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lunedì 12 agosto 2013

Si salverà chi non ha voglia di far niente non sa fare niente

Per i pigri, per gli inutili, per gli abusivi esistenziali, per i parassiti della vita non c’è e non ci può essere vacanza. Lo scriveva qualche giorno fa sul giornale, con altre e più efficaci parole, Alfonso Berardinelli. In particolare non ci può essere per i pigri che non amano la propria pigrizia, che non l’abbracciano, che non la indossano serenamente e se vogliamo anche letterariamente; per i pigri perseguitati da un super-Io atletico, nordico e militare, che ininterrottamente urla loro nelle orecchie che dovrebbero essere da un’altra parte a fare qualcos’altro: perlamordiddio a ‘fare’! Per i pigri infelici. Per i pigri come me.

Per loro - intendo: per quelli come me - i giorni di agosto sono come maglie di una grande graticola di tempo, ‘ferragosto’ – la parola -  fin da bambino mi richiamava la mia carne e il mio spirito fatti ai ferri dal sole e dalla noia, e naturalmente agosto ha il suo gran santo in Lorenzo, il dieci: Lorenzo, quello che sulla graticola ci salì davvero. Ad agosto il super-Io potrebbe lasciar la presa, e invece – e paradossalmente – tende le redini al massimo, facendoti schiumare come un cavallo da dressage. Ti somministra ininterrottamente piccoli ma feroci colpi di frustino. Quando sei nel pieno dell’attività dell’anno il super-Io ti lascia fare: della punizione del pigro si incaricano altri soggetti, i capi, i colleghi, i creditori, coloro che da te si attendono presenza e prestazioni; ma in agosto, dove quasi nessuno ti cerca, è lui a fartela pagare, e ah se ci prova gusto.

La casa di C, sulle dolci colline che si levano a oriente del Verbano, è collocata in un luogo incantevole. Il grande lago disteso, quasi da Locarno a Stresa, la sua costa occidentale, le prealpi che lo separano dalla selvaggia Valgrande, e poi, miracolosamente resa visibile da una mezzaluna concava del profilo dei monti, la maestosa parete ovest del Monte Rosa con le sue quattro cime (Gnifetti Zumstein Dufour Nordend), il Lyskamm e i crestoni intitolati ad alpinisti coraggiosi e forse morti. Forse, perché chissà, Zapparoli, se è morto davvero. La casa di C è un parallelepipedo leggero rivestito di legno chiaro, e vedendola per la prima volta non c’è chi non pensi alla Scandinavia. Per qualche misteriosa ragione, in questo incanto, non è infrequente che il super-Io mi attenda, e mi dica che dovrei utilizzare il tempo per far qualcosa di maschile, di virile, di salutistico e salutare, tipo svegliarmi presto e andare a camminare sulle alte vie con i bastoncini telescopici, tic toc tic toc, e la frutta secca e una mela nel leggero zainetto, e tornare tonificato dal vento e dall’aria pura. O, non so, spaccare la legna, o costruire un capanno per gli attrezzi, o almeno scrivere, studiare, o mettere un po’ d’ordine nella mia agenda. Un ritmo, una regola. Suvvia. Meritarmela, la vita. E a me tutte queste cose piacerebbe farle, davvero, ma non so da che parte cominciare, mi prende un gran sonno (un sonno immenso, costante, non un riposo ma una condizione stabile, intervallata da risvegli allucinati e – diciamolo – anche un po’ ebeti) e allora non riesco altro se non a stendere un’amaca tra due alberi e rovesciarmici dentro, essendo da essa fagocitato come un fagiolo da un immenso baccello di tela odorosa, portandomi dietro l’ipod e un libro. Eh, ma non credete, è il super-Io che mi dondola lentamente, e intanto mi canta la sua nota canzoncina. La casa di C è in un territorio abitato da gente lavoratrice, alacre, e l’indolente che è in me si trova fuori luogo, mentre il super-Io si sente proprio a suo agio ed estrae i suoi strumenti per l’ agotortura.

Pensa. Per quanto detesti Firenze e lo si sappia, quando qualche settimana fa sono tornato nella mia casa sui tetti, lasciata in totale abbandono dagli affittuari precedenti, nello squallore totale che esprimeva tra bottiglie di whisky rotolanti sul pavimento, ciarpame abbandonato, letti sfasciati con le doghe che ricordavano il relitto spiaggiato di una nave, le ante degli armadi aperte e scardinate, le finestre rimaste anch'esse aperte da tempo immemorabile, ecco, mi son sentito meglio. Ho potuto gettarmi su un materasso sporco, in qualche modo relitto io stesso di un antico naufragio, lasciar entrare da fuori il suono delle campane e i sistri degli Hare Krishna, dormire bene, abbandonarmi. Il super-Io non mi avrebbe mai trovato lì dentro. Nella penombra gli armadi aperti su un buio profondo alludevano all’ingresso misterioso di una possibile Narnia. Fantasma fra i fantasmi, non mi potevo neppure far paura. Relitto fra relitti, che senso aveva compatirsi? Anzi c’era tra noi come una fraternità d’armi, da reduci o da sopravvissuti.

Eppure, sul lago, una sera la luna del ramadan era cresciuta fino al primo quarto e tramontava tra rosa perlacei, tra cinquecento sfumature di grigio, tra pervinca e indaco. A destra, Venere vespertina. Sdraiati in giardino, vicino a un’incongrua palma a rafforzare il tocco islamico. Tacevano finalmente i tosaerba ruggenti, dal suono così amato dal super-Io. Il lieve odore di BBQ lasciava il campo ai quello dei fiori notturni. Il tè vicino, fumante e consolante. Piano piano una concavità colma di stelle, Arturo Vega Deneb Altair e altre bellissime. Nessuna realizzazione cosmica, non questa volta. Non il meraviglioso sgomento cosmico, non la vertigine. Invece come il cielo stellato di un presepe, di quelli arrotolati che si comprano in cartoleria. Dentro, un’attesa semplice. Qualche desiderio da sottoporre all’ordalia divertente delle stelle cadenti. E venti, dico venti ne sono cadute. Una dopo l’altra, alcune piccole e afferrate con la coda dell’occhio, altre maestose e solenni e pascoliane, una perfino doppia. Venti, e non c’erano più desideri. E a un certo punto (la aspettavo, avevo letto del suo passaggio su un’applicazione apposita dell’IPhone) da WNW verso NE, la Stazione Spaziale Internazionale, punto veloce e luminoso, clausura nell’infinito abitata da romiti tecnologici.

Marie Dacke et al, in Current Biology, dice che gli scarabei stercorari, notoriamente nutriti di merda, si orientano guardando la Via Lattea. Toi galactique stercoraire, mon semblable, mon frère.


Si salverà chi non ha voglia di far niente, non sa fare niente. Cantava Battiato. Un ritornello, un mantra da cantare, povera speranza pop alla quale non si riesce a credere.


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