Gare Saint-Lazare, Parigi, più o meno ora di
pranzo di venerdì. Non ci posso credere:
e questo forse è un buon presupposto per la tre giorni di dialogo
interreligioso che sta per iniziare.
Ho un appuntamento con un rabbino che non ho
mai visto, ma il signore che si sta avvicinando, studiandomi come io studio
lui, ha in testa una calottina beige fatta all'uncinetto, un camicione aperto
su una maglietta nera che non riesce a snellire affatto uno dei più
rispettabili e prominenti addomi che io ricordi, esso medesimo morbidamente
appoggiato su pantaloni chiari che gli arrivano appena sotto il ginocchio, da
cui si protrudono bianchi polpacci nudi che terminano in due scarpe nere lucide
indossate senza calze. Or: io non è che mi aspettassi proprio shtreimel, cernecchi e cappotto nero ma.
Non ci posso credere, insomma è vero che sono
imbottito di farmaci per arginare uno spaventoso mal di schiena, e che ci
saranno trentacinque gradi, quindi non crederci magari è segno di salute, che ancora
distinguo il delirio dalla realtà. Si vede che non ho letto bene il bugiardino,
che ci sono effetti collaterali che non ho considerato, oppure che il combinato
disposto di tante e differenti sostanze genera conseguenze imprevedibili.
"Monsieur le Rabbin" azzardo,
tendendo timidamente la mano. Ecco, la sua faccia, avreste proprio dovuto
vederla, a quel punto. E io che mi ero pure preparato cercando su internet (comment s'adresser politement à un Rabbin).
Una mezzoretta dopo Rav G e io chiaccheriamo
allegramente su un treno che ci porta verso le Yvelines. Prima di salire gli avevo
chiesto se potevo offrirgio qualcosa da bere: "No, grazie, faccio il
Ramadan, posso bere e mangiare solo dopo le 21.40". Questa volta tutta da
vedere era la mia, di faccia. Eppure Rav G ci
è, non ci fa. No, calma, un po'
ci fa, ma in gran parte ci è proprio. E' un tipo anche abbastanza noto, almeno webwise, e tutti potremo apprezzarne la cultura straordinariamente vasta, l'erudizione piena di anima, il radicamento tradizionale totale e l'altrettanto totale apertura agli altri. Se è parco nel cibo, tuttavia, non lo è
nella parola: in poco tempo vengo a sapere che appartiene a un rarissimo
lignaggio sefardita, che ha sei figli (e dieci anni meno di me), che ha avuto
anche Leon Askhenazi come maestro (ma ce ne sono di migliori), che è paleografo
ed epigrafista, che ha madre turca e padre marocchino e che quindi abbraccia “geneticamente”
– ma anche culturalmente - tutta la parte meridionale del bacino del
mediterraneo, che è stato a Gerusalemme per vent'anni. Ah Gerusalemme. “Sei mai
stato nella cupola della Roccia?” chiede,
toccando un tasto per me dolentissimo. Ho tentato di entrare, rispondo, ma sono
quasi stato arrestato dalla polizia palestinese, e invano ho protestato
proclamandomi 'figlio di Abramo, rispettoso dell'islam': un tizio baffuto con
la faccia inquietantemente simile a quella di Saddam Hussein mi ha risposto:
'Figlio di Abramo, sei dunque ebreo?' 'No, cristiano' 'Oh, cristiano! Ci sono
tante chiese a Gerusalemme. Non le bastano per pregare?'. Rav G sorride un po'
come il gatto Garfield. “Io ci sono stato, ci vado ogni volta”. E come fai? “Dico che sono musulmano.
E' abbastanza semplice, se sai l'arabo come me”. Cioè ti chiedono se sei musulmano e tu rispondi di sì. “Bien evidemment...si
dà il caso che lo sia. 'Muslim' in arabo vuol dire 'sottomesso a Dio'; io sono
sottomesso a Dio, tu no, forse? Una volta mi hanno chiesto di recitare la sura
aprente del Corano (Bismillāhi al-Rahmāni
al-Rahīm Al-hamdu li-llāhi Rabbi l-ālamīn) ma mi hanno fatto arrivare solo al secondo
versetto...” Ma loro intendono un'altra cosa! protesto. “E' un loro problema, mi
pare, siano più specifici”. Mi
verrebbe da dirgli che sarebbe un ottimo gesuita, ma non lo faccio, nel timore
che mi risponda che certamente, è anche gesuita.
JM ci attende sorridendo alla stazione. Anche
lei non ha mai visto prima Rav G, ma avrà modo di apprezzarlo quasi subito. Il
caldo è mostruoso. In auto, andando verso Binanville, JM racconta qualcosa sul
castello in rovina, sulla fattoria biologica e il grande forno in pietra in cui
suo figlio fa il pane biologico. Rav G annuisce soddisfatto: “Ah, bello. Io
sono un fornaio”. JM ha un piccolo
sobbalzo, io sogghigno sul sedile posteriore, reso ormai immune dalla
meraviglia. “Un fornaio professionale beninteso. Forni a gas, industriali. Il
resto è roba da bambini” aggiunge
compiaciuto. Gli occhi grigi di JM si aprono lentamente: 'c'est pas vrai, c'est
pas vrai' ripete sommessamente, e non mi risulta che abbia il mal di schiena.
Giunti a casa di JM, e bevuta una
meravigliosa bevanda fresca a base di tiglio, conversiamo tranquillamente. A un
tratto arriva T. Si presenta con nella mano destra una bottiglia di vino e dei
cioccolatini, nell'altra un pomodoro morsicato. Assomiglia un po' a Kissinger
giovane, ed è invece un Pastore alsaziano. Nel senso di pastore protestante
alsaziano. Poggia sul tavolo vino e cioccolatini, e saluta tutti cordialmente,
addentando di tanto in tanto il suo pomodoro. T è una persona meravigliosa, di
straordinaria tenerezza. Ama veramente tutti, ogni essere vivente è oggetto
della sua benevolenza, con la trascurabile eccezione dei Lorenesi, che invece
detesta. Come credo dicesse Musatti, la guerra più desiderata è la guerra
civile. Il barbaro che invade i sacri confini della Patria, vabbè, se si deve
proprio, lo si combatterà: ma chi non ha mai sognato di accoppare il proprio
vicino di casa sotto il pretesto che è papista, o ugonotto, o nero, o del
pidielle, o comunista, o semplicemente – come diceva mia nonna – perché l’è di di là d’Arno?
Pomeriggio libero, chi legge, chi nuota, chi
si riposa. Accanto a me dorme della quarta un sacerdote cattolico siciliano, pG.
Ci vediamo la sera per la messa. Rav G arriva avvolto in una amplissima kandura
marrone, e ora sembra veramente un grande vascello trionfalmente veleggiante.
Sia il pastore che il rabbino partecipano attivamente alla messa cattolica, il
primo leggendo le letture, il secondo cantando il Padre Nostro, con una voce meravigliosa, in dolci-aspri melismi
aramaici. “Oh, il Padre Nostro, una preghiera ebrea al 100%” commenta
fieramente.
E’ calata la sera, quindi è terminato il
digiuno, si può dunque mangiare, e altroché se lo si fa. Parlando di uno dei
miei poeti preferiti – Yehuda Amichai – vengo a sapere da rav G che
naturalmente è anche poeta. “Poesia sefardita in rima e metrica, molto
difficile da comporre. Saremo rimasti in cinque o sei al mondo a saperla fare”.
E ve ne è di tradotta in lingue occidentali? “Oh no, una lingua occidentale non
è in grado di accogliere la profondità di senso delle parole ebraiche. Per
ognuna di esse occorrerebbe dare cinque o sei significati” Come la luce
attraverso un prisma, commento. “Esattamente. Forse potrebbe essere tradotta in
cinese.” Sai il cinese? “No.” Questa è una notizia. JM parla della sua
esperienza zen, e del suo Maestro, alcune delle cui calligrafie sono appese
alle pareti della casa. Rav G prende la palla al balzo, e dice che è anche
calligrafo, che la calligrafia araba e ebraica hanno una grande tradizione, in
nulla inferiore a quella cinese e giapponese. “Certo, c’è una differenza
fondamentale: nel bacino del Mediterraneo si usa il calamo, in estremo oriente
il pennello)”. Ah.
Tempo di andare a dormire. Con grande
gentilezza, rav G chiede a T di portare anche la sua valigia. Allo sguardo
interrogativo di tutti, risponde sorridendo: “E’ finito il digiuno di Ramadan,
ma è iniziato Shabbat! Non posso portare alcun peso. Anzi, a questo proposito,
a che ora cominciamo domani? Perché lo Shabbat prevede un sonno supplementare.
Non è che si possa dormire di più: si deve
dormire di più. Ed è un sonno mistico, generalmente pieno di sogni, di visioni,
di intuizioni…”. Fuori il cielo è pieno di stelle. A notte fonda, però, si
scatenerà un temporale.
Il giorno dopo arrivano tutti. S, D, la
carissima C (antica Maestra), l’incantevole MC, la misteriosa AH, con i
dreadlocks avvolti da un turbante che le conferisce un profilo egizio, G,
fragoroso e simpaticissimo libanese, G il francescano, M lo spagnolo esperto di
satelliti artificiali, il generosissimo e gigantesco S, che è esattamente come
uno si immaginerebbe un guerriero musulmano dei primi tempi, un califfo di
quelli con al fianco la spada Dhulfikar, P e soprattutto J.
J ha il volto severo e dolce come i santi
delle vetrate di Chartres. E’ impassibile, ma come luminoso dall’interno. Rende
spirituale praticamente ogni cosa che fa, dal mangiare a lavare i piatti. Raramente
ho visto una persona fare la vaisselle come la fa lui. JM chiede a J se può far
qualcosa per la mia schiena, e J – che è un osteopata professionista –
immediatamente si dichiara disponibile. Il trattamento dura circa una mezz’ora.
Con lievissimi movimenti J mette il mio corpo in equilibrio. Poi tocca
delicatamente alcuni punti della mia colonna vertebrale, ascoltandola: sembra
un musicista che accordi uno strumento musicale: la medesima attitudine di
paziente precisione di un liutaio. Sento che respira profondamente e lentamente.
A volte il tocco si fa più deciso e forte. In qualche modo, non è solo il
corpo, è l’anima ad essere toccata e curata. Il corpoanimaspirito. La cura ti
restituisce la totalità di te, ti ricompone. Il primo obiettivo non è il tuo
dolore fisico, è il tuo essere-a-pezzi ontologico. Ne esco con il mal di schiena ancora presente,
forse leggermente migliorato, ma con un approccio al dolore completamente
diverso. Tanto da pensare che la malattia ti sia data perché chiama il
guaritore, che il conflitto ti sia dato perché chiama il mediatore, che la
colpa ti sia data perché chiama il redentore, e perché la guarigione è una
condizione più bella della salute. Beati
coloro che hanno il mal di schiena, perché incontreranno J…
Ci sarebbero da dire tante cose dette. Cose
dette, pensate, condivise, in questo castello senza mura, dietro a questo portale romanico e massiccio che si leva nella campagna, sotto un cielo incredibilmente vasto e in perenne
movimento, come un tori giapponese in
mezzo all’oceano. Il compito di questo blog però non è di esporre contenuti, ma
di mostrare intravisioni, squarci, tagli nella tela del reale-banale.
Allora dirò piuttosto del rabbino e del musulmano che si
levano alle quattro del mattino e fanno colazione assieme prima di iniziare il
ramadan; delle benedizioni sul vino e sul pane in una lingua arcaica, rauca e
dolce assieme; del colloquio con S, che mi spiega come il Corano sia un immenso
koan, e si appassiona, e parla e parla e parla per un’ora e io so che non può
bere perché digiuna e non potrà per molte altre ore, e ricevo ogni parola come
un dono; delle risate e delle lacrime, di una pace che ci possedeva senza
essere da noi posseduta, di un’eccedenza di bene che tutti percepivamo senza
poterla definire.
Soprattutto dirò di una cena. Anzi non potrò dire, perché
il gusto appartiene all’indicibile, e come si fa a spiegare la freschezza
vivificante e in un certo senso terribile del tabbouleh preparato da G? Ci si
può sentire indegni di un cibo? Come
si fa a spiegare il buon vino, le courgettes
ricolme di ogni sapore? Il Vijnanabhairava
Tantra canta: jagdhipānakṛtollāsarasānandavijṛmbhaṇāt bhāvayed
bharitāvasthāṃ
mahānandas tato brave, ossia: Nel momento dell’ebbrezza e della
dilatazione dell’anima causata da cibi e bevande delicate, sii tutto in questa
delizia, e, attraverso di essa, gusta la suprema beatitudine.
E il tè, preparato e anzi offerto da S in un modo straordinario, da S che
poi non lo avrebbe bevuto,, affondando menta rugiadosa e appena colta nella
teiera e facendolo passare e ripassare con gesti magnifici in una coppa piena
di zucchero, ah il tè che ho bevuto in questa occasione si classifica senza
alcun dubbio tra i dieci tè più intensi e buoni della mia vita.
Se il Paradiso c’è, come dicono, non potrà essere tanto
differente da così. Anticipazione degli eschata: ecco la cifra di queste
giornate piene di luce. Ecco perché il Cristo li paragona a un banchetto.
Se ne vanno tutti, uno dopo l’altro, con silenziosa
affettuosità e con un certo pudore. Il distacco non è semplice e va abbreviato
e reso sobrio. Rimaniamo soli, JM, pG e io. Ci viene donato all’improvviso un
clamoroso arcobaleno, un arcobaleno a pieno semicerchio, un’iride eccelsa e
nitidissima, stagliata su nuvole ardesia, un arcobaleno, anzi due, celebrazione
cosmica di un’alleanza divinoumana.
JM osserva silenziosa il grandioso spettacolo. Congiunge
le mani con le palme rivolte verso l’altro. Chiude gli occhi. Merci, dice. Ma subito aggiunge: C’est trop.
Grazie a te Leo per averci mostrato questo squarcio di Grazia.
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