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martedì 4 giugno 2013

Pastis Ricard, Saorge

Potevo scegliere tanti fili tra quelli che hanno annodato le ore, potevo prendere tante tessere diverse per comporre il mosaico di questi giorni, per esempio potevo prendere le forme, i colori, il rosso il giallo il verde il blu il bianco il grigio il nero, potevo prendere gli sguardi, o le parole, l'intreccio dei discorsi; avrei potuto prendere le rose che sono rose che sono rose e che in abbondanza si donavano sui muri; avrei preso volentieri gli abbracci, anelli di carne e di sangue che si sono distesi per un giorno una notte e un giorno fra il Piemonte e la Francia.

No, scelgo il Pastis. Scelgo questo sacramento della freschezza e dell'ebrietà soave, della gialla luce solare resa liquida e delle stelle dell'anice, l'aroma delle quali il liquido pervade e rende vivo e lieto. Scelgo questa umanizzazione dell'assenzio, che ne conserva con leggerezza l'istanza poetica, ma che a differenza di quello si può bere sorridendo, senza sentirsi immediatamente chiamati a precipitare nella vertigine della dannazione. E insomma sì, scelgo il Pastis, rifugio dai calori e benedizione dei colori, consolazione dei cuori e propiziatore di sorrisi, tra Provenza, Costa Azzurra e Provincia Granda.

Del primo che abbiamo preso ho già detto. Preludio bergamasco sotto cielo grigio e pioggia, cospirazione affettuosa di un tuffo collettivo nella bellezza. Era un Pernod 51, poca liquirizia, sospettato dai puristi, e il 51 non ha a che fare con la gradazione alcolica, ma con una data, un anno di liberazione, 1951, la fine del proibizionismo dopo la seconda guerra mondiale.

Ma il primo del viaggio è stato un Ricard: liquirizia mediorientale, erbe provenzali e altri segreti e magici ingredienti.

Quanti eravamo non si seppe mai. Pur in pochissimi, quando si trattava di sedersi al tavolino per il Pastis, sbagliavamo sempre i conti, si aggiungevano sedie che restavano vuote, ma siamo forse in sei, in cinque, in otto? presto diventò un gioco, scherzavamo sulla nostra incapacità a far di conto, ma come ogni gioco aveva un versante serio, ci sono più cose e persone in cielo e in terra che nei nostri calcoli, e se qualche angelo avesse voluto sedersi con noi, stanco di volo e di dolore, non avrebbe avuto forse diritto a un suo posto? Chissà se ingarbugliandoci i pensieri non trovava
il modo di farci la grazia di ospitarlo, senza saperlo.

Dove eravamo? Il Ricard fu preso presso un muretto a precipizio su un immenso bagnasciuga. Sì, come se il mediterraneo avesse scagliato dal mezzogiorno un'onda smisurata, non un'onda distruttiva, però, non uno tsunami seminatore di lutto, un'onda enorme ma placida, come quelle che talvolta lambiscono la spiaggia più in là del previsto e avvolgono d'acqua il castello di sabbia del bambino, una così, ma tanto grande che ha raggiunto le alpi non a caso marittime, e ritirandosi - anziché conchiglie - avesse lasciato ulivi e rosmarino impigliati tra abeti e larici. Saorge è il castello di sabbia degli uomini bambini, ed è il castello dei sogni, luogo di senso e di soglia. Non a caso a me ricorda Zhangmu, il primo gruppo di case tibetane dopo il ponte che collega il Tibet alla Cina, quando lo vidi fra la pioggia, arrampicato sul cassone di un camion, in uno dei miei primi orienti. Le cupole colorate sulle chiese parlano ancora d'oriente. La luce di Saorge è misteriosa, il musicista - che ne conosce il segreto più profondo - ci fornisce una spiegazione accessibile, la nitidezza si deve all'aria di mare che incontra quella alpina, e che crea una composizione unica tra pastosità profumata e nitidezza scintillante. Sì, va bene, non so il tuo segreto, musicista, ma lo intuisco, altro che nord e sud, altro che mare e monti, altro che madre e padre, c'è un cielo e una terra che si sposano, qui: non mi parlar di effetti come se fossero cause.

Prima di sederci per bere il Ricard eravamo rimasti un po' quieti presso uno specchio azzurroverde di acqua e di pietra. Il musicista ci parla di consolazione e di morte, e di come questo talamo liquido possa vederle unirsi in un riflesso. Non c'è niente da dire, c'è da guardare ascoltare toccare immergere baciare.

Lo scultore guarda una casa e s'immagina di averla e di portarci la sua materia e il suo spirito, i suoi strumenti e le sue opere. Anche questo potrebbe essere un filo, un nesso, un legame. Tutte le case che ridendo lo scultore e voleva, e molto di più quelle che noi volevamo per lui ad ogni angolo bello e luminoso, per lo scultore senza casa e che forse mai ne avrà, per lo scultore che vive tra scatole di cartone semidisfatte e che ora custodiva ben velata agli altri una ferita non rimarginata: la perdita così recente della cava casa accogliente del cuore del suo maestro. Perché il musicista ha un violino che può avvolgere in una coperta e partire nelle notti in cui passa l'angelo sterminatore, nelle notti di Pasqua, in fretta, così, senza voltarsi. Ma lo scultore no, lui ha pietre e martelli e ferro e forge e forni, lui ha un immenso peso da portare per poter dar vita alle sue forme leggere.

C'è una casa di riposo a Saorge, e si chiama Le Temps des Cerises. Sogniamo di andarci quando non avremo più forza  E poi, una notte, scendere fino al lavatoio, dove Consolazione e Morte si congiungono, sedersi lì, fino al levarsi del giorno, per non esser più trovati.

Pastis Ricard, il primo, a Saorge. Il prossimo giro lo faremo a Nizza.


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