Per i pigri, per gli
inutili, per gli abusivi esistenziali, per i parassiti della vita non c’è e non
ci può essere vacanza. Lo scriveva qualche giorno fa sul giornale, con altre e
più efficaci parole, Alfonso Berardinelli. In particolare non ci può essere per
i pigri che non amano la propria pigrizia, che non l’abbracciano, che non la
indossano serenamente e se vogliamo anche letterariamente; per i pigri
perseguitati da un super-Io atletico, nordico e militare, che ininterrottamente
urla loro nelle orecchie che dovrebbero essere da un’altra parte a fare qualcos’altro:
perlamordiddio a ‘fare’! Per i pigri infelici. Per i pigri come me.
Per loro - intendo: per
quelli come me - i giorni di agosto sono come maglie di una grande graticola di
tempo, ‘ferragosto’ – la parola - fin da
bambino mi richiamava la mia carne e il mio spirito fatti ai ferri dal sole e
dalla noia, e naturalmente agosto ha il suo gran santo in Lorenzo, il dieci:
Lorenzo, quello che sulla graticola ci salì davvero. Ad agosto il super-Io
potrebbe lasciar la presa, e invece – e paradossalmente – tende le redini al
massimo, facendoti schiumare come un cavallo da dressage. Ti somministra ininterrottamente piccoli ma feroci colpi
di frustino. Quando sei nel pieno dell’attività dell’anno il super-Io ti lascia
fare: della punizione del pigro si incaricano altri soggetti, i capi, i
colleghi, i creditori, coloro che da te si attendono presenza e prestazioni; ma
in agosto, dove quasi nessuno ti cerca, è lui a fartela pagare, e ah se ci
prova gusto.
La casa di C, sulle dolci
colline che si levano a oriente del Verbano, è collocata in un luogo incantevole.
Il grande lago disteso, quasi da Locarno a Stresa, la sua costa occidentale, le
prealpi che lo separano dalla selvaggia Valgrande, e poi, miracolosamente resa visibile
da una mezzaluna concava del profilo dei monti, la maestosa parete ovest del
Monte Rosa con le sue quattro cime (Gnifetti Zumstein Dufour Nordend), il
Lyskamm e i crestoni intitolati ad alpinisti coraggiosi e forse morti. Forse,
perché chissà, Zapparoli, se è morto davvero. La casa di C è un parallelepipedo
leggero rivestito di legno chiaro, e vedendola per la prima volta non c’è chi
non pensi alla Scandinavia. Per qualche misteriosa ragione, in questo incanto,
non è infrequente che il super-Io mi attenda, e mi dica che dovrei utilizzare
il tempo per far qualcosa di maschile, di virile, di salutistico e salutare, tipo
svegliarmi presto e andare a camminare sulle alte vie con i bastoncini
telescopici, tic toc tic toc, e la frutta secca e una mela nel leggero
zainetto, e tornare tonificato dal vento e dall’aria pura. O, non so, spaccare
la legna, o costruire un capanno per gli attrezzi, o almeno scrivere, studiare,
o mettere un po’ d’ordine nella mia agenda. Un ritmo, una regola. Suvvia.
Meritarmela, la vita. E a me tutte queste cose piacerebbe farle, davvero, ma
non so da che parte cominciare, mi prende un gran sonno (un sonno immenso,
costante, non un riposo ma una condizione stabile, intervallata da risvegli
allucinati e – diciamolo – anche un po’ ebeti) e allora non riesco altro se non
a stendere un’amaca tra due alberi e rovesciarmici dentro, essendo da essa
fagocitato come un fagiolo da un immenso baccello di tela odorosa, portandomi
dietro l’ipod e un libro. Eh, ma non credete, è il super-Io che mi dondola
lentamente, e intanto mi canta la sua nota canzoncina. La casa di C è in un
territorio abitato da gente lavoratrice, alacre, e l’indolente che è in me si
trova fuori luogo, mentre il super-Io si sente proprio a suo agio ed estrae i
suoi strumenti per l’ agotortura.
Pensa. Per quanto detesti
Firenze e lo si sappia, quando qualche settimana fa sono tornato nella mia casa
sui tetti, lasciata in totale abbandono dagli affittuari precedenti, nello
squallore totale che esprimeva tra bottiglie di whisky rotolanti sul pavimento,
ciarpame abbandonato, letti sfasciati con le doghe che ricordavano il relitto
spiaggiato di una nave, le ante degli armadi aperte e scardinate, le finestre
rimaste anch'esse aperte da tempo immemorabile, ecco, mi son sentito meglio. Ho potuto
gettarmi su un materasso sporco, in qualche modo relitto io stesso di un antico
naufragio, lasciar entrare da fuori il suono delle campane e i sistri degli
Hare Krishna, dormire bene, abbandonarmi. Il super-Io non mi avrebbe mai
trovato lì dentro. Nella penombra gli armadi aperti su un buio profondo
alludevano all’ingresso misterioso di una possibile Narnia. Fantasma fra i
fantasmi, non mi potevo neppure far paura. Relitto fra relitti, che senso aveva
compatirsi? Anzi c’era tra noi come una fraternità d’armi, da reduci o da
sopravvissuti.
Eppure, sul lago, una
sera la luna del ramadan era cresciuta fino al primo quarto e tramontava tra
rosa perlacei, tra cinquecento sfumature di grigio, tra pervinca e indaco. A
destra, Venere vespertina. Sdraiati in giardino, vicino a un’incongrua palma a
rafforzare il tocco islamico. Tacevano finalmente i tosaerba ruggenti, dal
suono così amato dal super-Io. Il lieve odore di BBQ lasciava il campo ai
quello dei fiori notturni. Il tè vicino, fumante e consolante. Piano piano una
concavità colma di stelle, Arturo Vega Deneb Altair e altre bellissime. Nessuna
realizzazione cosmica, non questa volta. Non il meraviglioso sgomento cosmico,
non la vertigine. Invece come il cielo stellato di un presepe, di quelli
arrotolati che si comprano in cartoleria. Dentro, un’attesa semplice. Qualche
desiderio da sottoporre all’ordalia divertente delle stelle cadenti. E venti,
dico venti ne sono cadute. Una dopo l’altra, alcune piccole e afferrate con la
coda dell’occhio, altre maestose e solenni e pascoliane, una perfino doppia.
Venti, e non c’erano più desideri. E a un certo punto (la aspettavo, avevo
letto del suo passaggio su un’applicazione apposita dell’IPhone) da WNW verso
NE, la Stazione Spaziale Internazionale, punto veloce e luminoso, clausura nell’infinito
abitata da romiti tecnologici.
Marie Dacke et al, in Current Biology, dice che gli scarabei
stercorari, notoriamente nutriti di merda, si orientano guardando la Via
Lattea. Toi galactique stercoraire, mon
semblable, mon frère.
Si salverà chi non ha voglia di far niente, non sa
fare niente. Cantava Battiato. Un
ritornello, un mantra da cantare, povera speranza pop alla quale non si riesce
a credere.
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