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venerdì 29 agosto 2014

Je décalque l'invisible. Ida, film in bianco e nero su una vetrata

Pur se il cinema è centrale, la cassiera – in vestaglia e occhialetti da portinaia vecchia Milano – è assolutamente marginale. E anche la sala non concede quasi nulla allo spettatore, come si direbbe in cinelinguaggio. Niente nomi suggestivi, come Urania o Truffaut o Daphne o Fellini. Fuori: Milano da pre-ferragosto con cielo tra sole e temporale, adattissimo ai cacciatori di arcobaleni. Dentro: A ed io attendiamo l’inizio della proiezione di Ida, film di Pawel Pawlikowski. 80 minuti di bianco e nero sulla storia di una suora nella Polonia degli anni 60. Non ho con me le lamette, e per giunta - circostanza assai rara - non ho neppure sonno. Devo dire che A, mentre ancora le luci della sala sono debolmente accese, mi consegna il dono da lei preso per me in India: un meraviglioso set di merchandising di un sedicente asceta jaina digambara (vestito di vento, quindi nudo) chiamato Acharya Sukumalnandi, consistenti in n°1 poster adesivo stile Bollywood (capelli scolpiti e denti di un bianco extraterrestre), n°1 biglietto da visita con fotina della testa retroilluminata da aureola a dodici meravigliosi raggi, n° 1 microfoto di lui benedicente e inscritto in un trono a forma di mandorla d’oro e d’argento, n°2 segnalibri tipo clip di plastica bianca col volto radioso d’amore, e n°1 quaderno di appunti con l’asceta – questa volta più severo - che benedice con la mano sinistra due braccia con maniche di giacca e camicia che si stringono la mano, sullo sfondo una specie di bandiera navale giapponese arancione e rosso. La vera, verissima. kitschissima India. Da piangere per la commozione. Però, aprendo il quaderno, vi trovo un’unica frase in inglese – tutto il resto è in hindi – che l’asceta si attribuisce (le grandi frasi hanno sempre molti padri): No pains no gains. Effettivamente al plurale non l’avevo mai ancora letta. Che alluda a ciò che stiamo per vedere?

Gli ottanta minuti passano – c’è perfino un intervallo ma senza gelataio in giacca bianca e distintivo illuminato – e riemergo con una strana sensazione. Non mi sembra di aver visto nulla di straordinario, eccetto dei meravigliosi grigi, caldi e intensi, e la particolarità dell’aspect ratio (nozione compresa da noi non cineintenditori solo dopo la visione di Grand Budapest Hotel, ossia il rapporto tra la larghezza e l’altezza dell’immagine, e che Wes Anderson varia continuamente facendone una modalità espressiva essenziale del suo magico racconto) di 4/3, ossia volutamente retrò. La storia non mi ha detto niente. Suor Anna, una novizia ex orfanella, un gelido convento sotto la neve, la madre superiora che – proprio alla vigilia dei voti perpetui – anziché tenerla in ritiro la manda a visitare la sua unica parente, Wanda, una zia per metà sanguinario magistrato e per metà alcolizzata, fumatrice e sciupa maschi. Senza l’ombra di un convenevolo la zietta le rivela chi l’orfana è davvero (e cioè Ida Lebenstein, la figlia di una famiglia ebrea uccisa durante la guerra), qual è il suo paese e che Dio forse non c’è. Poi le due donne vanno al villaggio, la novizia prega, la zia inquisisce, beve e si dà da fare con omarelli raccolti al bar, recuperano assieme i resti dei genitori della novizia, li seppelliscono al cimitero ebraico di Lublino. Nel frattempo, in albergo, incontrano un sassofonista che suona in una band Guarda che luna di Fred Buscaglione e Con ventiquattromilabaci di Celentano, ma in segreto si strugge con John Coltrane. La monaca torna al convento, la zia alla sua casa: per poco entrambe. La zia sfratta dalle lenzuola il suo ultimo omino, mette sul giradischi la sinfonia Jupiter di Mozart (che, per Woody Allen, è una di quelle cose per cui vale la pena vivere, e detto da lui…), si accende la sigaretta, gira a piedi nudi per la stanza, poi spegne la sigaretta, apre la finestra e si getta di sotto. La giovane novizia, avvisata, lascia nuovamente il monastero – mentre le altre sue consorelle prendono i sacri voti incoronate di fiori – va a casa della zia, si toglie il velo e si scioglie i capelli, indossa un tubino sexy nero e le scarpe a tacco alto della zia, va a trovare il sassofonista belloccio, danza con lui, torna con lui a casa e ci va a letto. Al mattino si svegliano, lui le dice Andiamo a Danzica. Vuoi venire?, lei: Perché?, lui: C’è il mare, hai mai visto il mare?, lei: Non ho visto niente., lui: Andremo in spiaggia, lei: E poi?, lui: E poi ci sposiamo, compriamo una casa, facciamo dei bambini, lei (bellissima, appoggiata sul gomito): E poi?, lui: E poi cominciano i problemi. Logico che lei aspetti che lui si riaddormenti, logico che quindi si alzi, indossi nuovamente il suo abito di novizia e torni in tutta fretta al monastero. Per far cosa non si sa, finale aperto. Bene. A me come storia non sembra granché. Esco un po’ deluso.

Poi passa una notte silenziosa e i ricordi maturano nel sonno e nei sogni, così che al risveglio il mio giudizio si è completamente rovesciato. I personaggi di Ida non hanno praticamente alcuna psicologia. Il volto della monaca è di slavità assolutamente indecifrabile, quello della zia è intenso ma fisso come una maschera tragica. Se l’attesa – e probabilmente era la mia – si collocava al livello della psicologia, il film non poteva se non risultare deludente. Tanto da avermi fatto pensare che la storia altro non fosse che un pretesto per sciorinare bellissimi bianchi, neri accesi e un infinità di gradazioni perlacee. C'è però chi mi ha fatto notare che in realtà le due protagoniste sono molto differenti, anche dal punto di vista psicologico.  Pur essendo praticamente 'nata' nella gelida e iperessenziale nudità del monastero, Anna/Ida sa stare nelle circostanze che le capitano in modo adeguato e fluido.  Sa accogliere l'impensabile, sa aprirsi all'avventura, sa scavare nella terra umida, sa avvolgere - come una tra le tante Antigoni della storia - il cranio dei genitori in un foulard per dare loro sepoltura, sa innamorarsi, sa andar via, sa vestirsi da donna, sa svenire di libertà ruotando come un derviscio dentro una tenda di tulle, sa far l'amore e sa porre domande radicali. Wanda, pur con la sua età e il suo savoir vivre, è invece sempre sbilanciata, sghemba, instabile: deve aggrapparsi ogni volta a qualcosa o a qualcuno, un amante, una sigaretta, una bottiglia.


Tuttavia a me pare che le due donne siano esistenzialmente più simili che diverse. Lo sono nel verificare lucidamente come la vita, e Dio, tutto fanno fuorché mantenere le promesse di pienezza, di bellezza e di bene. Lo verifica Wanda rispetto all'ideologia rivoluzionaria e socialista, alla libertà sessuale, alle zeppe consolatorie di cui si circonda. Lo verifica Anna/Ida rispetto al Gesù di gesso, al pupazzo senza vita portato nella neve al centro del chiostro in una scena iniziale mozzafiato, all'innamoramento, alla giovinezza. Ed entrambe traggono le conseguenze: darsi la morte, buttandosi da una finestra o tornando in convento. Perché - evidentemente - sono due suicidi.

Eppure, nel profondo di ogni vita, c’è almeno un momento in cui gratuitamente, graziosamente, inaspettatamente, il più grande che attendiamo si rivela, e ti parla, a te, a te, oh proprio a te. Solo un istante magari. Una ferita sulla trama dell’ovvio. Un varco montaliano, prima che il frangente ripulluli sulla famosa balza che scoscende. Il film, questo momento, delicatamente, intensamente, magistralmente, ce lo mostra. Per le due donne esso passa da un padre o un fratello che – con la dolente e struggente sapienza dei figli di Israele – aveva allestito, nella tetraggine del paesaggio piatto e gelato, una vetrata da cattedrale per consolare le mucche nella stalla. E la zia si domanda: Chissà perché. Tutto questo lavoro per una stalla, per due mucche. Ora, io ho la fortuna di avere un amico così tanto caro che le vetrate le fa, e che un po’ mi ha fatto conoscere l’infinita pazienza che richiede, e la mobilitazione del cuore, degli occhi, delle mani, e la potenza del calore dei forni, e l’astronomia per l’orientamento, perché una vetrata è fatta per la luce, per essere mediatrice tra la luce e l’occhio umano. Wanda rovistando nel suo passato con il suo rammemorare amaro, Anna/Ida entrando nella stalla ed essendo colpita da un raggio di sole trasfigurato e diffratto in colori, che il bianco e nero rende più evidenti, perché quella scena è riempita e saturata dai colori contenuti nei ricordi dello spettatore, entrambe ricevono da quella vetrata da stalla il dono del rimando all’Oltre. Per la ragazza è quasi un’Annunciazione, lei che guarda incantata quella fragile bellezza che si è mantenuta integra, nonostante le guerre, le rivoluzioni, i tradimenti, gli omicidi, e tutto il dolore e il freddo e il fango della vita. Poi è vero: la vita, o Dio, non mantengono le promesse e può valer la pena suicidarsi o farsi suora. Ma tenacemente la fragile vetrata continua ad alludere al più in là, per citare ancora Montale.



Questo tema è anche – e profondamente – rilkiano. E concludo trascrivendo una sua poesia mesta eppure dolcissima.

Nonnen-Klage (Lamento di una monaca)

Gesù Signore – piegati /a una come tante. / Tu sei ricco e possiedi / i più splendidi ammanti / del cielo su di te.
Le donne che ti sei scelte / un giorno, a te sono rese: / puoi leggere con loro / e giocare, e a Teresa / mostrare le tue stanze.
Tua madre in cielo ora / è una dama e fiorisce / il suo nome regale /dalle nostre preghiere,
qui, da questi giardini / d'inverno, dove a volte / tu guardi, e strani cespi / trai dalle nostre voci.
Gesù Signore - hai tutte / le donne che tu ami. / Il mio grido che importa / se si perda o ti chiami?
Si perde in un lamento / e lo spazio lo strema. / Altre voci tu senti; / non ti ingannare: appena
dal mio cuore mi accosto / al mio viso che canta. / E vorrei farti male, / Signore, ma mi manca
l'animo:  se sollevo / verso te la mia pena / subito ricade mite / e fredda come la neve.
Fuori fossi rimasta / dove ho cominciato, / il giorno sarebbe angoscia / e la notte peccato.
Forse mi avrebbe presa / un uomo, e sarei sola, / e un altro sarebbe venuto / e la mia bocca ancora
soffrirebbe dei baci. / E un terzo a piedi l'avrei / seguito, ma, Signore, / per averne pietà;
e per stanchezza e paura / a un quarto mi sarei data / per non giacere più sola / e abbracciare una creatura.
Ma se nessuno ha dormito / accanto a me, tu mi salvi? / Dov'eri quando cantavo? / Chi chiamo nei nostri salmi?
La mia vita è lontana -/ Gesù, dimmi: è con te? / L'hai tu vista venire? / E sono in te, Signore? / E sono in te, Gesù?
Pensa: così finisce / nel rumore del giorno. / Ciascuno la rinnega, / nessuno più conosce / la mia vita, Gesù-
Ed era la mia vita, / Gesù Signore, sei certo? / Non un'altra in cui pure / nessun morso abbia aperto / un suo segno, Gesù?
O la mia vita forse / non è con te, ma langue / spezzata, e intanto piove, / piove e l'acqua la bagna, / e gela dentro, Gesù.





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