nel cristianesimo. Se - per dire - qualcuno va lì, si ubriaca, si droga e tiene uno stereo acceso tutta la notte a tutto volume, G non dice niente. Ama senza porre alcuna condizione. Al limite se ne va a dormire un po’ lontano, se non riesce a prendere sonno.

G ha costruito una cappella con quattro lastre di lamiera ondulata per la messa, non beve acqua ma solo vino, ha la barba lunga e l’occhio furbo, e mangia di gusto quel che trova. Ha una camicia a quadrettini e delle grosse bretelle bordò. I preti della diocesi lo guardano con affetto e con compassione, e alcuni lo trovano folle. Dice di essere sempre andato d’accordo col suo vescovo. “Io gli obbedisco sempre. Purché non mi comandi, però, perché altrimenti sono costretto a disobbedire. Ma se non mi comanda gli obbedisco, eh…” rivela G compunto, regalandoci un meraviglioso koan. “Però faccio sempre yoga al mattino!” Yoga? “Sì, yoga, nel senso che mi alzo, vengo qui sull’aia e faccio quel che il corpo mi chiede”.

Siamo andati a trovarlo in tre. Due uomini e una donna. G racconta storie in piemontese, e ci fa bere un liquore alla genziana che distilla di persona. G è la prima volta che ci vede, eppure dice senza pudore di amarci. Fissa negli occhi la donna e le dice: Vedi, io ti amo come se fossi mia moglie. Poi guarda l’uomo: Io ti amo come amo il mio migliore amico, esattamente così. Rimango io. Mi guarda. Lo guardo. Silenzio da duello western. Ci pensa. Magari non mi ama, stai a vedere che questo ama tutti tranne me. No, invece no. Mi ama. Ti amo come se fossi mio fratello mi dice G, ma subito aggiunge Però guarda che di fratelli non ne ho ‘ne manco’ uno, perché sono figlio unico! . Lui ridacchia, io non capisco se mi è andata bene o male.

Ce ne andiamo, le zanzare ci uccidono e non c'è neppure il braciere fumigante, ma lui dice di non esserne toccato, è totalmente indifferente al freddo, al caldo, agli insetti. Lo lasciamo al tavolo. Leggerà fino a mezzanotte, poi dormirà un poco.

Un bel giorno passerà l'angelo della morte. G lo guarderà, lo amerà, lo farà sedere all'aperto. Porterà il liquore alla genziana e berranno assieme un bicchierino. Poi l'angelo della morte si alzerà per andarsene, e questa volta G lo seguirà, lasciando la casa aperta come sempre. E sarà sera e sarà mattina: vita eterna.


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L'angelo della morte è poi passato, quest'anno, il 12 marzo. Ma non hanno bevuto assieme. In piena notte (dum médium siléntium tenérent ómnia, et nox in suo cursu médium iter habéret) si è avvicinato e lo ha baciato sulla fronte. G, senza neppure svegliarsi, si è svegliato.