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martedì 27 maggio 2014

L'ultima lezione di Teologia

Era un mite dopopranzo quando, nel 1998, sono salito per la prima volta sulla cattedra di un’aula dell’Università Cattolica del Sacro Cuore per la mia prima lezione di Teologia. Fuori un sole estivo, ancora non era ottobre. Fra gli studenti, un amico e un compagno di ricerca, M, silenzioso, verticale, immobile, concentrato, con gli occhi chiusi. Come ero arrivato fino a quel punto io non lo sapevo allora, e ancora non lo so. Eppure un centinaio di studentesse e di studenti mi stavano ascoltando. Ricordo che iniziai – ex abrupto, senza neppure presentarmi, con una citazione del mio Maestro, Luigi Lombardi Vallauri, che parlava dell’etica come discendente da uno sguardo colmo di meraviglia per l’Essere.

E in una sera altrettanto mite, ieri, 2014, sono salito per l’ultima volta sulla cattedra di un’aula dell’Università Cattolica per la mia ultima lezione di Teologia. Fuori un cielo primaverile, intrecciato di nuvole e di azzurro, ancora non è giugno. Fra gli studenti, due amici e due compagni di ricerca, A e P, la prima con un sorriso dolce e gli occhi chiari e lucidi, il secondo serio e un po’ scuro in volto, attento, con suo immancabile laptop sulle ginocchia. Ho concluso con una fiaba di Karen Blixen, suggeritami da C.

Io sono forse abbastanza bravo nel nascere e nel ri-nascere, ma – quando lo faccio – generalmente mi dimentico di morire, prima. Meglio: non me ne dimentico, mi fa solo paura. Ed è per questo che ci sono in giro tanti miei fantasmi, tanti miei me che a morire non si decidono, e coloro che li incontrano pensano che sia io, e si spaventano. Chissà se uno di loro continuerà a girare fra questi ambulacri, entrando nelle aule Bisleti, Duns Scoto, Lombardo, Vito, Salvadori, Giovanni XXIII, e stupendosi di trovarci un altro, alla cattedra, che manovra una presentazione in Power Point.

Devo però dire che l’Alma Mater si era preparata bene, sfigurandosi di cantieri nelle strade adiacenti e perfino dentro, nei chiostri, avvolgendo le belle arcate di sudari bianchi. Entro nella Cappella, affidata a una Madre che anch’essa ho lasciato. Suonano le otto le campane di sant’Ambrogio. Ecco, ecco, entro in aula, è proprio oggi, è proprio ora la mia ultima volta.

Questa non è la prima ultima lezione, ne avevo fatto precedentemente un’altra ‘ultima’ (del corso triennale), e una carissima studentessa si è presa la briga di – come si dice in linguaggio studentesco – sbobinarla, ed è grazie a lei che posso ora trascriverla qui. Incontro proprio lei nell’ambulacro, la ringrazio, le chiedo se per caso volesse assistere all’ultima-ultima lezione. Si schermisce, dice di no.
Quel che segue è – più o meno – il testo della mia ultima lezione.

***
Cari, io vi auguro che la persona che incontrerete come docente di teologia, magari nel corso  della Laurea Specialistica, sia molto differente da me: che per esempio sia più sistematico, più tradizionalmente teologico, più responsabile, perché questo corso ha avuto, per il modo in cui lo svolto, la grande limitazione di non avervi dato una struttura. Abbiamo fatto come surf su delle onde, delle parole, dei climi interiori o concettuali, in particolare il desiderio, ma anche altri. Io mi auguro che chi mi succederà potrà dire la teologia non è solo questo: che è anche sistema, è anche pensiero chiaro e distinto, è anche – nel caso di questo Corso di Teologia Morale a Economia – l’analisi e il commento dei documenti della Dottrina Sociale della Chiesa. Io ho preferito un altro stile e in un certo senso ho potuto permettermelo, forse anche perché è l’ultimo corso di Teologia che terrò in questo Ateneo. Abbiamo aperto dei sentieri che poi non abbiamo percorso, dei sentieri interrotti, Holzwege, come direbbe Heidegger. Come avremmo potuto completarne anche uno solo? Ho potuto segnalarne l’inizio, poi a ciascuno di voi starà il desiderio, la voglia, la responsabilità, l’intraprendenza nell’inoltrarsi almeno in uno di essi.

Ora io sento il bisogno di dirvi delle ultime cose concernenti l’esistenza umana e quindi anche l’etica. Vi chiedo in anticipo perdono se queste cose avranno un tono forse un po’ enfatico, un po’ patetico però sono come gli ultimi consigli che uno sente di dover dare prima di andar via, prima prendere commiato, prima di dirsi ad Dio

Ecco, prima di congedarmi da voi io vorrei dirvi una cosa fondamentale: una verità che tutti sanno, banale, però ce lo siamo detti spesso: una cosa è sapere e un’altra realizzare . La verità è questa: c’è un aspetto tragico nell'esistenza: la vita si può mancare. Accade, non è qualcosa di fragoroso, di eclatante, non succedono delle cose particolari, degli eventi straordinari. La vita si manca in modo impercettibile ed è quasi una cospirazione (scriveva Rilke: Tutto cospira a tacere di noi) a cui la società collabora perché è nel suo interesse, è l’interesse di quella rete di poteri il non avere dinanzi, di fronte, di rimpetto, delle esistenze compiute, delle vite riuscite, ma delle disperate  machines désirantes, secondo la bella espressione di Deleuze. Sì, la vita si può mancare, e non ci sono sintomi particolari, non viene una grande febbre, non sopraggiungono dei grandi dolori per cui uno non può non accorgersi di star male (sto parlando evidentemente di dolori anche psicologici). Semplicemente, a poco a poco, impercettibilmente, si chiudono dei varchi, degli squarci, e alla fine la realtà diventa una specie di scontatezza. In queste condizioni, quando tutto è così, quando non ci sono più ferite, come se l’esistenza non avesse nessun taglio (non ci sono più tagli come quelli sulla tela di Fontana), quando c’è una specie di compattezza omogenea color pastello tutto intorno a noi, anche se non ci succede niente di straordinario, niente di particolarmente devastante, la vita è lentamente mancata e giunge alla sua fine in un sospiro. E’ drammatico: sarebbe meglio, per una vita così, subire uno sconvolgimento terribile, una malattia, una perdita, una disgrazia, l’imminenza della morte, sì, della morte, perché è l’unica possibilità rimasta per avere un sussulto di vita. Io ne conosco tante di queste vite, vite che silenziosamente si stanno mancando, si stanno chiudendo, esprimono null’altro che una banalità che non incontra più abissi, picchi, spaventi, terrori, amori, fascinazioni, i misteri, gli slanci, le passioni. 

Progressivamente scompaiono tutte queste cose che hanno il potere di condurre l’uomo fuori dal proprio ovile banale dentro cui si innesta la terribile ritualità quotidiana dell’abitudine (che cosa sono infatti le abitudini – così diverse dalla disciplina per esempio monastica - se non dei riti rassicuranti che servono a rendere tollerabile la banalizzazione dell’esistenza?) e alla fine uno non se ne accorge nemmeno più: la grande promessa che è una vita, ogni vita, ogni giovinezza, non viene mantenuta, finisce così. 

Quando ho iniziato a insegnare teologia avevo a che fare con persone molto giovani, con ragazze e ragazzi appena ventenni, al primo anno di università. Una delle cose che proponevo loro di fare era la cosiddetta time capsule. Chiedevo: Vi interesserebbe sentir parlare di un morto? Generalmente mi guardavano stupiti e annuivano, confidando probabilmente in un’iniziazione all’occulto. Ma io dicevo: “Oh, è abbastanza semplice: prendete un foglio di carta e scrivete una lettera a voi stessi in cui dite con verità quali sono i vostri desideri, le vostre aspettative, i vostri sogni, i vostri slanci, le vostre passioni, ciò in cui credete, ciò che temete; poi prendete questa lettera, la mettete dentro un guscio resistente e la seppellite sotto una quercia: però dovete tentare di dimenticarla.  Dovreste avere uno strumento che trent’anni dopo vi ricordasse di andare a disseppellire questo tesoro. I ragazzi avevano 22 anni, e io mi immaginavo un 52enne che andava davvero sotto quella quercia a scavare, che davvero tirava fuori la lettera e sentiva parlare un morto, perché quel ventiduenne non c’è più, è veramente morto. Potrebbe essere scioccante, incredibile: Eppure ero io! sono irriconoscibile! dove sono andato? Questa è la prova del fatto che l’esistenza si può mancare. Ah certamente, uno può invece trovarsi a dire: Ero un ragazzetto sciocco, ero un’ochetta da nulla a 18 anni e adesso che ne ho 60 sono Premio Nobel per la medicina! Credo che sia più raro mi permetto di dire che è più raro, ma è anche possibile. In generale c’è una specie di enorme promessa che quasi mai viene mantenuta e la vita è questo quotidiano non mantenere, questo inconsapevole scivolamento nel tepore della scontatezza. Dice l’Apocalisse di san Giovanni: Tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca (3, 15b-16). Dio sembra più vicino a chi si perde del tutto che con la banalità del bene. La vita perduta è diversa, e preferibile, rispetto alla vita mancata, anche all’interno della cornice cristiana. Quando Gesù dice: Le prostitute e i pubblicani vi precedono nel regno di Dio (Mt 21), non credo che stia facendo un’iperbole, un paradosso, credo che stia descrivendo una verità,  e cioè che la vita perduta è preferibile alla  vita mancata e che il rischio mortale, il peccato mortale, non è quel clamoroso abisso del male in cui si cade, e da cui quasi irresistibilmente Dio è mosso per recuperarci, come la pecora perduta per cui si lasciano tutte le altre. Tutti ricordate la celebre parabola dei due figli (Lc 15) in cui è descritto l’itinerario di una vita perduta: il figlio uccide simbolicamente il padre, chiedendogli appunto la parte di eredità e sperpera quei beni vivendo dissolutamente. Ma quando torna il padre gli va incontro e lo abbraccia, lo riveste, gli mette l’anello al dito e i sandali ai piedi e uccide per lui il vitello ingrassato. Con ciò suscita l’invidia dell’altro fratello che non si è perduto, ma ha mancato la vita. Ha chiesto al padre solo un capretto per una festicciola con gli amici a casa del papà, una trasgressioncina controllata, moderata, assicurata. E quindi, no, non gli viene dato neppure quel capretto. Il peccato del figlio maggiore è l’accontentarsi di poco, di non rischiare la vita perdendola per ritrovarla, di ritornare carico di esperienze per l’abbraccio rigeneratore. 

Beninteso, questa non è un’esortazione all’immoralità. Non è solo la vita perduta che si differenzia dalla vita mancata. C’è anche la vita riuscita: e la vita riuscita è quella  capace di integrare queste dimensioni non domestiche dentro una cornice armonica,  di trasformare quei suoni possenti e delicati di corno, di violino, di timpani ,in una sinfonia è per questo che tutte le sapienze, dagli stoici, ai cristiani, agli orientali, a Goethe, parlano della necessità di fare questo con la propria vita. Perché certamente, il talento nessuno se lo può dare, è un dono immeritato (ricordiamo il Mozart di Amadeus?), inutile pretendere che io diventi un musicista o un calciatore, posso appena essere un ascoltatore di musica o un tifoso, perché questi talenti io non li ho. Ma fare della propria vita un’opera d’arte, questo è compito di tutti. Sono stati messi a punto proprio degli esercizi, delle strategie per far sì che il rischio della rimarginazione del tessuto della realtà - perché il rischio che corriamo è che le ferite si rimarginino e non lascino più intravedere ciò che c’è dentro e dietro -  sia meno grave meno possibile.

Ci sono tanti antidoti: uno per esempio è decidere di frequentare ogni tanto gli abissi e guardarli. A partire dall’abisso per eccellenza, che è il divino.

Una volta ho paragonato Dio alla vetta di una montagna, e le religioni ai campi base che stanno alle pendici di questa montagna.  Vorrei provare a darvi un’altra immagine, visto che siete tutti invitati – tra qualche giorno – a un tè filosofico (o meglio tèologico).  Dio è come il tè. Bere il tè dalla teiera è difficile perché ci si ustiona: c’è bisogno di una coppa. I cammini spirituali, le religioni, sono come queste coppe: esse servono a bere il tè, possono essere coppe più meno adeguate, più o meno belle, più o meno decorate, perfino più o meno pulite, ma hanno la funzione di rendere accessibile ciò che per sua propria natura è inaccessibile. Se qualcuno vuole avvicinarsi direttamente alla teiera può provare: meglio che si ustioni piuttosto che rinunci a bere. Le religioni sono quel mezzo a volte inadeguato che consente di nutrirsi di ciò che di per sé sarebbe inavvicinabile. Il divino è l’inavvicinabile per eccellenza ma dentro una coppa può essere perfino bevuto. Quanto alla coppa fate voi, non credo che il divino se ne preoccupi poi tanto, può anche venire il momento in cui questa coppa può e deve venir gettata via, non è impossibile, però prima di gettare ciò che vi consente di avvicinare l’inavvicinabile ci penserei un po’.  

Tornando alla montagna, io vi auguro di trovare una buona Guida, un buon Maestro, perché la salita non è facile e ci sono molte insidie. Almeno qualche compagno di cordata cercate di averlo. Le amicizie nate per la ricerca, non quindi in un semplice intrecciarsi di sentimenti e di affinità – le amicizie nate perché si riconosce l’altro come qualcuno che condivide questa aspirazione verso il compimento della vita, ecco, queste amicizie sono un vero antidoto, perché se uno è da solo, lo abbiamo visto, non si accorge, ma dentro un’amicizia se sono spossato c’è un altro che mi aiuta e che mi solleva, e io sono responsabile dei miei compagni di ricerca, e loro sono responsabili di me.

Un altro suggerimento è quello di cambiare ogni tanto cielo:  non solo in senso geografico, certo.  Però è vero che più spesso uno viaggia anche fisicamente, e incontra altri pianeti e altri mondi, culturali ma anche geografici, meno probabile è che tutto si richiuda nel banale. Se potete fate alpinismo, fate navigazione solitaria, tuffatevi dalle scogliere, fate anche delle cose bizzarre, eccentriche, strane, siate dei risk takers, prendetevi dei rischi: anche questa è una strategia. Siamo la società del fattore-di-protezione-50 e dell’assicurazione e della legge 626. 

Un'altra cosa è esser pronti a rispondere quando si è visitati da un’occasione. Spesso esiste una falsa idea di responsabilità, una responsabilità rispetto alla propria banalità e non rispetto alla propria profondità. Dico di no a ciò che potrebbe trasformarmi perché devo studiare, laurearmi, sposarmi, lavorare, guadagnare, fino a che ormai, fino a che – come dice Silvano Petrosino – ora-mai.  Questa è una falsa responsabilità e un inganno e il suggerimento è quello di essere preparati a cogliere questi momenti di visitazione, quando qualcosa di più grande bussa alla porta dell’esistenza. Molti hanno vissuto assieme a Gesù, e neppure se ne sono accorti. A volte Lui irrompe a porte chiuse, sfonda la porta, ti strappa al meschino, come si vede nella vocazione di san Matteo del Caravaggio o al male, come nel disarcionamento di san Paolo dello stesso autore. Ma è preferibile essere pronti ad aprirla, quella porta. A dire: eccomi, come il padre Abramo. Anche se la salvezza non viene, voglio esserne degno a ogni istante – scrive l’ebreo Kafka. Meglio essere pronti ad accogliere la visita del mistero, che chiama ad andare dove non è dato sapere. Se lo si sa già, non partite nemmeno, non accettate viaggi con destinazione precostituita, non sono viaggi, sono anelli, e arrivi dove sei partito. 

Per concludere vorrei leggervi una fiaba della scrittrice danese Karen Blixen.
Un uomo viveva in una casupola tonda [disegno un cerchio sulla lavagna] con una finestra tonda [disegno un cerchietto dentro il cerchio più grande] e un giardinetto a triangolo [lo disegno]. Non lontano da quella casupola c’era uno stagno pieno di pesci [lo disegno, i pesci come piccoli trattini dentro una figura oblunga]. Una notte l’uomo fu svegliato da un rumore tremendo e uscì di casa per vedere cosa fosse accaduto. E nel buio si diresse subito verso lo stagno. Prima l’uomo corse verso sud [secondo le indicazioni della Blixen io disegno le strade percorse dall’uomo sulla lavagna mentre leggo], ma inciampò in un gran pietrone nel mezzo della strada; poi, dopo pochi passi, cadde in un fosso; si levò; cadde in un altro fosso, si levò, cadde in un terzo fosso e per la terza volta si rimise in piedi. Allora capì di essersi sbagliato e rifece di corsa la strada verso nord. Ma ecco che gli parve di nuovo di sentire il rumore a sud e si buttò a correre in quella direzione. Prima inciampò in un gran pietrone nel bel mezzo della strada, poi dopo pochi passi si levò, cadde in un fosso, si levò, cadde in un altro fosso, si levò, cadde in un terzo fosso e per la terza volta si rimise in piedi. Il rumore, ora lo avvertiva distintamente, proveniva dall’argine dello stagno. Si precipitò e vide che avevan fatto un grande buco, da cui usciva tutta l’acqua insieme con i pesci [disegno il fluire dell’acqua con i pesci con lunghi tratti di gesso]. Si mise subito al lavoro per tappare la falla, e solo quando ebbe finito se ne tornò a letto. La mattina dipoi affacciandosi alla finestrella tonda, che vide? Una cicogna! Son contenta – commenta la Blixen, e lo leggo – che mi abbiano raccontato questa fiaba. Al momento giusto mi sarà d’aiuto. L’avevano imbrogliato, l’ometto, e gli avevano messo tra i piedi tutti quegli ostacoli: “Quanto mi toccherà correre su e giù?” si sarà detto. “Che nottata di disdetta!” E si sarà chiesto il perché di tante tribolazioni: non lo poteva sapere davvero che quel perché era una cicogna. Ma con tutto ciò non perse mai di vista il suo proposito, non ci fu verso che cambiasse idea e se ne tornasse a casa, tenne duro fino in fondo. Ed ebbe la sua ricompensa: la mattina dopo vide la cicogna. Che bella risata si dovette fare. Questo buco dove mi muovo appena, questa fossa buia in cui giaccio, è forse il tallone di un uccello? Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno, una cicogna? ‘Infandum, Regina, jubes renovare dolorem’. Troia in fiamme, sette anni di esilio, tredici navi perdute. E il risultato? Eleganza insuperabile, imponenza maestosa, e tenerezza toccante. A leggere il secondo paragrafo del Credo cristiano, c’è da restare perplessi: fu crocifisso, morto e sepolto, discese all’inferno, il terzo giorno risuscitò da morte, salì al Cielo, da dove tornerà sulla terra. Quante corse su e giù, terribili come quelle dell’uomo della favola. E il risultato? Il secondo paragrafo del Credo di metà del mondo.


* * *


Solo, forse, quando sarà conclusa vedremo se la nostra vita, con le sue cadute e i suoi drammi e i suoi slanci – avrà generato un disegno compiuto. Forse Dio è un artista e usa le nostre vite come pennelli viventi per tracciare misteriosi ideogrammi che – letti dall’alto – compongono il poema umano. Il nostro compito – come quello dell’ometto della fiaba – è tener duro, è resistere, è essere responsabili dinanzi al proprio destino.

Questo è il vero viaggio dell’esistenza quel viaggio che non ha una destinazione precostituita, vissuto dentro quella attitudine fondamentale dell’essere umano che vi auguro sempre, e che si chiama avventura.


Si esce, e piove dolcemente. Infandum, Regina, iubes renovare dolorem – era la citazione dell’Eneide proposta dalla Blixen. Virgilio continua: et iam nox umida caelo / praecipitat suadentque cadentia sidera somnos, ormai scende la notte, e le stelle del tramonto invitano al sonno. Passando accanto ai cantieri provo una curiosità inedita, e sento le mani intrecciarsi dietro la schiena. Oddio, mi sto trasformando in pensionato? E’ questo il destino? P, davanti all’ingresso centrale, mi chiede spiegazioni, ma quelle che gli do non gli bastano. Sono ancora incerto – mi dice – non so se hai fatto una scelta sublime o una cazzata sublime. Rispondo che mi terrò stretto l’aggettivo. Poi andiamo al bar Magenta, A, P e io, a parlare un po’ di noi, ma senza patetismi. Io prendo un Long Island Iced Tea. Sembra tè, ma è vodka, tequila, rum, triple sec e gin: lo bevo come un simbolo e un augurio.