Io quando vado in
Liguria mi sembra di non riuscire a respirare e mi viene la faccia un po’ così
e l’espressione un po’ così tutto è stretto troppo stretto e le colline avvolte
da nuvolaglia sono come un’onda solida di un’antica mareggiata e
l’autostrada è troppo viadotti e gallerie e ancora viadotti e il blu del cielo
e del mare non consola perché sembra passato attraverso un brutto filtro di Instagram
che lo rende freddo inquietante inospitale insomma fatto è che io in Liguria mi
sembra di non riuscire a respirare.
Tanto più se è il 31 luglio, tanto più se fa tanto caldo, tanto
più se qualcosa di oscuro ti s’è svegliato dentro, e canta - al ritmo un po’
irregolare del cuore - una canzoncina che conosci fin troppo bene.
Arrivando da est, vorrei quindi andare a sud, ma per poco, solo
fino alle spiagge della Versilia, che sono invece larghe e lisce, e la sabbia
fina non ti ferisce, e ci sono le mamme sulle sdraio a strisce, e c’è tutta una
vita calma che fluisce; sì, in Versilia, che è sempre un po’ ferma agli anni
60, e – pensate un po’ – perfino negli anni 60 era già ferma agli anni 60.
Invece no, questa volta mi tocca girare verso nord ovest , e poi ovest, e poi
sud, ma un altro sud, non quello di prima: quindi levante – poi Genova al colmo dell’ansa e dell’ansia – infine ponente, laddove ciò che si leva e che si pone naturalmente è la stella Sole dall’orizzonte marino, ma un po’
innaturale rimane il doversi volgere ad est per guardare o immaginare l’Italia
al di là del Tirreno.
Arrivo a Sanremo e mi sembra stranissima. Per esempio perché
è dedicata a San Romolo. Ora, uno su questo potrebbe anche passarci sopra, ma
poi indagando su wikipedia scopri che nelle sue origini si chiamava Matutia, e era un villaggio romano
consacrato alla Mater Matuta. E la madre mattutina altra non è che Ino,
figlia di Cadmo e Armonia e quindi nipote di Afrodite (che come tutti sanno ha
un lato tenebroso che Botticelli e Peter Weiss (in Picnic a Hanging Rock) videro benissimo dietro l’apparente radiosa
bionditudine). Altra non è che Ino, l’odiatrice dei propri figli tanto da
volerli uccidere, ma tutta intenerita per il piccolo dio bambino, Dioniso, nato
da adulterina relazione di Zeus (Diàus
Piter – Iùpiter – Deus Pater) con la sorella Semele, così che Era la
legittima furente consorte scaglia la follia su Ino e lo sposo Atamante. Questi
prende un figlio per un cervo e lo assale, lei si suicida col bimbo fra le
braccia gettandosi nel mare, fra gli scogli. Ma nonna Afrodite la trasforma in
Leucotea, la dea bianca, patrona dei marinai, quella stessa Leucò con cui ebbe
modo di dialogare Cesare Pavese, e che a Roma fu chiamata Matuta e messa a
proteggere – oh proprio lei – i parti e le nascite. La Buonanima di Mussolini,
nel suo delirio di restaurazione imperiale, obbligò i poveri abitanti a tornare
a chiamarsi matuziani, appellativo
che dopo il ventennio furono felici di abbandonare, e come non capirli. Adesso
è sanremasco chi nacque da due
(almeno) sanremesi, mentre è soltanto
sanremese chi, nato a Sanremo, ha
almeno un genitore almeno sanremese.
Logica vuole che un sanremese può
avere un figlio sanremasco qualora
impalmi una sanremese, ma che il
figlio di un sanremasco sarà ahimè solo
sanremese, nel caso che per esempio
si unisca a una anche soltanto di Imperia. E chissà come faranno con l'eterologa. E chissà come diavolo il Festival
della Canzone si è venuto a insediare qui, ma che Luigi Tenco si sia suicidato
dopo aver cantato Ciao amore ciao (in un mondo di luci sentirsi nessuno)
questo me lo spiego benissimo. Al centro di Sanremo c’è una vecchia stazione
ferroviaria: coi suoi cartelli bianchi su sfondo blu, i fabbricati fine
ottocento, il giornalaio, il tabaccaio, le latrine, il caffè. Niente binari. Ci
passano ormai solo treni invisibili, di quelli uditi da James Duffy in Gente di Dublino, di quelli dal suono monotono che ripetono le sillabe del
nome di lei. Proprio uno di quelli prese verosimilmente Luigi Tenco il 27
gennaio 1967, dopo aver lasciato il suo bagaglio biologico nella stanza 219
dell’Hotel Savoy.
La prendo larga, perdonatemi, ma qui è tutto troppo stretto.
A Sanremo c’è il bilinguismo che neanche a Selva di Val Gardena / Wölkenstein.
Solo che l’altra lingua è il russo. Se
non ci fossero i russi... commenta sconsolato l’albergatore al momento del
mio check-in, e mi dà la chiave della camera che – a giudicare dagli ospiti
nella hall – immagino predisposta con letto attrezzato di asta per la flebo e
catetere, nonché di poltrona elettrica che premendo un pulsante ti rimette in
piedi da sola. Almeno ho la soddisfazione – sempre più rara – di abbassare
l’età media di un gruppo. Se non ci
fossero i russi. I russi spopolano sulle spiagge e in Corso Matteotti, bellissime
donne sfolgorano di bikini in riva al mare e scintillano di Swarowsky, a bordo
di tacchi dodici, alla sera nei ristoranti. Se
non ci fossero i russi. E i commercianti liguri mettono sugli stabilimenti
balneari la bandiera rossa bianca e blu e le matrioske nelle vetrine. Ah, ma ci
sono da tempo, i russi, a Sanremo. Da più di centocinquant’anni, Amavano
Parigi. Firenze, anche la Costa Azzurra. A Sanremo andò a scaldarsi dal gelo
moscovita la Zarina Maria Aleksandrovna, moglie dello Zar Alessandro II, e
Tolstoj ci passò il suo ultimo inverno. In particolare ci andavano i tisici a
morire: tossendo, sì, ma confortati dalle palme, dai fiori, intiepiditi dal
sole del sud, e quindi la cittadina risultava una specie di incrocio fra La Montagna incantata e Morte a Venezia espressi in glagolitico.
Quando la rivoluzione bolscevica imminente spinse molti russi a raggiungere
l’Europa occidentale per mettersi in salvo, alcuni vennero qui. E cent’anni fa
costruirono una bellissima chiesa, una chiesa russa-proprio-in-stile-russo, tutta colorata e con le cupole a
cipolla (una di queste è raffigurata nella foto, riflessa nel grande finestrone
del Casinò adiacente). Questa chiesa ne ha passate di tutte, una bomba l’ha
sfondata nel 1940, un paio di anni fa venne giù l’immensa croce centrale a tre
traverse, e gli architetti pronti a dire che fu colpa dell’anima lignea ad aver
ceduto, non essendo ben connessa al supporto di zinco, e altri ad accusare il
vento, ma io penso piuttosto alla gelosia della Mater Matuta. Comunque sia, la
chiesa è ancora ben viva, e ci abita un bel pretone imponente dalla grande
barba e dagli occhi miti. Ora io in questa chiesa avrei passato molto 31 luglio
e molto 1 agosto.
La liturgia ortodossa è ogni volta anche un’esperienza
astronomica, nel senso che è sempre lunga a sufficienza da consentirti
apprezzare cambiamenti significativi della luce esterna dovuti alla eterna
danza tra il sole e la terra: non solo i passaggi dal buio alla luce, ma dalla
luce meno intensa alla più intensa, dalla più intensa alla meno intensa, da un
tono freddo a uno pastello o a uno saturo. Si assiste sempre almeno a una
trascolorazione, che l’oro e i diversi colori delle icone riproducono, amplificano
e diffrangono a seconda della posizione, delle dimensioni, della qualità, quasi
le immagini si rendessero strumenti diversi per un’unica melodia luminosa. Poi
c’è la questione del tempo. La liturgia non ha un vero punto di inizio e non ha
una vera e propria fine. Quando un occidentale va a messa si siede
silenziosamente su una panca, a un certo punto entra il prete, magari preceduto
dal dindin di una campanella, e alla
fine benedice, lascia l’altare e torna in sagrestia. Tutto è chiaro. Qui no. Si
comincia e si finisce asintoticamente.
A un certo punto ecco che ti accorgi che alcuni si danno da fare intorno
all’iconostasi, e dal coro una voce parte sommessa con preghiere cantilate secondo il tono così
caratteristico; candele si accendono, chierici indossano i paramenti, le porte
regali si aprono e si chiudono, e infine ti trovi dentro il rito senza sapere
bene da quando. Quanto alla fine, ecco, non finirà mai, è bene che lo sappia,
ad imitazione di ciò che dicono accadere in cielo: per quanto tutto sembri più
e più volte concluso, la voce cantilante riprenderà sempre a pregare, e qualche
barbuto baritono, da dentro il santuario, le risponderà un corposo Blagosloviènno Tsàrtsvo. Lo squisito
padre V, uscendo dalla chiesa nella sera trasparente, alla mia domanda su cosa
stia dicendo la voce in russo risponde Non
è chiaro, con olimpica vaghezza. E c’è Nona, e ci sono i Vespri, e poi il
Mattutino, e poi le Lodi, e poi Prima, e Terza, e Sesta, e la Divina Liturgia,
e ancora Nona, e in certi momenti puoi perfino uscire per bere un po’ di vino
chiaro e per mangiare un po’ di buon pesce allo Yacht Club vicino al porto,
oppure anche dormire, ma sono intervalli. Per il resto del tempo stai in piedi
a veder variare la luce, a lasciarti attraversare dai suoni, dai profumi, e
magari (e certamente) da qualcosa di ben più profondo che visita la tua anima,
e che è una luce e un profumo e un suono, ma anche un Volto e un Nome. Se sei
stanco non devi tener duro, non ce la faresti mai: devi piuttosto dimenticarti.
Inutile fare lo stoico -quando ti vien sonno – inutile stringere i denti e
tirar fuori le palpebre: neppure puoi alzarti perché in piedi ci sei già.
Meglio cercare di assomigliare agli incorporei (che solitamente invisibili
affollano le navate, adoranti e sgomenti per la trasmutazione che si sta
operando, e che darebbero tutto, invece, per essere almeno un istante
materiali).
Infatti, nel caso specifico di questo 31 luglio c’è che gli
incorporei han deciso di mostrarsi visibilmente. Un gruppo di giovanissime
orfanelle provenienti da Yaroslavl presta la sua voce al coro nella liturgia: poiché
un benefattore russo ha loro finanziato una vacanza in Italia. La più piccola
avrà dieci anni, la più grande diciassette. Sono tutte vestite di abiti lunghi
candidi e un po’ trinati. I loro piedini bianchi sono infilati in sandali bassi
e commoventi (quei piedini che miodio chissà che passi che faranno, che chissà
dove le porteranno, che verso quale sorte le faranno andare, verso quale
destino), sono tutte velate – alcune con uno scialle che passa sotto la gola,
altre solo con un piccolo triangolo che si annoda dietro la nuca. Dai veli
escono lunghissime trecce, alcune di oro giallo, altre di oro rosa e altre di
oro rosso Ciascuna di loro ha un volto da Vermeer o da Rossetti, un volto
talmente limpido da rendersi soglia e passaggio dell’Invisibile. Un volto da
farti venire le lacrime da quanto è bello e triste. Quanto alle voci non so dir
che questo: così spirituali e cristalline da essere quasi inadatte all’orecchio
umano, almeno a quello contemporaneo, che le insegue senza poterle afferrare, e
quindi senza poterle far proprie. Non è facile pregare appoggiandosi a suoni
così puri, e quasi rimpiango la raucedine greca e carnale dei miei corsari di
Mar Saba.
Ora, in queste lunghe ore trascorse in piedi nel microclima
caldoumido che si è creato sotto la cupola (dal colmo della quale ti scruta
l’occhio del Pantrocratore), io talvolta guardo le bambine che cantano, e sento
che vorrei che uscissero, che potessero correre via, giocare sulla spiaggia,
nuotare e spruzzarsi fra le onde, spalmarsi la crema sulle spalle e sulla
faccia, raccontarsi sottovoce i segreti, impiastricciarsi le mani con
ghiaccioli dai colori improbabili, comprarsi tatuaggi al sapore di chewingum, ascoltare con le cuffiette Adele, i Green Day o altro rock (ma attenzione che
Рок (rock) in russo vuol dire fato,
povere bimbe inseguite dagli dèi fin nei lettori mp3) e che non è giusto che
invece siano chiuse lì, ben dritte, ben attente, a prestare la loro voce alle
schiere angeliche. E anche il padre V, prete ortodosso ebreo russo dal cognome
polacco - con le coppie cromosomiche pertanto avvinte in un abbraccio che è
anche lotta primordiale e terribile, e che han dato origine a uno straordinario
potpourri di tensioni e dolcezze, di rigore e pazienza, a un senza patria tre
volte, a un esule al cubo – mi confessa di essere attirato irresistibilmente
dal mare, di voler nuotare verso il largo, e com’è logico non riuscirà neppure
a toccarlo, stretto come si ritrova (è in Liguria) da orari ferroviari, amici
in ritardo e trolley protesico quasi fosse Sean Penn in This must be the place. Si pone e si impone quindi il problema
relativo a che cosa Dio ci facciamo qui tra i simboli se fuori ci sono il mare
il cielo e il resto della realtà.
Ci sarà pure una ragione se nei templi indiani non si entra,
ma ci si può salire sopra, mentre le cattedrali eran fatte per starci dentro,
almeno prima della costruzione di ascensori per portare i turisti a vedere da
vicino la Madonnina. in generale i templi d’Oriente sono santuari attorno a cui
si deve camminare, dando possibilmente la destra al luogo sacro. Poi c’è pure
la nicchia chiusa con lo Shivalingam cosparso di burro fuso, incenso e petali
di fiori, ma insomma, in generale sono molto aperti. Arunachala è una
montagna-tempio, così come il Kailas o il lago Manasarovar. E anche i templi
greci o romani. E anche il tempio di Gerusalemme. Insomma, è la divinità o il
suo eidolon ad abitare una cella, i
fedeli stanno all’interno di confini
sacri, di temenoi, ma ben esposti
alle nuvole e alle stelle. Sembra invece che il cristianesimo tema l’aperto, si
difenda da esso chiudendosi dentro un edificio per celebrare i misteri. Il
grande filosofo della religione nonché autodefinitosi spiritual entertainer Alan Watts (che fu tra le altre cose uno fra
i maestri di Eugene Dennis Rose, colui che diventerà il santo monaco Seraphim
di Platina) centra perfettamente questo punto doloroso e cruciale. Dopo aver
citato una poesia di John Betjelman:
Messali miniati,
guglie, ampie
balaustre, cantorie
istoriate: tutto
amavo, ed in ginocchio
ringraziavo
me stesso per averlo
conosciuto,
mentre passava il sole
del mattino
tra le ricche vetrate
vittoriane
e, nell’aria tinta
d’ombre colorate,
genuflesso pensavo:
Dio c’è.
Ora, disteso in questa
bruma triste
so bene che il Signore
non esiste.
scrive: “Mi sono sentito cristiano solo in luoghi chiusi.
Appena esco all’aria aperta , mi distacco completamente da qualsiasi cosa possa
avvenire in una chiesa, compresi il culto e la teologia. Non che non mi piaccia
stare in chiesa. Al contrario, ho trascorso gran parte della mia infanzia sul
sagrato e nei chiostri di una delle più nobili cattedrali europee e non mi sono
mai sottratto al suo incantesimo. (…) Ma tutto ciò si trova in un compartimento
stagno, o piuttosto in un santuario chiuso, dove la luce del cielo aperto
giunge soltanto filtrata dalla ricca simbologia delle vetrate istoriate. (…) Ho
sempre avuto l’impressione che ci fosse
una profonda e straordinaria incompatibilità tra l’atmosfera del cristianesimo
e l’atmosfera del mondo naturale. Mi sembrava pressoché impossibile associare
Dio Padre, Gesù Cristo, gli angeli e i santi all’universo in cui effettivamente
vivevo. Contemplando gli alberi e le rocce, il cielo con le sue nubi e le sue
stelle, , il mare, o la nudità del corpo umano, mi trovo in un mondo in cui la
religione semplicemente non si adatta- (…) Eppure, se Dio ha creato questo
mondo, com’è possibile che si percepisca tanta differenza tra il Dio della
chiesa e dell’altare, con tutto il suo splendore, e il mondo del cielo aperto?
A nessuno verrebbe in mente di attribuire un paesaggio di Sesshu a Constable,
né una sinfonia di Hindemith a Haydn. Allo stesso modo, io ho trovato
impossibile identificare con l’autore della religione cristiana l’autore
dell’universo fisico. E questo non è evidentemente un giudizio di valore sui meriti
dei due diversi stili. E’ la semplice constatazione che non sono opera della stessa mano.”
Ora, è indiscutibile che qualunque persona seria questa
bizzarria l’avverta. Il grande enigma, il grande koan, la sfida alla quale ogni cristiano è chiamato, consiste
precisamente di conoscere l’Ortonimo
dietro gli Eteronimi: il Dio del
tempio e il Dio dell’aperto, Colui che è Padre delle sue quattro Figlie, le
Quattro Supreme Interazioni, l’Interazione Forte, l’Interazione
Elettromagnetica, L’Interazione Debole e l’Interazione Gravitazionale e
mediante Esse governa e regge l’Universo, e Colui che si fa bagnare i piedi di
lacrime e se li fa asciugare coi capelli di una donna sulla crosta di un
nanoscopico frammento di polvere cosmica rotante attorno a una delle 300 miliardi
di stelle appartenenti a una fra le 100 miliardi di galassie che sembrano
esistere, l’Impassibile e il Patetico, il Big Bang e la carezza del Nazareno.
Un Dio che per esistere indossa le maschere, come Pessoa utilizzava il
nichilista Alvaro de Campos, il medico Ricardo Reis, il contadino Alberto
Caeiro, l’impiegato metafisico Bernardo Soares, e molti altri. Senza maschere
non esisterebbe, perché un Dio esistente è già un Dio mascherato d'Essere. Lo dico
arrossendo dalla vergogna ma mi sento all’opposto del Pascal del Memoriale. Il Dio dei filosofi è un eteronimo di Dio al pari del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe.
Se, come già a Dostoevskij, venisse posta la domanda su che cosa sceglierei fra
Cristo e la verità, qualora fosse dimostrato che sono in direzioni diverse, io
sceglierei entrambi anche sapendo che
sono contraddittori, anzi: soprattutto
perché lo sono perché questa contraddizione affascinante è l’unica modalità
che ci è data per avvertire direttamente la vibrante presenza dell’Ortonimo.
Risponderei quindi all’intelligente obiezione di Alan Watts
che sì, io condivido la sensazione che il Dio dell’aperto non sia lo stesso del
Dio del tempio, esattamente come potrebbe non essere possibile pensare che vi
sia un’unica mano dietro Soares e dietro Reis. La soluzione, però, non è che la
verità (altro eteronimo, appunto) sia solo dalla parte del Dio dell’aperto, ma
che [esiste] un Dio Pessoa: che è la pace di questo conflitto.
C’è nella Bibbia la lotta del D-o terribile del deserto, con
se stesso e con l’uomo, per farsi e non farsi addomesticare. Clibanus fumans et lampas ignis, forno
fumante e fiaccola ardente che passa
fra gli animali divisi in Genesi 15, e poi colonna di fuoco e nube, e poi tuoni
e fulmini e poi l’Arca di Mosè e poi il Santuario, Qodesh haQodashim, povero Dio delle galassie chiuso in un cubo di
10 metri di lato, e il sibilus aurae
tenuis di Elia e poi finalmente e gloriosamente uomo, quindi con un volume
di circa 65 litri e un peso di 70 chili e un’altezza, non so, di 180
centimetri. Forse Dio è più basso di me.
Commuove C fino alle lacrime questo tentativo struggente di
costruire una casina a Dio. Irrita invece il mio Maestro L, devoto dell’eteronimo
delle galassie. C sovrainterpreta il poeta Yehuda Amichai (Square letters want to stay / closed; each letter a closed house, / to
stay and to close yourself in / and to sleep inside it, forever) facendogli
dire, nel suo rammemorare trasognato, che ogni lettera quadrata dell’alfabeto
ebraico è come un piccolo Sancta Sanctorum per ospitare il D-o di Israele. L
non darebbe mai credito a un dio tribale che tifa per gli ebrei contro i
delicati egiziani che amavano la luce e la raffinatezza e il grande fiume
nutritore.
A me anche il linguaggio sembra materiale per mascheramento,
quindi non posso che dire che anche l’Ortonimo, laddove lo si nomini e lo si
dica, come sto facendo io, altro non diventa che l’ennesimo Eteronimo, so what we cannot talk about we must pass
over in silence, come suggerisce Wittgenstein.
Però certamente ricordo, da bambino, la lettura dei libri di
Salgari sotto il letto, con la pila a illuminare, come un’esperienza di assoluto
aperto, e forse il linguaggio allora serve a tenere insieme gli eteronimi. Forse
le ragazzine di Yaroslavl sono entrate nella chiesa così. L’eteronimo delle
galassie lo si adora col silenzio, con l’audacia dell’esporsi; quello delle
carezze infilandosi dentro un microcosmo misterioso e aprendo i sensi alle
immagini e ai canti e il cuore allo slancio d’amore.
Ma N mi ricorda una poesia di Aleksandr Blok (la riporto in
mia traduzione dall’inglese):
Una fanciulla cantava
in un coro di chiesa
per tutti i viandanti
in contrade straniere
per tutte le navi smarrite nelle tempeste
per tutti coloro che
avevano perso la gioia.
Si innalzava la sua
voce fino alla cupola
e un raggio incendiava
le sue candide spalle
e ognuno nel buio
guardava e ascoltava
mentre lei cantava,
circonfusa di luce.
E sembrava che la
gioia fosse tornata
che tutte le navi avessero
raggiunto i loro porti
che tutti gli stanchi,
che tutti gli esausti
avessero trovato la
gioia e il riposo.
E la voce era dolce, e
il raggio sottile;
solo più in alto,
presso le Porte Regali
un bimbo, iniziato al
Mistero, piangeva
perché nessuno sarebbe
mai tornato.
Perché nonostante tutto la tragedia permane e guai ad
accettare le consolazioni, anche se offerte da questi angeli bianchi. Serve restar
lì sanguinando, piangendo, gridando, nel Tempio e nell’Aperto, finché Qualcuno finalmente venga e ti
dica e ti prenda e ti baci.
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