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martedì 12 agosto 2014

Alla ricerca del Dio Ortonimo - Sanremo il 31 luglio



Io quando vado in Liguria mi sembra di non riuscire a respirare e mi viene la faccia un po’ così e l’espressione un po’ così tutto è stretto troppo stretto e le colline avvolte da nuvolaglia sono come un’onda solida di un’antica mareggiata e l’autostrada è troppo viadotti e gallerie e ancora viadotti e il blu del cielo e del mare non consola perché sembra passato attraverso un brutto filtro di Instagram che lo rende freddo inquietante inospitale insomma fatto è che io in Liguria mi sembra di non riuscire a respirare.

Tanto più se è il 31 luglio, tanto più se fa tanto caldo, tanto più se qualcosa di oscuro ti s’è svegliato dentro, e canta - al ritmo un po’ irregolare del cuore - una canzoncina che conosci fin troppo bene.

Arrivando da est, vorrei quindi andare a sud, ma per poco, solo fino alle spiagge della Versilia, che sono invece larghe e lisce, e la sabbia fina non ti ferisce, e ci sono le mamme sulle sdraio a strisce, e c’è tutta una vita calma che fluisce; sì, in Versilia, che è sempre un po’ ferma agli anni 60, e – pensate un po’ – perfino negli anni 60 era già ferma agli anni 60. Invece no, questa volta mi tocca girare verso nord ovest , e poi ovest, e poi sud, ma un altro sud, non quello di prima: quindi levante – poi Genova al colmo dell’ansa e dell’ansia – infine ponente, laddove ciò che si leva e che si pone naturalmente è la stella Sole dall’orizzonte marino, ma un po’ innaturale rimane il doversi volgere ad est per guardare o immaginare l’Italia al di là del Tirreno.

Arrivo a Sanremo e mi sembra stranissima. Per esempio perché è dedicata a San Romolo. Ora, uno su questo potrebbe anche passarci sopra, ma poi indagando su wikipedia scopri che nelle sue origini si chiamava Matutia, e era un villaggio romano consacrato alla Mater Matuta. E la madre mattutina altra non è che Ino, figlia di Cadmo e Armonia e quindi nipote di Afrodite (che come tutti sanno ha un lato tenebroso che Botticelli e Peter Weiss (in Picnic a Hanging Rock) videro benissimo dietro l’apparente radiosa bionditudine). Altra non è che Ino, l’odiatrice dei propri figli tanto da volerli uccidere, ma tutta intenerita per il piccolo dio bambino, Dioniso, nato da adulterina relazione di Zeus (Diàus Piter – Iùpiter – Deus Pater) con la sorella Semele, così che Era la legittima furente consorte scaglia la follia su Ino e lo sposo Atamante. Questi prende un figlio per un cervo e lo assale, lei si suicida col bimbo fra le braccia gettandosi nel mare, fra gli scogli. Ma nonna Afrodite la trasforma in Leucotea, la dea bianca, patrona dei marinai, quella stessa Leucò con cui ebbe modo di dialogare Cesare Pavese, e che a Roma fu chiamata Matuta e messa a proteggere – oh proprio lei – i parti e le nascite. La Buonanima di Mussolini, nel suo delirio di restaurazione imperiale, obbligò i poveri abitanti a tornare a chiamarsi matuziani, appellativo che dopo il ventennio furono felici di abbandonare, e come non capirli. Adesso è sanremasco chi nacque da due (almeno) sanremesi, mentre è soltanto sanremese chi, nato a Sanremo, ha almeno un genitore almeno sanremese. Logica vuole che un sanremese può avere un figlio sanremasco qualora impalmi una sanremese, ma che il figlio di un sanremasco sarà ahimè solo sanremese, nel caso che per esempio si unisca a una anche soltanto di Imperia. E chissà come faranno con l'eterologa.  E chissà come diavolo il Festival della Canzone si è venuto a insediare qui, ma che Luigi Tenco si sia suicidato dopo aver cantato Ciao amore ciao (in un mondo di luci sentirsi nessuno) questo me lo spiego benissimo. Al centro di Sanremo c’è una vecchia stazione ferroviaria: coi suoi cartelli bianchi su sfondo blu, i fabbricati fine ottocento, il giornalaio, il tabaccaio, le latrine, il caffè. Niente binari. Ci passano ormai solo treni invisibili, di quelli uditi da James Duffy in Gente di Dublino, di quelli dal suono monotono che ripetono le sillabe del nome di lei. Proprio uno di quelli prese verosimilmente Luigi Tenco il 27 gennaio 1967, dopo aver lasciato il suo bagaglio biologico nella stanza 219 dell’Hotel Savoy.

La prendo larga, perdonatemi, ma qui è tutto troppo stretto. A Sanremo c’è il bilinguismo che neanche a Selva di Val Gardena / Wölkenstein. Solo che l’altra lingua è il russo. Se non ci fossero i russi... commenta sconsolato l’albergatore al momento del mio check-in, e mi dà la chiave della camera che – a giudicare dagli ospiti nella hall – immagino predisposta con letto attrezzato di asta per la flebo e catetere, nonché di poltrona elettrica che premendo un pulsante ti rimette in piedi da sola. Almeno ho la soddisfazione – sempre più rara – di abbassare l’età media di un gruppo. Se non ci fossero i russi. I russi spopolano sulle spiagge e in Corso Matteotti, bellissime donne sfolgorano di bikini in riva al mare e scintillano di Swarowsky, a bordo di tacchi dodici, alla sera nei ristoranti. Se non ci fossero i russi. E i commercianti liguri mettono sugli stabilimenti balneari la bandiera rossa bianca e blu e le matrioske nelle vetrine. Ah, ma ci sono da tempo, i russi, a Sanremo. Da più di centocinquant’anni, Amavano Parigi. Firenze, anche la Costa Azzurra. A Sanremo andò a scaldarsi dal gelo moscovita la Zarina Maria Aleksandrovna, moglie dello Zar Alessandro II, e Tolstoj ci passò il suo ultimo inverno. In particolare ci andavano i tisici a morire: tossendo, sì, ma confortati dalle palme, dai fiori, intiepiditi dal sole del sud, e quindi la cittadina risultava una specie di incrocio fra La Montagna incantata e Morte a Venezia espressi in glagolitico. Quando la rivoluzione bolscevica imminente spinse molti russi a raggiungere l’Europa occidentale per mettersi in salvo, alcuni vennero qui. E cent’anni fa costruirono una bellissima chiesa, una chiesa russa-proprio-in-stile-russo, tutta colorata e con le cupole a cipolla (una di queste è raffigurata nella foto, riflessa nel grande finestrone del Casinò adiacente). Questa chiesa ne ha passate di tutte, una bomba l’ha sfondata nel 1940, un paio di anni fa venne giù l’immensa croce centrale a tre traverse, e gli architetti pronti a dire che fu colpa dell’anima lignea ad aver ceduto, non essendo ben connessa al supporto di zinco, e altri ad accusare il vento, ma io penso piuttosto alla gelosia della Mater Matuta. Comunque sia, la chiesa è ancora ben viva, e ci abita un bel pretone imponente dalla grande barba e dagli occhi miti. Ora io in questa chiesa avrei passato molto 31 luglio e molto 1 agosto.



La liturgia ortodossa è ogni volta anche un’esperienza astronomica, nel senso che è sempre lunga a sufficienza da consentirti apprezzare cambiamenti significativi della luce esterna dovuti alla eterna danza tra il sole e la terra: non solo i passaggi dal buio alla luce, ma dalla luce meno intensa alla più intensa, dalla più intensa alla meno intensa, da un tono freddo a uno pastello o a uno saturo. Si assiste sempre almeno a una trascolorazione, che l’oro e i diversi colori delle icone riproducono, amplificano e diffrangono a seconda della posizione, delle dimensioni, della qualità, quasi le immagini si rendessero strumenti diversi per un’unica melodia luminosa. Poi c’è la questione del tempo. La liturgia non ha un vero punto di inizio e non ha una vera e propria fine. Quando un occidentale va a messa si siede silenziosamente su una panca, a un certo punto entra il prete, magari preceduto dal dindin di una campanella, e alla fine benedice, lascia l’altare e torna in sagrestia. Tutto è chiaro. Qui no. Si comincia e si finisce asintoticamente. A un certo punto ecco che ti accorgi che alcuni si danno da fare intorno all’iconostasi, e dal coro una voce parte sommessa con preghiere cantilate secondo il tono così caratteristico; candele si accendono, chierici indossano i paramenti, le porte regali si aprono e si chiudono, e infine ti trovi dentro il rito senza sapere bene da quando. Quanto alla fine, ecco, non finirà mai, è bene che lo sappia, ad imitazione di ciò che dicono accadere in cielo: per quanto tutto sembri più e più volte concluso, la voce cantilante riprenderà sempre a pregare, e qualche barbuto baritono, da dentro il santuario, le risponderà un corposo Blagosloviènno Tsàrtsvo. Lo squisito padre V, uscendo dalla chiesa nella sera trasparente, alla mia domanda su cosa stia dicendo la voce in russo risponde Non è chiaro, con olimpica vaghezza. E c’è Nona, e ci sono i Vespri, e poi il Mattutino, e poi le Lodi, e poi Prima, e Terza, e Sesta, e la Divina Liturgia, e ancora Nona, e in certi momenti puoi perfino uscire per bere un po’ di vino chiaro e per mangiare un po’ di buon pesce allo Yacht Club vicino al porto, oppure anche dormire, ma sono intervalli. Per il resto del tempo stai in piedi a veder variare la luce, a lasciarti attraversare dai suoni, dai profumi, e magari (e certamente) da qualcosa di ben più profondo che visita la tua anima, e che è una luce e un profumo e un suono, ma anche un Volto e un Nome. Se sei stanco non devi tener duro, non ce la faresti mai: devi piuttosto dimenticarti. Inutile fare lo stoico -quando ti vien sonno – inutile stringere i denti e tirar fuori le palpebre: neppure puoi alzarti perché in piedi ci sei già. Meglio cercare di assomigliare agli incorporei (che solitamente invisibili affollano le navate, adoranti e sgomenti per la trasmutazione che si sta operando, e che darebbero tutto, invece, per essere almeno un istante materiali).

Infatti, nel caso specifico di questo 31 luglio c’è che gli incorporei han deciso di mostrarsi visibilmente. Un gruppo di giovanissime orfanelle provenienti da Yaroslavl presta la sua voce al coro nella liturgia: poiché un benefattore russo ha loro finanziato una vacanza in Italia. La più piccola avrà dieci anni, la più grande diciassette. Sono tutte vestite di abiti lunghi candidi e un po’ trinati. I loro piedini bianchi sono infilati in sandali bassi e commoventi (quei piedini che miodio chissà che passi che faranno, che chissà dove le porteranno, che verso quale sorte le faranno andare, verso quale destino), sono tutte velate – alcune con uno scialle che passa sotto la gola, altre solo con un piccolo triangolo che si annoda dietro la nuca. Dai veli escono lunghissime trecce, alcune di oro giallo, altre di oro rosa e altre di oro rosso Ciascuna di loro ha un volto da Vermeer o da Rossetti, un volto talmente limpido da rendersi soglia e passaggio dell’Invisibile. Un volto da farti venire le lacrime da quanto è bello e triste. Quanto alle voci non so dir che questo: così spirituali e cristalline da essere quasi inadatte all’orecchio umano, almeno a quello contemporaneo, che le insegue senza poterle afferrare, e quindi senza poterle far proprie. Non è facile pregare appoggiandosi a suoni così puri, e quasi rimpiango la raucedine greca e carnale dei miei corsari di Mar Saba.



Ora, in queste lunghe ore trascorse in piedi nel microclima caldoumido che si è creato sotto la cupola (dal colmo della quale ti scruta l’occhio del Pantrocratore), io talvolta guardo le bambine che cantano, e sento che vorrei che uscissero, che potessero correre via, giocare sulla spiaggia, nuotare e spruzzarsi fra le onde, spalmarsi la crema sulle spalle e sulla faccia, raccontarsi sottovoce i segreti, impiastricciarsi le mani con ghiaccioli dai colori improbabili, comprarsi tatuaggi al sapore di chewingum, ascoltare con le cuffiette Adele, i Green Day o altro rock (ma attenzione che Рок (rock) in russo vuol dire fato, povere bimbe inseguite dagli dèi fin nei lettori mp3) e che non è giusto che invece siano chiuse lì, ben dritte, ben attente, a prestare la loro voce alle schiere angeliche. E anche il padre V, prete ortodosso ebreo russo dal cognome polacco - con le coppie cromosomiche pertanto avvinte in un abbraccio che è anche lotta primordiale e terribile, e che han dato origine a uno straordinario potpourri di tensioni e dolcezze, di rigore e pazienza, a un senza patria tre volte, a un esule al cubo – mi confessa di essere attirato irresistibilmente dal mare, di voler nuotare verso il largo, e com’è logico non riuscirà neppure a toccarlo, stretto come si ritrova (è in Liguria) da orari ferroviari, amici in ritardo e trolley protesico quasi fosse Sean Penn in This must be the place. Si pone e si impone quindi il problema relativo a che cosa Dio ci facciamo qui tra i simboli se fuori ci sono il mare il cielo e il resto della realtà.

Ci sarà pure una ragione se nei templi indiani non si entra, ma ci si può salire sopra, mentre le cattedrali eran fatte per starci dentro, almeno prima della costruzione di ascensori per portare i turisti a vedere da vicino la Madonnina. in generale i templi d’Oriente sono santuari attorno a cui si deve camminare, dando possibilmente la destra al luogo sacro. Poi c’è pure la nicchia chiusa con lo Shivalingam cosparso di burro fuso, incenso e petali di fiori, ma insomma, in generale sono molto aperti. Arunachala è una montagna-tempio, così come il Kailas o il lago Manasarovar. E anche i templi greci o romani. E anche il tempio di Gerusalemme. Insomma, è la divinità o il suo eidolon ad abitare una cella, i fedeli stanno all’interno di confini sacri, di temenoi, ma ben esposti alle nuvole e alle stelle. Sembra invece che il cristianesimo tema l’aperto, si difenda da esso chiudendosi dentro un edificio per celebrare i misteri. Il grande filosofo della religione nonché autodefinitosi spiritual entertainer Alan Watts (che fu tra le altre cose uno fra i maestri di Eugene Dennis Rose, colui che diventerà il santo monaco Seraphim di Platina) centra perfettamente questo punto doloroso e cruciale. Dopo aver citato una poesia di John Betjelman:

Messali miniati, guglie, ampie
balaustre, cantorie istoriate: tutto
amavo, ed in ginocchio ringraziavo
me stesso per averlo conosciuto,
mentre passava il sole del mattino
tra le ricche vetrate vittoriane
e, nell’aria tinta d’ombre colorate,
genuflesso pensavo: Dio c’è.
Ora, disteso in questa bruma triste
so bene che il Signore non esiste.

scrive: “Mi sono sentito cristiano solo in luoghi chiusi. Appena esco all’aria aperta , mi distacco completamente da qualsiasi cosa possa avvenire in una chiesa, compresi il culto e la teologia. Non che non mi piaccia stare in chiesa. Al contrario, ho trascorso gran parte della mia infanzia sul sagrato e nei chiostri di una delle più nobili cattedrali europee e non mi sono mai sottratto al suo incantesimo. (…) Ma tutto ciò si trova in un compartimento stagno, o piuttosto in un santuario chiuso, dove la luce del cielo aperto giunge soltanto filtrata dalla ricca simbologia delle vetrate istoriate. (…) Ho sempre avuto l’impressione  che ci fosse una profonda e straordinaria incompatibilità tra l’atmosfera del cristianesimo e l’atmosfera del mondo naturale. Mi sembrava pressoché impossibile associare Dio Padre, Gesù Cristo, gli angeli e i santi all’universo in cui effettivamente vivevo. Contemplando gli alberi e le rocce, il cielo con le sue nubi e le sue stelle, , il mare, o la nudità del corpo umano, mi trovo in un mondo in cui la religione semplicemente non si adatta- (…) Eppure, se Dio ha creato questo mondo, com’è possibile che si percepisca tanta differenza tra il Dio della chiesa e dell’altare, con tutto il suo splendore, e il mondo del cielo aperto? A nessuno verrebbe in mente di attribuire un paesaggio di Sesshu a Constable, né una sinfonia di Hindemith a Haydn. Allo stesso modo, io ho trovato impossibile identificare con l’autore della religione cristiana l’autore dell’universo fisico. E questo non è evidentemente un giudizio di valore sui meriti dei due diversi stili. E’ la semplice constatazione che non sono opera della stessa mano.”

Ora, è indiscutibile che qualunque persona seria questa bizzarria l’avverta. Il grande enigma, il grande koan, la sfida alla quale ogni cristiano è chiamato, consiste precisamente di conoscere l’Ortonimo dietro gli Eteronimi: il Dio del tempio e il Dio dell’aperto, Colui che è Padre delle sue quattro Figlie, le Quattro Supreme Interazioni, l’Interazione Forte, l’Interazione Elettromagnetica, L’Interazione Debole e l’Interazione Gravitazionale e mediante Esse governa e regge l’Universo, e Colui che si fa bagnare i piedi di lacrime e se li fa asciugare coi capelli di una donna sulla crosta di un nanoscopico frammento di polvere cosmica rotante attorno a una delle 300 miliardi di stelle appartenenti a una fra le 100 miliardi di galassie che sembrano esistere, l’Impassibile e il Patetico, il Big Bang e la carezza del Nazareno. Un Dio che per esistere indossa le maschere, come Pessoa utilizzava il nichilista Alvaro de Campos, il medico Ricardo Reis, il contadino Alberto Caeiro, l’impiegato metafisico Bernardo Soares, e molti altri. Senza maschere non esisterebbe, perché un Dio esistente è già un Dio mascherato d'Essere. Lo dico arrossendo dalla vergogna ma mi sento all’opposto del Pascal del Memoriale. Il Dio dei filosofi è un eteronimo di Dio al pari del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Se, come già a Dostoevskij, venisse posta la domanda su che cosa sceglierei fra Cristo e la verità, qualora fosse dimostrato che sono in direzioni diverse, io sceglierei entrambi anche sapendo che sono contraddittori, anzi: soprattutto perché lo sono perché questa contraddizione affascinante è l’unica modalità che ci è data per avvertire direttamente la vibrante presenza dell’Ortonimo.
Risponderei quindi all’intelligente obiezione di Alan Watts che sì, io condivido la sensazione che il Dio dell’aperto non sia lo stesso del Dio del tempio, esattamente come potrebbe non essere possibile pensare che vi sia un’unica mano dietro Soares e dietro Reis. La soluzione, però, non è che la verità (altro eteronimo, appunto) sia solo dalla parte del Dio dell’aperto, ma che [esiste] un Dio Pessoa: che è la pace di questo conflitto.

C’è nella Bibbia la lotta del D-o terribile del deserto, con se stesso e con l’uomo, per farsi e non farsi addomesticare. Clibanus fumans et lampas ignis, forno fumante e fiaccola ardente che passa fra gli animali divisi in Genesi 15, e poi colonna di fuoco e nube, e poi tuoni e fulmini e poi l’Arca di Mosè e poi il Santuario, Qodesh haQodashim, povero Dio delle galassie chiuso in un cubo di 10 metri di lato, e il sibilus aurae tenuis di Elia e poi finalmente e gloriosamente uomo, quindi con un volume di circa 65 litri e un peso di 70 chili e un’altezza, non so, di 180 centimetri. Forse Dio è più basso di me.

Commuove C fino alle lacrime questo tentativo struggente di costruire una casina a Dio. Irrita invece il mio Maestro L, devoto dell’eteronimo delle galassie. C sovrainterpreta il poeta Yehuda Amichai (Square letters want to stay / closed; each letter a closed house, / to stay and to close yourself in / and to sleep inside it, forever) facendogli dire, nel suo rammemorare trasognato, che ogni lettera quadrata dell’alfabeto ebraico è come un piccolo Sancta Sanctorum per ospitare il D-o di Israele. L non darebbe mai credito a un dio tribale che tifa per gli ebrei contro i delicati egiziani che amavano la luce e la raffinatezza e il grande fiume nutritore.

A me anche il linguaggio sembra materiale per mascheramento, quindi non posso che dire che anche l’Ortonimo, laddove lo si nomini e lo si dica, come sto facendo io, altro non diventa che l’ennesimo Eteronimo, so what we cannot talk about we must pass over in silence, come suggerisce Wittgenstein.

Però certamente ricordo, da bambino, la lettura dei libri di Salgari sotto il letto, con la pila a illuminare, come un’esperienza di assoluto aperto, e forse il linguaggio allora serve a tenere insieme gli eteronimi. Forse le ragazzine di Yaroslavl sono entrate nella chiesa così. L’eteronimo delle galassie lo si adora col silenzio, con l’audacia dell’esporsi; quello delle carezze infilandosi dentro un microcosmo misterioso e aprendo i sensi alle immagini e ai canti e il cuore allo slancio d’amore.

Ma N mi ricorda una poesia di Aleksandr Blok (la riporto in mia traduzione dall’inglese):

Una fanciulla cantava in un coro di chiesa
per tutti i viandanti in contrade straniere
per tutte le navi smarrite nelle tempeste
per tutti coloro che avevano perso la gioia.

Si innalzava la sua voce fino alla cupola
e un raggio incendiava le sue candide spalle
e ognuno nel buio guardava e ascoltava
mentre lei cantava, circonfusa di luce.

E sembrava che la gioia fosse tornata
che tutte le navi avessero raggiunto i loro porti
che tutti gli stanchi, che tutti gli esausti
avessero trovato la gioia e il riposo.

E la voce era dolce, e il raggio sottile;
solo più in alto, presso le Porte Regali
un bimbo, iniziato al Mistero, piangeva
perché nessuno sarebbe mai tornato.


Perché nonostante tutto la tragedia permane e guai ad accettare le consolazioni, anche se offerte da questi angeli bianchi. Serve restar lì sanguinando, piangendo, gridando, nel Tempio e nell’Aperto, finché Qualcuno finalmente venga e ti dica e ti prenda e ti baci.

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