Ride divertito e intenerito,
lo sguardo smeraldino di P - la mia ospite - vedendomi impegnato nel tentativo di
decifrare il senso dei versi scritti sul muro della casa, nella sua lingua
agrodolce. …ma cchjù ddosce de nu mele ca
me cole / jinde u sanghe, / de nu frutte ammature i ssucuse / a mmuerse de
nanghe; / cchjù ddosce d’u recuerde de nu suenne…
Glielo leggo se vuole,
forse può aiutarla; sì leggimelo per favore P; e lei, scolara compìta, macchiuddósce denumēle camecóle jindusànghe…:
ah ecco jinde significa dentro; sì bravo; però non capisco nanghe, cosa vorrà mai dire; se lo traduce
tutto le faccio un regalo. E alla fine ci arrivo: desiderio! oppure brama, ingordigia, una cosa così, divorato con foga, tradurrei, non
letteralmente; perfetto, domattina le farò un regalo. Questo regalo P non me
lo farà invece, ponendomi così in una condizione di aspettativa infinita e di intrigata
curiosità, in una condizione, quindi, molto propizia, anche molto felice. Se il
regalo fosse stato, non so, un souvenir del luogo, o un dolcetto, sarei stato
deluso. Tutto qui? perché io
attendevo il Tutto. Talvolta non mantenere la promessa è necessario, così che
il pensiero giocoso di un regalo si possa trasformare nella speranza del Dono,
nell’incredibile segretamente atteso –
come direbbe Luigi Lombardi Vallauri. P conosce bene gli esseri umani.
E mentre questo accade, attorno,
una trama di vicoli bianchi; un bucato di mura, di pietre, di porte, di chiese,
di case, e perfino di lenzuola, un bucato di paese steso al gran sole sotto un
cielo Pantone® dazzling blue 18 3949
TPX. Attorno, gente mite e silenziosa. Attorno, gli addobbi rococò con le
lucine multicolori, pronte per accendersi di festosità deliziosamente pacchiana
la sera di san Rocco.
Lasciato solo, vado a
controllare su internet. Pietro Gatti, celebrità poetica locale del novecento,
che sapeva guardare il suo paese e vederci l’universo: quei versi fanno parte
di una sua poesia che traduco così, anche senza uno sguardo ridente davanti a
cui offrire lo sforzo: Una parola
semplice / ma più dolce del miele che mi cola / dentro il sangue /di un frutto
maturo e succoso / divorato con foga, / più dolce del ricordo di un sogno / che
per tutto il giorno mi dilaga nel cuore / dell’anima sperduta in questo cielo /che
stanotte [ancora san Lorenzo, ancora le Perseidi] si svortica di stelle / è
tutta una magia / d’amore il nome tuo, bell’amore.
Ripenserò a lungo a
questi versi. Cola la vita,
ininterrottamente, dentro di noi. Non c’è niente che non sia nutrimento. Cola la vita in noi attraverso
innumerevoli vie, perché non in pane solo
vivet homo, e tutti – non solo Bologna – abbiamo sperimentato cosa significa
essere sazi e disperati (ossia sazi e denutriti), e tutti sappiamo come invece
si è potuto vivere per molti giorni mangiando quasi niente, avendo però accesso
ad altri alimenti. Saggezza delle vie spirituali: tutto nutre, tutto cola dentro di te trasformandosi in
vita, ed ecco dunque la bellezza della vita ascetica. Radiose quaresime – secondo l’espressione felice di Alexander
Schmemann – in cui stupefatti ci accorgiamo di poterci nutrire di colori e di
suoni [e quel violino invisibile, e quell’ottone misterioso, che ripeteva
incessantemente tre note, quanto ha nutrito C e me che attraversavamo il paese
bianco], di sguardi e di parole, di pensieri e di sogni e di trasogni, perfino
di dolore – ché abbiamo in noi i fermenti galattici
vivi per trasformarlo - e soprattutto del tuo nome, bell’amore. Digiuno come
gioia dei sensi (infine, anche del gusto, senso negletto, abituato a farsi da
parte per dare spazio alla bramosia) e gioia del Senso, che cola come miele
attraverso ogni nostra fessura sull’Essere, che sia bocca narice orecchio
occhio o ferita.
[Sì. Però c’è appunto la
bramosia. A mmuerse de nanghe. Non si
può dimenticarlo. Come per esempio si è fatto nel nuovo rito del matrimonio
cattolico, dove – illudendosi di omaggiare l’inviolabile soggettività dell’altro
– ora la sposa accoglie (o si unisce) allo sposo, non lo prende più; lo sposo accoglie (o si unisce) alla sposa, non la prende
più: cosicché alla cerimonia sono presenti il prete i testimoni i genitori e
gli invitati tutti, ma Eros il dio bramoso, il dio che prende, viene cacciato via dalla chiesa e non protegge più la coppia.
Anche questa un’illusione, la permalosità irridente di Eros – quando non è
riconosciuta la sua divinità – è nota da sempre, fin dalle Baccanti. Ma non si
impara mai nulla. Penteo il miscredente verrà fatto a pezzi dalle donne, per
prima dalla madre, a mmuerse de nanghe.
Cadmo sposo di Armonia e sua figlia Agave si separeranno per mai ritrovarsi.]
Ripenserò a questi versi.
Matera non c’è bisogno di descriverla. Gerusalemme è divina, è una diva, e come
tale non si mostra nuda ai registi nei suoi momenti hot (o di passione). Per quel
tipo di scene c’è Matera, sua splendida controfigura, body double, stunt city, Matera
adusa ad esporre il suo corpo di pietra vellutata color tortora alle cineprese.
Lo ha fatto – tra i tanti – con Pasolini, con Rosi, con Beresford, con Gibson,
con la Hardwicke. Così che a volte Matera stessa si trova a far confusione, o –
più maliziosamente – a infondere confusione nei suoi visitatori. Quante finte
croci (più vere della vera) sono state levate fra i suoi sassi, quanti finti
Gesù vi hanno disteso le braccia a favore di obiettivo.
[Raccontava un amico
pugliese che Matera è stata per molti mesi quasi ‘occupata’ dalla troupe di The Passion. Era stata reclutata gente
del posto per fare da comparsa, soprattutto per interpretare la canaglia che inveiva contro Gesù nella
sua salita al Calvario. Gibson aveva spiegato loro bene il compito: gridare,
insultare, tanto la loro voce non si sarebbe mai sentita, tutto sarebbe stato
doppiato in aramaico. I materani però, popolo religioso, vedendosi davanti
James Caviezel coperto di sangue come i cristi barocchi delle loro chiese, non
avevano proprio voglia di insultarlo. E venivano fuori parole come cattivo, mascalzone, al massimo carogna.
Allora Gibson interrompe: le parole, d’accordo, non si sentono, ma le facce si
vedono, e quelle parole quasi dolci non corrispondono a volti distorti dalla
ferocia e dall’odio. Dovevano insultare davvero, dandoci dentro, come se
passasse un odioso criminale. Ciak. Una comparsa: ricchione! Ecco, Matera, body double della Città Santa, è abituata
a questo e ne sorride.]
Eppure Matera è stata
veramente santa. Una tebaide, la Gravina un canyon / kedron scavata di grotte e
popolata di anacoreti. Centinaia le chiese rupestri, scavate nella fresca
roccia, vene spirituali nel tufo calcareo. I monaci basiliani vi sciamarono
nell’ottavo secolo con le sante icone avvolte nei mantelli, poiché l’eresia iconoclasta sostenuta dall'Imperatore di Bisanzio impediva loro di rappresentare il bell’amore, di baciarne l’immagine a mmuerse de nanghe.
E vennero gli armeni, e i
musulmani, e gli ebrei, lasciando memorie e graffiti, talvolta simboli noti,
talvolta labirinti indecifrabili. Si è preparata bene, Matera, ad essere
controfigura della città da Dio abitata.
E c’è una chiesa che
abbiamo visto. Ampia, luminosa, con i consueti affreschi di bizantino nitore.
Sotto però c’è una serie di grotte o di ipogei in cui si praticava la scolatura dei cadaveri. Il monaco defunto,
rivestito – penso – della sua cocolla, veniva collocato seduto in uno stallo di
pietra assolutamente simile a quelli riservati ai viventi, a fianco di altri
cadaveri. Poi veniva lasciato a disfarsi lentamente, seduto in questo coro
silenzioso con gli altri confratelli. Il luogo mi emoziona. Trovo uno stallo
che mi si addica, e mi siedo. Appoggio la nuca nell’incavo apposito e sento le
ossa del cranio sotto il velo di pelle viva. C non è contenta, avverte in
questo mio gesto una malsana attrazione verso il macabro, però come sempre
capisce che ho bisogno di solitudine e mi lascia. Eccomi, solo, nello stallo
monastico fatto perché scoli la vita
fino a lasciar solo il minerale. Penso ai monaci che mi hanno preceduto, seduti
sulla medesima pietra, appoggiati al medesimo sedile. Morti?
Morti, certamente,
dicevano i gesuiti che infaticabilmente combatterono questa consuetudine di
doppia sepoltura, sentendovi odore di paganesimo. Morti, forse, penso io.
Ho avuto la fortuna di
veder morire alcune persone, quindi di assistere direttamente al passaggio dalla
cosiddetta vita a quel non-si-sa-cosa che riserva l’Oltre. Di vedere i respiri
che cessavano, riprendevano, diminuivano la frequenza. Di udire il suono del
famoso e paventato rantolo [Se questo
respiro stressa la famiglia, scopolamina (0,3-0,6 mg SC o parenterale),
atropina (0,4-0,6 mg IM, SC o nebulizzata ogni 4 h o parenterale), ipratropio
(500 ég nebulizzati ogni 6-8 h) o glicopirrolato (0,2 mg EV parenterale o in
infusione continua suggerisce pratico il Manuale Merck] Di essere
testimone oculare dell’ultimo respiro (exspiravit).
I saggi monaci materani ne vedevano molte di più, e sapevano che la morte non è
un evento puntuale, ma un lungo processo che va accompagnato. La vita deve scolare. Come miele e spirito è colata
nel sangue attraverso i sensi, come miele e spirito deve scolare. La medicina cosiddetta ufficiale, i bioeticisti, i
giuristi, si affannano per trovare una definizione di morte perché possa essere
vista come una sorta di interruttore acceso/spento.
Comprensibile. Ma la morte non è lapalissiana, e non canta
la canzoncina per cui Monsieur d'la Palisse
est mort, / il est mort devant Pavie, / Un quart d'heure avant sa mort, / il
était encore en vie. Monsieur de
la Palisse non si sa bene quando muore. Se è tibetano, gli si sussurrano nell’orecchio
gli insegnamenti del Bardo Thodol, se è materano lo si pone seduto sul suo
stallo di pietra, se è un moderno fortunato gli si dirà un rosario e si farà un
po’ di veglia vicino a lui. Perché scoli
la vita.
Parlavo, qualche tempo
fa, con l’amico pS, a proposito di un saggio terribile del teologo ortodosso
Sergej Bulgakov, tanto intenso, vero e tremendo che lui non è riuscito ad
arrivare in fondo, come se si spalancasse sotto una voragine di abissale e
misteriosa verità. C’è uno svezzamento dell’anima dal corpo. Un lutto che l’anima
deve fare. Essa deve accomiatarsi, congedarsi, sciogliere a poco a poco nodi e legami e ormeggi, prendere il largo. Non è facile, non ci sono nebbioline azzurro newage, è una grande sofferenza, è un
periodo delicato e drammatico: per questo i vivi devono pregare con fervore,
perché questo distacco sia soave. Questo contrario (o questo identico, chissà)
dello svezzamento. Rilke lo intuiva: man
entwögnt sich des Irdischen sanft, wie man den Brüsten milde der Mutter entwächst
/ ci si divezza da ciò che è terreno, soavemente, come dal seno materno –
Prima Elegia di Duino, vv.86-87). Ma è davvero così soave divezzarsi dal seno
materno?
Ecco, ho in mente un
opposto logico di questo atteggiamento di svezzamento del morto. Talvolta vado
al Cimitero Monumentale, qui a Milano, a salutare alcuni ‘amici’, Alessandro
Manzoni, don Giussani, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci. Passando per il vialetto
centrale, a un certo punto immancabilmente il respiro mi si blocca nel petto. Davanti a questa
tomba.
Io penso che dentro
questo massiccio parallelepipedo edipico le trombe della resurrezione non si
sentano. O forse sì, ma che l’angelo avrà comunque il suo bel daffare a frantumarne il
cemento, a sciogliere i cadaveri della madre e del figlio avvinti in un
abbraccio, questo sì, mortifero e mortale. Possa un monaco materano, che ha
avuto invece la grazia di disfarsi soavemente, di lasciar scolare la sua vita
come miele in una fresca e ombrosa grotta, prenderli per mano e portarli via da
lì.
Domine, iam fetet: quadriduanus enim est, dice la povera Marta al Cristo commosso che
sembra delirare, allucinando un’apertura del sepolcro dell’amico Lazzaro. Puzzerà.
Ma l’Apicoltore della Vita sa far colare il miele nuovamente jinde u sanghe.
L’addormentarsi della
Madre, e il suo risveglio fulgente, alla presenza del Figlio, tra la meraviglia
dei dodici trasognati convocati dai quattro venti, mi vedrà se a Dio piace sotto un altro cielo,
ormai così vicino.