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sabato 17 agosto 2013

Cola e scola la vita: Ceglie, Matera, e presagi di Gerusalemme.

Ride divertito e intenerito, lo sguardo smeraldino di P -  la mia ospite - vedendomi impegnato nel tentativo di decifrare il senso dei versi scritti sul muro della casa, nella sua lingua agrodolce. …ma cchjù ddosce de nu mele ca me cole / jinde u sanghe, / de nu frutte ammature i ssucuse / a mmuerse de nanghe; / cchjù ddosce d’u recuerde de nu suenne…
Glielo leggo se vuole, forse può aiutarla; sì leggimelo per favore P; e lei, scolara compìta, macchiuddósce denumēle camecóle jindusànghe…: ah ecco jinde significa dentro; sì bravo; però non capisco nanghe, cosa vorrà mai dire; se lo traduce tutto le faccio un regalo. E alla fine ci arrivo: desiderio! oppure brama, ingordigia, una cosa così, divorato con foga, tradurrei, non letteralmente; perfetto, domattina le farò un regalo. Questo regalo P non me lo farà invece, ponendomi così in una condizione di aspettativa infinita e di intrigata curiosità, in una condizione, quindi, molto propizia, anche molto felice. Se il regalo fosse stato, non so, un souvenir del luogo, o un dolcetto, sarei stato deluso. Tutto qui? perché io attendevo il Tutto. Talvolta non mantenere la promessa è necessario, così che il pensiero giocoso di un regalo si possa trasformare nella speranza del Dono, nell’incredibile segretamente atteso – come direbbe Luigi Lombardi Vallauri. P conosce bene gli esseri umani.

E mentre questo accade, attorno, una trama di vicoli bianchi; un bucato di mura, di pietre, di porte, di chiese, di case, e perfino di lenzuola, un bucato di paese steso al gran sole sotto un cielo Pantone® dazzling blue 18 3949 TPX. Attorno, gente mite e silenziosa. Attorno, gli addobbi rococò con le lucine multicolori, pronte per accendersi di festosità deliziosamente pacchiana la sera di san Rocco.

Lasciato solo, vado a controllare su internet. Pietro Gatti, celebrità poetica locale del novecento, che sapeva guardare il suo paese e vederci l’universo: quei versi fanno parte di una sua poesia che traduco così, anche senza uno sguardo ridente davanti a cui offrire lo sforzo: Una parola semplice / ma più dolce del miele che mi cola / dentro il sangue /di un frutto maturo e succoso / divorato con foga, / più dolce del ricordo di un sogno / che per tutto il giorno mi dilaga nel cuore / dell’anima sperduta in questo cielo /che stanotte [ancora san Lorenzo, ancora le Perseidi] si svortica di stelle / è tutta una magia / d’amore il nome tuo, bell’amore.

Ripenserò a lungo a questi versi. Cola la vita, ininterrottamente, dentro di noi. Non c’è niente che non sia nutrimento. Cola la vita in noi attraverso innumerevoli vie, perché non in pane solo vivet homo, e tutti – non solo Bologna – abbiamo sperimentato cosa significa essere sazi e disperati (ossia sazi e denutriti), e tutti sappiamo come invece si è potuto vivere per molti giorni mangiando quasi niente, avendo però accesso ad altri alimenti. Saggezza delle vie spirituali: tutto nutre, tutto cola dentro di te trasformandosi in vita, ed ecco dunque la bellezza della vita ascetica. Radiose quaresime – secondo l’espressione felice di Alexander Schmemann – in cui stupefatti ci accorgiamo di poterci nutrire di colori e di suoni [e quel violino invisibile, e quell’ottone misterioso, che ripeteva incessantemente tre note, quanto ha nutrito C e me che attraversavamo il paese bianco], di sguardi e di parole, di pensieri e di sogni e di trasogni, perfino di dolore – ché abbiamo in noi i fermenti galattici vivi per trasformarlo - e soprattutto del tuo nome, bell’amore. Digiuno come gioia dei sensi (infine, anche del gusto, senso negletto, abituato a farsi da parte per dare spazio alla bramosia) e gioia del Senso, che cola come miele attraverso ogni nostra fessura sull’Essere, che sia bocca narice orecchio occhio o ferita.

[Sì. Però c’è appunto la bramosia. A mmuerse de nanghe. Non si può dimenticarlo. Come per esempio si è fatto nel nuovo rito del matrimonio cattolico, dove – illudendosi di omaggiare l’inviolabile soggettività dell’altro – ora la sposa accoglie (o si unisce) allo sposo, non lo prende più; lo sposo accoglie (o si unisce) alla sposa, non la prende più: cosicché alla cerimonia sono presenti il prete i testimoni i genitori e gli invitati tutti, ma Eros il dio bramoso, il dio che prende, viene cacciato via dalla chiesa e non protegge più la coppia. Anche questa un’illusione, la permalosità irridente di Eros – quando non è riconosciuta la sua divinità – è nota da sempre, fin dalle Baccanti. Ma non si impara mai nulla. Penteo il miscredente verrà fatto a pezzi dalle donne, per prima dalla madre, a mmuerse de nanghe. Cadmo sposo di Armonia e sua figlia Agave si separeranno per mai ritrovarsi.]

Ripenserò a questi versi. Matera non c’è bisogno di descriverla. Gerusalemme è divina, è una diva, e come tale non si mostra nuda ai registi nei suoi momenti hot (o di passione). Per quel tipo di scene c’è Matera, sua splendida controfigura, body double, stunt city, Matera adusa ad esporre il suo corpo di pietra vellutata color tortora alle cineprese. Lo ha fatto – tra i tanti – con Pasolini, con Rosi, con Beresford, con Gibson, con la Hardwicke. Così che a volte Matera stessa si trova a far confusione, o – più maliziosamente – a infondere confusione nei suoi visitatori. Quante finte croci (più vere della vera) sono state levate fra i suoi sassi, quanti finti Gesù vi hanno disteso le braccia a favore di obiettivo.
[Raccontava un amico pugliese che Matera è stata per molti mesi quasi ‘occupata’ dalla troupe di The Passion. Era stata reclutata gente del posto per fare da comparsa, soprattutto per interpretare la canaglia che inveiva contro Gesù nella sua salita al Calvario. Gibson aveva spiegato loro bene il compito: gridare, insultare, tanto la loro voce non si sarebbe mai sentita, tutto sarebbe stato doppiato in aramaico. I materani però, popolo religioso, vedendosi davanti James Caviezel coperto di sangue come i cristi barocchi delle loro chiese, non avevano proprio voglia di insultarlo. E venivano fuori parole come cattivo, mascalzone, al massimo carogna. Allora Gibson interrompe: le parole, d’accordo, non si sentono, ma le facce si vedono, e quelle parole quasi dolci non corrispondono a volti distorti dalla ferocia e dall’odio. Dovevano insultare davvero, dandoci dentro, come se passasse un odioso criminale. Ciak. Una comparsa: ricchione! Ecco, Matera, body double della Città Santa, è abituata a questo e ne sorride.]

Eppure Matera è stata veramente santa. Una tebaide, la Gravina un canyon / kedron scavata di grotte e popolata di anacoreti. Centinaia le chiese rupestri, scavate nella fresca roccia, vene spirituali nel tufo calcareo. I monaci basiliani vi sciamarono nell’ottavo secolo con le sante icone avvolte nei mantelli, poiché l’eresia iconoclasta sostenuta dall'Imperatore di Bisanzio impediva loro di rappresentare il bell’amore, di baciarne l’immagine a mmuerse de nanghe.
E vennero gli armeni, e i musulmani, e gli ebrei, lasciando memorie e graffiti, talvolta simboli noti, talvolta labirinti indecifrabili. Si è preparata bene, Matera, ad essere controfigura della città da Dio abitata.

E c’è una chiesa che abbiamo visto. Ampia, luminosa, con i consueti affreschi di bizantino nitore. Sotto però c’è una serie di grotte o di ipogei in cui si praticava la scolatura dei cadaveri. Il monaco defunto, rivestito – penso – della sua cocolla, veniva collocato seduto in uno stallo di pietra assolutamente simile a quelli riservati ai viventi, a fianco di altri cadaveri. Poi veniva lasciato a disfarsi lentamente, seduto in questo coro silenzioso con gli altri confratelli. Il luogo mi emoziona. Trovo uno stallo che mi si addica, e mi siedo. Appoggio la nuca nell’incavo apposito e sento le ossa del cranio sotto il velo di pelle viva. C non è contenta, avverte in questo mio gesto una malsana attrazione verso il macabro, però come sempre capisce che ho bisogno di solitudine e mi lascia. Eccomi, solo, nello stallo monastico fatto perché scoli la vita fino a lasciar solo il minerale. Penso ai monaci che mi hanno preceduto, seduti sulla medesima pietra, appoggiati al medesimo sedile. Morti?

Morti, certamente, dicevano i gesuiti che infaticabilmente combatterono questa consuetudine di doppia sepoltura, sentendovi odore di paganesimo. Morti, forse, penso io.
Ho avuto la fortuna di veder morire alcune persone, quindi di assistere direttamente al passaggio dalla cosiddetta vita a quel non-si-sa-cosa che riserva l’Oltre. Di vedere i respiri che cessavano, riprendevano, diminuivano la frequenza. Di udire il suono del famoso e paventato rantolo [Se questo respiro stressa la famiglia, scopolamina (0,3-0,6 mg SC o parenterale), atropina (0,4-0,6 mg IM, SC o nebulizzata ogni 4 h o parenterale), ipratropio (500 ég nebulizzati ogni 6-8 h) o glicopirrolato (0,2 mg EV parenterale o in infusione continua suggerisce pratico il Manuale Merck] Di essere testimone oculare dell’ultimo respiro (exspiravit). I saggi monaci materani ne vedevano molte di più, e sapevano che la morte non è un evento puntuale, ma un lungo processo che va accompagnato. La vita deve scolare. Come miele e spirito è colata nel sangue attraverso i sensi, come miele e spirito deve scolare. La medicina cosiddetta ufficiale, i bioeticisti, i giuristi, si affannano per trovare una definizione di morte perché possa essere vista come una sorta di interruttore acceso/spento. Comprensibile. Ma la morte non è lapalissiana, e non canta la canzoncina per cui Monsieur d'la Palisse est mort, / il est mort devant Pavie, / Un quart d'heure avant sa mort, / il était encore en vie. Monsieur de la Palisse non si sa bene quando muore. Se è tibetano, gli si sussurrano nell’orecchio gli insegnamenti del Bardo Thodol, se è materano lo si pone seduto sul suo stallo di pietra, se è un moderno fortunato gli si dirà un rosario e si farà un po’ di veglia vicino a lui. Perché scoli la vita.

Parlavo, qualche tempo fa, con l’amico pS, a proposito di un saggio terribile del teologo ortodosso Sergej Bulgakov, tanto intenso, vero e tremendo che lui non è riuscito ad arrivare in fondo, come se si spalancasse sotto una voragine di abissale e misteriosa verità. C’è uno svezzamento dell’anima dal corpo. Un lutto che l’anima deve fare. Essa deve accomiatarsi, congedarsi, sciogliere a poco a poco nodi e legami e ormeggi, prendere il largo. Non è facile, non ci sono nebbioline azzurro newage, è una grande sofferenza, è un periodo delicato e drammatico: per questo i vivi devono pregare con fervore, perché questo distacco sia soave. Questo contrario (o questo identico, chissà) dello svezzamento. Rilke lo intuiva: man entwögnt sich des Irdischen sanft, wie man den Brüsten milde der Mutter entwächst / ci si divezza da ciò che è terreno, soavemente, come dal seno materno – Prima Elegia di Duino, vv.86-87). Ma è davvero così soave divezzarsi dal seno materno?

Ecco, ho in mente un opposto logico di questo atteggiamento di svezzamento del morto. Talvolta vado al Cimitero Monumentale, qui a Milano, a salutare alcuni ‘amici’, Alessandro Manzoni, don Giussani, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci. Passando per il vialetto centrale, a un certo punto immancabilmente il respiro mi si blocca nel petto. Davanti a questa tomba.



Io penso che dentro questo massiccio parallelepipedo edipico le trombe della resurrezione non si sentano. O forse sì, ma che l’angelo avrà comunque il suo bel daffare a frantumarne il cemento, a sciogliere i cadaveri della madre e del figlio avvinti in un abbraccio, questo sì, mortifero e mortale. Possa un monaco materano, che ha avuto invece la grazia di disfarsi soavemente, di lasciar scolare la sua vita come miele in una fresca e ombrosa grotta, prenderli per mano e portarli via da lì.

Domine, iam fetet: quadriduanus enim est, dice la povera Marta al Cristo commosso che sembra delirare, allucinando un’apertura del sepolcro dell’amico Lazzaro. Puzzerà. Ma l’Apicoltore della Vita sa far colare il miele nuovamente jinde u sanghe.

L’addormentarsi della Madre, e il suo risveglio fulgente, alla presenza del Figlio, tra la meraviglia dei dodici trasognati convocati dai quattro venti, mi vedrà se a Dio piace sotto un altro cielo, ormai così vicino.



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