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martedì 12 novembre 2013

[Un anno dopo] Atman e Brahman - Tiziano a Venezia

7 novembre 2012. ore 14.26

Da fiorentino – come spesso ho detto – detesto Firenze e la rinnego, e potesse scendere un fuoco dal cielo e consumarla con tutti i suoi figli, quelli residenti e quelli dispersi sul pianeta, incluso me stesso, certo, ma per ultimo, perché per favore voglio almeno assistere. Ah come godrei nel vederla lì distesa, tra i colli di Fiesole e il Valdarno, trasformata in un calderone ardente e fumante e bestemmiante, come mi gusterei – appena prima di intizzonirmi felice me medesimo – quel piccolo e povero dayafter provinciale, e saiquantomenefregherebbe degli Uffizi, del belsanGiovanni, dell’Angelico, di Michelangelo. Crepino i fiorentini e crepitino nelle fiamme i monumenti. Cenere cenere cenere.

Invece Venezia – in sé, ovvio, altrettanto banale e in quanto tale meritevole di fuoco, o meglio di annegamento (e ci sarà pure e certamente un confratello apocalittico veneziano che lo desidera e che prega per questo) - è per me soggettivamente sempre incanto e meraviglia, mistero miraggio miracolo mistica mimesi miele minaccia mirabolanti visioni. E’ sempre iniziazione. E’ sempre spalancamento. E’ sempre stravedamento.
E a Venezia lunedì c’era tanto sole, e c’era ancora un poco di acqua alta, e i veneziani se ne andavano tranquilli con i loro stivaloni ascellari, e i turisti invece si affollavano sulle passerelle piazzate lì dai netturbini, e l’acqua ricopriva il pavimento dei ristoranti cinesi e dei negozietti di maschere, e diligentemente e rassegnatamente e rispettosamente e quasi gentilmente veniva scopata fuori: l’acqua del mare, l’acqua della laguna verdecupo, scopata fuori lei che è la vera Signora.

Girovagando per il sestiere Castello, per il solito caso e per la solita necessità, serendipicamente mi trovo nel palazzo Grimani di santa Maria Formosa. C’è la temporanea esposizione di una tela restaurata di Tiziano, appartenente al ‘trittico’ della sacrestia della Salute: tre conflitti, Caino e Abele, il legamento di Isacco e questo appunto: Davide e Golia. Ma prima è imposto al visitatore un percorso – e dico ‘al visitatore’ non usando un gergo da guida turistica, ma perché questa volta c’ero in pratica solo io – un percorso, dico, sorprendente, inquietante e bellissimo. Si passa per stanze prevalentemente vuote, dai muri bianchi e dai soffitti deliziosamente decorati. Ogni tanto capolavori. Non si può non iniziare con l’atto di hybris che commise Psyche lasciandosi onorare come una dea, e che le costò la gelosia di Afrodite, ma infine anche l’amore di Amore, e in aggiunta dolori e cammino e compimento e oscurità e luce;  poi c’è la stanza di Callisto, che è una stanza dedicata alla trasmutazione, ove la ninfa amata da Zeus – che per poterla amare si muta in Artemide  la signora delle belve –  si trasforma in Orsa, la costellazione che mai tramonta. E poi la tribuna, che è un delirio classico, un sogno geometrico, e letteralmente sospeso nel cielo e tra la luce che discende dalla cupola ecco Ganimede, giovanetto anch’esso amato dall’infaticabilmente erotico Giove, ghermito e portato in alto dall’Aquila divina. E la misteriosa frammentata Nuda del Giorgione. E i pannelli di Hyeronimus Bosch, visioni gnostiche di inferni dai sinistri bagliori e paradisi in cui Dio è puro abisso di luce – l’’occhio liquido, rotante’ di Luzi nella sua Dormitio Virginis, e alla fine la stanza del Davide e Golia.

Golia è immenso, nudo, rovesciato, a braccia aperte, e se non fosse per la possanza dei muscoli potrebbe sembrare il Cristo mentre viene confitto sulla croce. Ma la grossa testa è spiccata dal busto, e il collo mozzato e sanguinante è ben definito. Il capo reciso, livido, dalla fronte ferita e corrucciata, dal grosso naso, dal mento forte, giace a terra nel sangue. Quasi cavalcando il gigantesco braccio sinistro del Filisteo, Davide più che giovinetto, Davide bimbo, la veste sollevata dal vento, è come un tuffo verso l’alto, è una freccia viva e senza volto, il cui bersaglio è il Numinoso, appena squarciatosi di luce. Dominus, qui eruit me de manu leonis et de manu ursi, ipse liberabit me. I due sono, sembrano, un'unica cosa. Cade felicemente la testa corrugata dell’uomo vecchio, balza fuori il puer aeternus e spicca il volo, atman che si riunisce al brahman, atman è la freccia, bersaglio il Brahman da colpirsi senza distrazione, come dicono le Upanisad. Più che una vittoria sembra l’uscita da un carcere, soma e sema, corpo-tomba e lo spirito se ne affranca non senza dolore.

Riesco fra sole e acqua. A duecento metri dal Palazzo degli incantesimi, nella Cattedrale di san Giorgio dei Greci, stanno, sereni, seri, solenni, il Figlio e la Madre. Con gli incorporei che li onorano occupando le vuote stassidie, i due siedono quieti, nel silenzio e nella luce d’oro.

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