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venerdì 2 agosto 2013

"come iri da iri" - tre giorni a Binanville

Gare Saint-Lazare, Parigi, più o meno ora di pranzo di venerdì. Non ci posso credere: e questo forse è un buon presupposto per la tre giorni di dialogo interreligioso che sta per iniziare.
Ho un appuntamento con un rabbino che non ho mai visto, ma il signore che si sta avvicinando, studiandomi come io studio lui, ha in testa una calottina beige fatta all'uncinetto, un camicione aperto su una maglietta nera che non riesce a snellire affatto uno dei più rispettabili e prominenti addomi che io ricordi, esso medesimo morbidamente appoggiato su pantaloni chiari che gli arrivano appena sotto il ginocchio, da cui si protrudono bianchi polpacci nudi che terminano in due scarpe nere lucide indossate senza calze. Or: io non è che mi aspettassi proprio shtreimel, cernecchi e cappotto nero ma.
Non ci posso credere, insomma è vero che sono imbottito di farmaci per arginare uno spaventoso mal di schiena, e che ci saranno trentacinque gradi, quindi non crederci magari è segno di salute, che ancora distinguo il delirio dalla realtà. Si vede che non ho letto bene il bugiardino, che ci sono effetti collaterali che non ho considerato, oppure che il combinato disposto di tante e differenti sostanze genera conseguenze imprevedibili.
"Monsieur le Rabbin" azzardo, tendendo timidamente la mano. Ecco, la sua faccia, avreste proprio dovuto vederla, a quel punto. E io che mi ero pure preparato cercando su internet (comment s'adresser politement à un Rabbin).

Una mezzoretta dopo Rav G e io chiaccheriamo allegramente su un treno che ci porta verso le Yvelines. Prima di salire gli avevo chiesto se potevo offrirgio qualcosa da bere: "No, grazie, faccio il Ramadan, posso bere e mangiare solo dopo le 21.40". Questa volta tutta da vedere era la mia, di faccia. Eppure Rav G ci è, non ci fa. No, calma, un po' ci fa, ma in gran parte ci è proprio. E' un tipo anche abbastanza noto, almeno webwise, e tutti potremo apprezzarne la cultura straordinariamente vasta, l'erudizione piena di anima, il radicamento tradizionale totale e l'altrettanto totale apertura agli altri. Se è parco nel cibo, tuttavia, non lo è nella parola: in poco tempo vengo a sapere che appartiene a un rarissimo lignaggio sefardita, che ha sei figli (e dieci anni meno di me), che ha avuto anche Leon Askhenazi come maestro (ma ce ne sono di migliori), che è paleografo ed epigrafista, che ha madre turca e padre marocchino e che quindi abbraccia “geneticamente” – ma anche culturalmente - tutta la parte meridionale del bacino del mediterraneo, che è stato a Gerusalemme per vent'anni. Ah Gerusalemme. “Sei mai stato nella cupola della Roccia?” chiede, toccando un tasto per me dolentissimo. Ho tentato di entrare, rispondo, ma sono quasi stato arrestato dalla polizia palestinese, e invano ho protestato proclamandomi 'figlio di Abramo, rispettoso dell'islam': un tizio baffuto con la faccia inquietantemente simile a quella di Saddam Hussein mi ha risposto: 'Figlio di Abramo, sei dunque ebreo?' 'No, cristiano' 'Oh, cristiano! Ci sono tante chiese a Gerusalemme. Non le bastano per pregare?'. Rav G sorride un po' come il gatto Garfield. “Io ci sono stato, ci vado ogni volta”. E come fai? “Dico che sono musulmano. E' abbastanza semplice, se sai l'arabo come me”. Cioè ti chiedono se sei musulmano e tu rispondi di sì. “Bien evidemment...si dà il caso che lo sia. 'Muslim' in arabo vuol dire 'sottomesso a Dio'; io sono sottomesso a Dio, tu no, forse? Una volta mi hanno chiesto di recitare la sura aprente del Corano (Bismillāhi al-Rahmāni al-Rahīm Al-hamdu li-llāhi Rabbi l-ālamīn) ma mi hanno fatto arrivare solo al secondo versetto... Ma loro intendono un'altra cosa! protesto. “E' un loro problema, mi pare, siano più specifici”. Mi verrebbe da dirgli che sarebbe un ottimo gesuita, ma non lo faccio, nel timore che mi risponda che certamente, è anche gesuita.

JM ci attende sorridendo alla stazione. Anche lei non ha mai visto prima Rav G, ma avrà modo di apprezzarlo quasi subito. Il caldo è mostruoso. In auto, andando verso Binanville, JM racconta qualcosa sul castello in rovina, sulla fattoria biologica e il grande forno in pietra in cui suo figlio fa il pane biologico. Rav G annuisce soddisfatto: “Ah, bello. Io sono un fornaio”. JM ha un piccolo sobbalzo, io sogghigno sul sedile posteriore, reso ormai immune dalla meraviglia. “Un fornaio professionale beninteso. Forni a gas, industriali. Il resto è roba da bambini” aggiunge compiaciuto. Gli occhi grigi di JM si aprono lentamente: 'c'est pas vrai, c'est pas vrai' ripete sommessamente, e non mi risulta che abbia il mal di schiena.

Giunti a casa di JM, e bevuta una meravigliosa bevanda fresca a base di tiglio, conversiamo tranquillamente. A un tratto arriva T. Si presenta con nella mano destra una bottiglia di vino e dei cioccolatini, nell'altra un pomodoro morsicato. Assomiglia un po' a Kissinger giovane, ed è invece un Pastore alsaziano. Nel senso di pastore protestante alsaziano. Poggia sul tavolo vino e cioccolatini, e saluta tutti cordialmente, addentando di tanto in tanto il suo pomodoro. T è una persona meravigliosa, di straordinaria tenerezza. Ama veramente tutti, ogni essere vivente è oggetto della sua benevolenza, con la trascurabile eccezione dei Lorenesi, che invece detesta. Come credo dicesse Musatti, la guerra più desiderata è la guerra civile. Il barbaro che invade i sacri confini della Patria, vabbè, se si deve proprio, lo si combatterà: ma chi non ha mai sognato di accoppare il proprio vicino di casa sotto il pretesto che è papista, o ugonotto, o nero, o del pidielle, o comunista, o semplicemente – come diceva mia nonna – perché l’è di di là d’Arno?

Pomeriggio libero, chi legge, chi nuota, chi si riposa. Accanto a me dorme della quarta un sacerdote cattolico siciliano, pG. Ci vediamo la sera per la messa. Rav G arriva avvolto in una amplissima kandura marrone, e ora sembra veramente un grande vascello trionfalmente veleggiante. Sia il pastore che il rabbino partecipano attivamente alla messa cattolica, il primo leggendo le letture, il secondo cantando il Padre Nostro, con una voce meravigliosa, in dolci-aspri melismi aramaici. “Oh, il Padre Nostro, una preghiera ebrea al 100%” commenta fieramente.

E’ calata la sera, quindi è terminato il digiuno, si può dunque mangiare, e altroché se lo si fa. Parlando di uno dei miei poeti preferiti – Yehuda Amichai – vengo a sapere da rav G che naturalmente è anche poeta. “Poesia sefardita in rima e metrica, molto difficile da comporre. Saremo rimasti in cinque o sei al mondo a saperla fare”. E ve ne è di tradotta in lingue occidentali? “Oh no, una lingua occidentale non è in grado di accogliere la profondità di senso delle parole ebraiche. Per ognuna di esse occorrerebbe dare cinque o sei significati” Come la luce attraverso un prisma, commento. “Esattamente. Forse potrebbe essere tradotta in cinese.” Sai il cinese? “No.” Questa è una notizia. JM parla della sua esperienza zen, e del suo Maestro, alcune delle cui calligrafie sono appese alle pareti della casa. Rav G prende la palla al balzo, e dice che è anche calligrafo, che la calligrafia araba e ebraica hanno una grande tradizione, in nulla inferiore a quella cinese e giapponese. “Certo, c’è una differenza fondamentale: nel bacino del Mediterraneo si usa il calamo, in estremo oriente il pennello)”. Ah.

Tempo di andare a dormire. Con grande gentilezza, rav G chiede a T di portare anche la sua valigia. Allo sguardo interrogativo di tutti, risponde sorridendo: “E’ finito il digiuno di Ramadan, ma è iniziato Shabbat! Non posso portare alcun peso. Anzi, a questo proposito, a che ora cominciamo domani? Perché lo Shabbat prevede un sonno supplementare. Non è che si possa dormire di più: si deve dormire di più. Ed è un sonno mistico, generalmente pieno di sogni, di visioni, di intuizioni…”. Fuori il cielo è pieno di stelle. A notte fonda, però, si scatenerà un temporale.

Il giorno dopo arrivano tutti. S, D, la carissima C (antica Maestra), l’incantevole MC, la misteriosa AH, con i dreadlocks avvolti da un turbante che le conferisce un profilo egizio, G, fragoroso e simpaticissimo libanese, G il francescano, M lo spagnolo esperto di satelliti artificiali, il generosissimo e gigantesco S, che è esattamente come uno si immaginerebbe un guerriero musulmano dei primi tempi, un califfo di quelli con al fianco la spada Dhulfikar, P e soprattutto J.

J ha il volto severo e dolce come i santi delle vetrate di Chartres. E’ impassibile, ma come luminoso dall’interno. Rende spirituale praticamente ogni cosa che fa, dal mangiare a lavare i piatti. Raramente ho visto una persona fare la vaisselle come la fa lui. JM chiede a J se può far qualcosa per la mia schiena, e J – che è un osteopata professionista – immediatamente si dichiara disponibile. Il trattamento dura circa una mezz’ora. Con lievissimi movimenti J mette il mio corpo in equilibrio. Poi tocca delicatamente alcuni punti della mia colonna vertebrale, ascoltandola: sembra un musicista che accordi uno strumento musicale: la medesima attitudine di paziente precisione di un liutaio. Sento che respira profondamente e lentamente. A volte il tocco si fa più deciso e forte. In qualche modo, non è solo il corpo, è l’anima ad essere toccata e curata. Il corpoanimaspirito. La cura ti restituisce la totalità di te, ti ricompone. Il primo obiettivo non è il tuo dolore fisico, è il tuo essere-a-pezzi ontologico.  Ne esco con il mal di schiena ancora presente, forse leggermente migliorato, ma con un approccio al dolore completamente diverso. Tanto da pensare che la malattia ti sia data perché chiama il guaritore, che il conflitto ti sia dato perché chiama il mediatore, che la colpa ti sia data perché chiama il redentore, e perché la guarigione è una condizione più bella della salute. Beati coloro che hanno il mal di schiena, perché incontreranno J…

Ci sarebbero da dire tante cose dette. Cose dette, pensate, condivise, in questo castello senza mura, dietro a questo portale romanico e massiccio che si leva nella campagna, sotto un cielo incredibilmente vasto e in perenne movimento, come un tori giapponese in mezzo all’oceano. Il compito di questo blog però non è di esporre contenuti, ma di mostrare intravisioni, squarci, tagli nella tela del reale-banale.


Allora dirò piuttosto del rabbino e del musulmano che si levano alle quattro del mattino e fanno colazione assieme prima di iniziare il ramadan; delle benedizioni sul vino e sul pane in una lingua arcaica, rauca e dolce assieme; del colloquio con S, che mi spiega come il Corano sia un immenso koan, e si appassiona, e parla e parla e parla per un’ora e io so che non può bere perché digiuna e non potrà per molte altre ore, e ricevo ogni parola come un dono; delle risate e delle lacrime, di una pace che ci possedeva senza essere da noi posseduta, di un’eccedenza di bene che tutti percepivamo senza poterla definire.

Soprattutto dirò di una cena. Anzi non potrò dire, perché il gusto appartiene all’indicibile, e come si fa a spiegare la freschezza vivificante e in un certo senso terribile del tabbouleh preparato da G? Ci si può sentire indegni di un cibo? Come si fa a spiegare il buon vino, le courgettes ricolme di ogni sapore? Il Vijnanabhairava Tantra canta: jagdhipānaktollāsarasānandavijmbhaāt bhāvayed bharitāvasthā mahānandas tato brave, ossia: Nel momento dell’ebbrezza e della dilatazione dell’anima causata da cibi e bevande delicate, sii tutto in questa delizia, e, attraverso di essa, gusta la suprema beatitudine.
E il tè, preparato e anzi offerto da S in un modo straordinario, da S che poi non lo avrebbe bevuto,, affondando menta rugiadosa e appena colta nella teiera e facendolo passare e ripassare con gesti magnifici in una coppa piena di zucchero, ah il tè che ho bevuto in questa occasione si classifica senza alcun dubbio tra i dieci tè più intensi e buoni  della mia vita.

Se il Paradiso c’è, come dicono, non potrà essere tanto differente da così. Anticipazione degli eschata: ecco la cifra di queste giornate piene di luce. Ecco perché il Cristo li paragona a un banchetto.

Se ne vanno tutti, uno dopo l’altro, con silenziosa affettuosità e con un certo pudore. Il distacco non è semplice e va abbreviato e reso sobrio. Rimaniamo soli, JM, pG e io. Ci viene donato all’improvviso un clamoroso arcobaleno, un arcobaleno a pieno semicerchio, un’iride eccelsa e nitidissima, stagliata su nuvole ardesia, un arcobaleno, anzi due, celebrazione cosmica di un’alleanza divinoumana.


JM osserva silenziosa il grandioso spettacolo. Congiunge le mani con le palme rivolte verso l’altro. Chiude gli occhi. Merci, dice. Ma subito aggiunge: C’est trop.

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