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domenica 3 novembre 2013

Blue(tooth) is the coldest colour. Commento a "Vita di Adele"

“Oddio! Oddio!”

La silhouette di una signora magra con i capelli lunghi si staglia contro lo schermo luminoso del cinema. Rispetto a me è (diciamo) a ore due. Nella battaglia navale della sala, io (diciamo)  sono H9, lei potrebbe essere E4. “Oddio!” grida balzando in piedi, e si leva poco più di un brusio di commento.
Mie ipotesi: 1. ha visto un topo, oppure un grosso insetto ronzante le si è posato sulla spalla. Oddio! 2. la persona che le siede accanto si sta sentendo male, o magari è morta, lei si è voltata e ha visto il capo reclinato e il bianco degli occhi rigirati. Oddio! 3. ecco, tre è proprio quanto sta accadendo. La signora, non so come, ha scoperto che il suo vicino di posto è intento in pratiche onanistiche. Oddio! Ma la reazione mi pare esagerata. Infatti l’anziano signore che sedeva in E3 (diciamo), colpito e affondato, si alza e se ne va. Lentamente. Compostamente. Vorrei dire dignitosamente. Sul volto una maschera tragica ma calma. Gli ‘Oddio!’ diminuiscono di frequenza e di volume, ma la signora rimane in piedi, alla fine silenziosa, abbastanza a lungo.

Perché, mentre tutto ciò si verificava, veniva proiettata la lunga e supercontroversa scena di sesso saffico contenuta nel film Palma d’Oro a Cannes. Le Bleu est une couleur chaude. Ossia La vita di Adele, di Abdel Latif Kechiche. Una quindicina di minuti, direi, camera spietata e indagatrice, audio spietato e fragoroso, gli spettatori inchiodati alle poltrone dall’imbarazzo, dal turbamento, dal desiderio, dalla paura. Battono forte i cuori di tutti noi che restiamo nondimeno immobili Tranne il signor cosidddetto porco, che con logica e metodo si dà da fare con il suo attrezzo, e che forse, unico, agisce come il regista vorrebbe. Il cinema sarà pure dedicato ad Apollo l’Obliquo, la sala sarà anche consacrata a Fedra figlia di Pasifae e sorellastra del Minotauro, ma è Pan, il dio mortale, il masturbatore, il violentatore, l’urlatore, a scivolare giù dallo schermo e a prendere possesso della sala. A poco a poco alcuni cominciano a sentirlo. Una ragazza (diciamo) in H5 si alza e ancheggia al ritmo catturante di I Follow Rivers di Lykke Li. Una vecchietta (diciamo) in L12 risponde al telefono a voce alta come fosse nel salotto di casa.

Si dice che nei cinema ‘a luci rosse’ dell’era precedente a Youporn, i vecchietti che li frequentavano – se l’infermiera, il fattorino, la segretaria, l’idraulico o la professoressa si scambiavano alcune battute prima di spogliarsi e passare all’azione – protestassero vivacemente urlando Troppa trama!. All’uscita, fulminante, C – che è dubbiosa sul film, mentre io ne sono entusiasta – commenta: ‘Ah, il film non ha trama. Se l’avesse avuta sarebbe stato perfino peggio’. Infatti il film non ha trama. Tre ore e venti – quasi la durata di un volo tra Milano e Mosca – di meravigliosa, incandescente banalità. Di essa si compiace e quasi si adorna. Perfino nelle scene di sesso non ci viene risparmiato nulla, neppure il romanticume di quart’ordine delle candeline accese sulla mensola. Troppa trama no: poca, niente trama. Ma questo film è il contrario di un film erotico.

La mystérieuse faiblesse du visage d’homme. E’ una delle tante citazioni letterarie presenti in Vita di Adele, in questo caso da Sartre (Moi, j’etais hyper Sartre dans mes années lycée, dice a un certo punto Emma, che è l’altra). Questa debolezza misteriosa Kachiche la protegge avvolgendola di esplicito, di nudo, di sesso brutale. Nel film erotico non-vedere provoca il vedere, in questo film il vedere esige il non-vedere. Questo vedere tutto, questo vedere troppo, esige da chi guarda l’atto pietoso del coprire, del velare, e velando si rivela (ancora una volta) e quindi si incontra la misteriosa debolezza del volto.

Nello specifico il volto che si incontra è quello – incantevole – di Adèle. Volto reso deliziosamente e perennamente imbronciato (anche e specialmente quando sorride) dalla conformazione del labbro superiore inarcato, con in aggiunta uno dei più meravigliosi filtri labiali che Nostro Signore o l’Universo abbia mai creato. Dicesi filtro labiale la nota fossetta tra naso e labbra, che si forma quando la prominenza nasolabiale incontra quella mascellare durante l’embriogenesi: ciò secondo la scienza. Secondo la tradizione ebraica invece è questo il punto su cul alla nascita l’Angelo poggia il dito perché il bimbo dimentichi quel che conosce in quanto anima preesistente e lo rende così pronto per una nuova umana avventura. Insomma, un punto importante, e nel caso di Adèle Exarchopoulos si può francamente dire senza timore di smentita che embriogenesi e angelo dell’oblio abbiano fatto le cose benissimo.

Il volto viene mostrato, inquadrato inquisito, strapazzato dalla cinepresa in mille modi, sottoponendolo a primissimi piani mentre mangia forchettate di spaghetti al pomodoro (e la salsa ricopre il filtro labiale di una patina rosa), mentre succhia ostriche vive che si agitano nel guscio al contatto col limone, mentre bacia ed è baciato, mentre divora ed è divorato, mentre fuma e mentre dorme. Mentre arrossisce quando viene insultato o ritratto. Mentre lotta con dei capelli bellissimi e indisciplinati, capelli vivi che si agitano, si avviluppano, si scompigliano,  si intromettono fra gli occhi e fra le labbra, capelli di Medusa. Mentre è schiaffeggiato. Mentre piange piange piange e le cola il naso, e il filtro labiale si inumidisce. Ma tutto questo assedio di visioni del viso ne conferma la debolezza ma anche l’inviolabilità. Non è questa la via giusta della conoscenza del volto. [Adèle è arabo, e vuol dire Giustizia, dice all’amica: forzando l’etimologia, perché Adil vuol dire Giusto, ma al maschile]

Adèle la vediamo che mangia, danza e fa sesso, poi danza (in modo semplice ma dannatamente sexy), poi mangia. Certo, c’è la storia d’amore, ma è scontatissima, le due si incrociano in strada, lei liceale trasognata, l’altra lei sgamata coi capelli blu (e c’è pure, brrr, il ralenti), l’altra la va a prendere a scuola, lei ha l’immancabile e sensibile amico gay, poi lei takes a walk on the wild side che poi tanto wild non è (son tutti bravi e gentili) e poi fanno sesso, e poi si presentano ai rispettivi genitori, e poi tradimenti e scenate di gelosia, e lei che fa la maestra, e l’altra che fa l’artista e si circonda di fighettame alla moda sottovuoto spinto, e commozione, e patemi d’animo. Ma è una trappola. Questo non è un film sui sentimenti, sulla trasgressione, sulle passioni, sull’eros. E’ un sentiero ingannevole, sembra quello giusto ma vi deluderà, e uscirete sentendo la fatica di tre ore di scontatezza.

Guardando le scene di sesso, e i due corpi bellissimi e bianchi che si attorcigliano in ogni modo senza poter veramente congiungersi, mi vengono in mente due IPad. Ora salterete su e penserete che io sia perverso. No. Va bene: forse un po’. Però, se ci pensate, gli IPad non hanno porte USB, non hanno aperture per CD. Non ci si può ‘infilare’ nulla dentro. La connessione è immateriale, bluetooth, wifi. Una volta avevo appena installato sul mio smartphone un’applicazione chiamata Bump. Funziona così: si condividono dati e documenti facendo ‘scontrare’ (bump!) i telefonini. Stavo quindi divertendomi a  scambiare delle fotografie con la morosa di un amico. Bump, bump. A un certo punto il mio amico interviene: “E piantatela!”. La sua morosa sgrana gli occhioni: “E perché?” Lui: “Ma perché è allusivo!”. Aveva ragione, è effettivamente un po’ allusivo. Adéle e Emma fanno bump. Ma i corpi umani non sono progettati dalla Apple. Della Apple questi corpi hanno la bellezza e la sensualità (penso a F, un amico che ogni volta che vede il mio IPad costretto nel guscio protettivo mi rimprovera quasi fossi un talebano che impone il burqa alla sua splendida moglie, che non è disposto a lasciare esposte e nude le sue forme e le sue curve, a accarezzare le sue superfici che si eccitano e si illuminano al touch e osa perfino ricoprirle con una pellicola trasparente). Ma i magnifici corpi non hanno il bluetooth. Fanno bump e certamente qualcosa succede, però non si possono scambiare veramente cose senza una connessione fisica [particolare non credo inessenziale: curiosamente il film è ambientato in uno scenario tutto analogico: i telefoni sono fissi, non compare mai un computer, gli studenti leggono su libri Gallimard, i bimbi usano gessetti e lavagna]. E Adèle ha come una scossa elettrica quando tocca il pancione di una donna incinta, perché intuisce l’abissale differenza. La promessa di fecondità di un immensa magnolia fiorita è disattesa già in una delle prime scene. Vano e dolce il suo assopirsi accanto a un immenso tronco d’albero, la cui chioma la inonda di foglie. E dolce e vano è il suo tentativo di amplesso col sole, distesa sulla superficie marina nella posizione del morto, col filtro labiale ricoperto di acqua salata.

Lungi dall’essere un bildungsfilm che celebra l’omosessualità, non so quanto volontariamente ne denuncia la costitutiva incompiutezza. Però non è che un rapporto etero colmerebbe tanto di più il vuoto. Sarà perché è mia e la trovo ovunque, ma ho veduto in Adéle un’attesa più grande ancora, infinita. In fondo anche io ho avuto un appuntamento – in un giardino piuttosto segreto – con un’amica pianta che ogni anno in questo periodo mi dona una sua foglia, un piccolo ventaglio giapponese color giallo splendente.

No, non è un film di emozioni, è un film d’essere. Il tema è la generatività e la sua mancanza, il suo rimpianto. (J'ai l'impression de faire semblant, il me manque quelque chose dice Adèle studentessa, mentre legge La Vie de Marianne di Marivaux). L’esito non può essere che l’andar via traballanti, senza voltarsi, dalla terra degli uomini cavi, verso un destino di solitudine.

E allora forse aveva ragione il poveruomo: tecnoantropologicamente un vecchio 286  che, di fronte ai due corpi Apple che facevano bump, ha provato a tirar fuori il suo floppy da cinque pollici e un quarto, ovviamente obsoleto. Ed è stato cacciato.

Oddio!

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