C’è uno slargo, nella cinta della Gerusalemme vecchia, dove ieri – in un unico istante, ossia alle 17.49 - si sono trovati contemporaneamente, e per
caso, tre ragazzi, tutti e tre di dodici anni. Il primo si chiama Moishele, è
uno dei sei figli di una famiglia di Haredim di origine askenazita; indossava
una camicia bianca e dei pantaloni scuri, come sempre, del resto; è biondo, ha
gli occhi azzurro chiaro, e da sotto la kippah
nera spuntano, ai lati della testa, lunghi ciuffi fulvi che quando sarà più
grande arriccerà nei tradizionali i payot;
è un piccolo zaddiq, e camminava velocemente
accanto al padre – il quale a sua volta spingeva un passeggino biposto con a
bordo altri due figlioletti – dirigendosi verso il Muro Occidentale. Il secondo
è Ahmed, un ragazzo arabo dagli occhi neri come perle, che giocava a palla in
strada con alcuni amici; suo padre è un devoto musulmano sunnita, e ha la
funzione di imam, cioè guida gli altri credenti, ponendosi di fronte a loro,
nelle cinque preghiere quotidiane in una piccola moschea. Passava di lì anche
Jean-Jerôme, parigino del quartiere Montparnasse, venuto con i genitori in
pellegrinaggio in Terra Santa, ha il volto simpatico e lentigginoso, e in quel
momento portava una maglietta con il logo dell’Hard Rock Cafè – Jerusalem, che i suoi gli avevano appena regalato
e di cui andava molto fiero; è stato appena cresimato, e – per quanto spesso si
annoi – segue il papà e la mamma a messa la domenica.
Ieri, alle 17.49 orario
locale, i tre ragazzini erano vicinissimi. Nello spazio e – si direbbe – ancor
più nel tempo. Però per Jean-Jerôme era il 21 agosto dell’anno 2014 dalla
Nascita di Gesù, per Ahmed era il 25 Shawwal dell’anno 1435 dall’Egira, per
Moishele il 25 Av del 5774 dalla Creazione del mondo. Jean-Jerôme sa di vivere
all’inizio del terzo millennio, essendoci perfino nato, a differenza della
sorella maggiore che ha 16 anni, è nata au
siecle dernier – di questo lui la
prende in giro ridendo – e si è guardata bene dall’accompagnare la famiglia in
Terra Santa, preferendo di gran lunga andare in tenda col fidanzato a Tarifa
per fare kitesurfing. Moishele,
nonostante tutto, vive in un fantafuturo (5774 sa di science fiction e di navi spaziali alla Star Trek). Ahmed è un
ragazzo tardo medioevale, prima metà del Quattrocento.
Ora, è chiaro che i
piccoli Moishele, Jean-Jerôme e Ahmed stasera giocheranno ad Angry Birds sul medesimo modello di IPad.
La scienza, in generale la conoscenza, ma soprattutto la tecnologia, hanno un
calendario tutto loro a cui prima o poi tutti quanti si adattano. Va bene il
Magen Dawid, la Croce o la Mezzaluna: ma alla fine è la Mela Morsicata che
brilla dai retroschermi dei laptop di Tel Aviv, di Roma o di Medina,
unificandole. E’ovvio che c’è un unico vettore del tempo, e – qualunque sia il
nome che gli diamo – siamo tutti su un unico punto di esso. Non è di questo che
voglio parlare adesso, bensì del fatto che su quel punto unico ci si possono
trovare un ventenne, un cinquantenne e un ottantenne. E, dal punto di vista
della religione, Moishele adesso ha
ottant’anni, Jean-Jerôme cinquanta e Ahmed venti. Non è una differenza che conti
poco.
In una memorabile scena
di Non ci resta che piangere – con
Benigni e Troisi – i due, rimasti in panne con la macchina in campagna, trovano
rifugio in una locanda. E’ tutto un po’ strano, non c’è la luce – sarà il
tempaccio – vengono loro offerti dei pagliericci e una stanza con un potente
russatore già dentro. Ma al mattino sono spettatori della morte di questo
stesso individuo, trafitto da un colpo di lancia scagliato da alcuni cavalieri
attraverso la finestra. Quando scendono dabbasso trovano un gruppo di persone
vestite con cappucci, corsetti, calzamaglie. Ma che scherzo è questo? Come
siete vestiti? dice Benigni; O’vvoi?
replica un tizio riccioluto; Noi! grida
Benigni Noi siam vestiti bene, no come
voi! (…almeno normali soggiunge
Troisi col suo delizioso understatement
partenopeo). Dove siamo? incalza
Benigni. A Frittole, gli rispondono. A Frittole? Cavalli, morti, spade! Ma in che
anni siamo? La risposta lo lascerà senza parole e spaventatissimo: Nel millequattrocento, quasi milleccinque.
Se Ahmed dicesse a Jean-Jerôme che siamo nel millequattrocento lo vedrebbe mettersi a ridere. Ma religiosamente
è proprio così che stanno le cose.
Rabbini si lisciano la
loro meravigliosa barba bianca all’ombra delle Yeshivot applicando piamente le
sognanti e rigorosissime regole dell’ermeneutica ebraica alle pagine di Devarìm / Deuteronomio, Wayqrà / Levitico e Yeshua / Giosuè per comprendere cosa significhi mai il precetto di votare allo sterminio (khérem) i cananei,
dal momento che – nella storia-storia - ad essere sterminati sono stati sempre gli ebrei. Ma se vogliamo stare al
dettato biblico, questo Giosuè non era certo una colomba. Dalle città che
conquistava con la spada – oltre che facendone crollare le mura a suon di shofar - non ne scampava uno, fosse uomo
donna o bambino, e ciò per rendere onore a Tetragramma, che a quel tempo era un
Dio che non aveva scordato le sue origini tribali e desertiche, e ancora
ruggiva come un leone, ben lontano dal diventare il mite e silenzioso Antico di Giorni, quel vegliardo simile
a Gandalf che si siede in trono nella profezia del libro di Daniele (anche Dio
ha una biografia, come si ricava leggendo il piacevole libro di Jack Miles: God: a Biography). Insomma, Giosuè aveva
a che fare con un Dio ancora abbastanza giovane e forzuto. In fondo era più o
meno il 2700, son passati tremila anni da allora.
Però anche teologi,
esegeti, filologi cristiani, magari tedeschi o francesi dalle lenti spesse due
dita su montatura di tartaruga a proteggere uno sguardo acquoreo, giacca nera
con crocettina d’argento e camicia candida con le punte del collo sopra il
gilè, nelle biblioteche di Tubinga o Lovanio, si affannano a disinnescare quei
medesimi imbarazzanti testi a colpi di Redaktionsgeschichte,
Formgeschichte, di metodi storico-critici e di strutturalismo. Non è facile
armonizzare il feroce cugino dei Baal con il Padre del crocifisso. Ma più
difficile ancora – anche se forse meno cruciale – è il compito dei colleghi del
terzo piano, al dipartimento di Storia della Chiesa. Perché tutti abbiamo in
mente il buon Re Carlo – beatificato e venerato con officiatura propria nella
Cattedrale di Aquisgrana – sotto un pino, presso un roseto, maestosamente
assiso sul trono di oro puro, con la barba bianca, la testa coronata dai fiori,
il bel corpo, il contegno fiero , tutti abbiamo in mente i versi delicati della
Chanson de Roland. Ma il buon Re Carlo convertì i sassoni e gli
àvari ponendo loro di fronte - come alternativa - il fonte battesimale o il
ceppo della decapitazione, e molti dei rudi nordici offersero il collo alla
mannaia. Anche gli ortodossi, con il loro Costantino isoapostolo, non fanno meno fatica. Avrà anche trionfato contro
Massenzio nel segno della Santa Croce, ma proviamo a chiedere a Licinio, al
figlio Crispo, alla moglie Fausta e a un sacco di altra gente da lui assassinata
cosa ne pensano. Si dirà: erano secoli bui. Forse erano solo secoli di un Dio
più giovane e bellicoso. Attorno al 1500, poco più di cinquecento anni fa, di
spada e di croce gli spagnoli dilagarono nelle Americhe, vogliosi di anime,
terre e oro. Francisco Pizarro sterminò migliaia di innocenti a Cajamarca, e il
povero Atahualpa venne destinato misericordiosamente alla garrota e non al rogo
solo perché convertitosi in extremis.
Sia ben chiaro: io non
voglio dar parole alla scontata antiagiografia ateistica, e suonare la
grancassa al ritmo dell’idea della violenza intrinseca dei monoteismi. Con tali
superficialità non voglio mescolarmi. Tanto nell’antico Israele quanto nella
cristianità antica, medievale e moderna la santità era presente, percepibile,
vibrante. Se le religioni, per dirla con Lucrezio, tantum potuerunt suadere malorum, mille volte tanto hanno generato
in umanità, civiltà, bellezza. Non è sensato inoltre dire che Giosuè non avesse
un rapporto di particolare vicinanza con Tetragramma, né che Carlo Magno non
fosse solidamente cristiano. La questione, se mi si consente, è ben altra:
ossia il significato teologico della violenza. Il ripudio totale di essa da
parte del cristianesimo è abbastanza recente. Il luminoso volto dell’attuale
Patriarca di Costantinopoli, la sua attenzione orante per ogni particella del
creato di Dio, così come la dolce voce paterna e accattivante del Papa di Roma
Francesco e la sua cura per gli ultimi della terra, sono fioriture meravigliose
della contemporaneità cristiana. Se è vero che il cristianesimo ha creato le
condizioni sociologiche e storiche per lo sviluppo della dottrina dei diritti
inviolabili dell’uomo – e di tutto ciò che è chiamato generalgenericamente
‘civiltà occidentale’ – è altrettanto vero che da esse è stato
ri-evangelizzato. Molto bene, si dirà. Sì, ma non è senza aver pagato un prezzo
che questo è accaduto. il Dio cristiano è invecchiato dolcemente, diventando un
nonno saggio e buono, ma quasi privo di forze. Per i cristiani occidentali Dio,
quando non è una favola o un’assenza, è ordinariamente una decorazione
esistenziale. Alcune anime incandescenti di santità sono forse ancora disposte
a morire per Lui (e c’è da dire che ho avuto un brivido lungo la schiena quando
– leggendo un recentissimo pezzo di Luca Doninelli – ho appreso che a suo
avviso sia lui che Antonio Socci si farebbero ammazzare pur di non calpestare
la Croce; mi sono domandato, non riuscendo a rispondere, che cosa farei io, che
mi vengono le ginocchia molli se solo devo andare dal dottore). Ma nessuno – e
forse fortunatamente – sarebbe disposto a uccidere
per Lui. Toccate a un occidentale il suo SUV e lo vedrete impugnare il crick,
bestemmiate davanti a lui e rimarrà indifferente. Interisti e juventini possono
darsela di santa ragione, ma la
questione del filioque non appassiona
più se non qualche vecchio teologo. Chesterton (in The Ball and the Cross) descrive lo stupore della società londinese
dei primi del novecento quando, dopo che un editore ateo pubblica
nell’indifferenza generale una rivista contenente affermazioni insultanti
riguardo alla Vergine Maria, un cattolico scozzese sfonda la vetrina e lo sfida
a duello. L’editore ateo – che paradossalmente condivide col focoso scoto lo
stesso paradigma veritativo forte – è
ben contento di combattere: ma finiranno entrambi in manicomio. Un Dio anziano
ne ha viste tante. E’ diventato saggio. Conosce gli uomini, la loro povertà. Sa
che ce ne sono altri come Lui in cielo, che non è l’unico e non ha più voglia
né forza per giocare al maschio alfa. Certo, può ancora accigliarsi in ambito
di morale, ma ha rinunciato completamente alla violenza. La sera scende al bar
e gioca a tressette con gli altri dèi. Sono suoi amici, e sa che forse presto condivideranno
con lui anche la camera dell’ospizio. Se ha una preoccupazione, essa non
riguarda i colleghi numinosi, ma i terribili idoli rampanti, Usury, Lust and Power, per dirla
con TS Eliot. Il Dio anziano ricorda con nostalgia quando questi idoli – pur
sempre esistiti e sempre stati vigorosi – erano a Lui sottomessi. Ricorda
quando il Suo servitore Ambrogio di Milano rifiutò l’ingresso al Cesare
Teodosio per il crimine compiuto a Tessalonica. O quando Enrico IV attese
scalzo e vestito di sacco per tre giorni nella neve davanti alle porte del
castello di Canossa. Ricordi lontani, di quando era più giovane. Ora Potere, e
le sorelle Usura e Lussuria, gridano forte e dominano menti e cuori in
Occidente. Lui li rimprovera un po’, agita il dito, borbotta, ma in fondo chi è
Lui per giudicare.
E il Dio dell’ISIS? No,
Lui è più giovane. Non sono passati tanti anni da quando si scagliò sul figlio
di mercanti meccani Muhammad presso il monte di Hira, rendendolo Messaggero di Dio e Sigillo dei Profeti. Ha ancora nelle narici l’odore umido delle
carovane e negli orecchi il frastuono delle spade dei suoi che combattono gli
idolatri. E’ ancora padrone della vita e della morte degli uomini. Non c’è Dio se non Proprio-Lui Il-Dio ed
è deciso a prendersi il pianeta. Ai devoti non promette diafane e meste
speranze di un Oltre alla Here After,
ma un sacrosanto Paradiso pieno di palme di acque di ombra di gloria e di
meravigliose fanciulle dalla pelle speziata crepitante di desiderio. Se il
vecchissimo Dio ebraico dimora riposando nel giorno del Sabato, se il maturo
Dio cristiano discende nel panecorpo e nel vinosangue di una cena sacrificale,
Lui, il Dio musulmano, è una freccia, una direzione, un orientamento: una
Qibla: e vedete come ogni comunità musulmana in preghiera si trasforma
inevitabilmente in un esercito allineato e coperto, in una falange pronta alla
battaglia.
Già una volta questo Dio
si incapricciò dell’occidente e tentò di abbracciarlo con la dottrina e con le
armi. Ci riuscì quasi, fermandosi nella Francia meridionale e sotto le porte di
Vienna. Maometto II, la sera del 27 maggio dell’anno 1453 (dalla nascita di
Cristo), osservava dalla sponda asiatica del Bosforo il Corno d’Oro, e lo
vedeva come la profumata vagina dentro la quale sarebbe penetrato il suo Dio di
collera e di passione, fecondando con le spade l’Europa. Ma all’epoca anche il
Dio cristiano era sufficientemente giovane da non farsi rapire così le terre e
le anime. Don Juan d’Austria, bastardo di Carlo V, ventiquattrenne capitano al
comando di una flotta sterminata, rovesciò gli Ottomani a Lepanto. Tanto per
dire, il comandante musulmano, MuezzinZade Pascià, fu decapitato, e la sua
testa appesa all’albero maestro della Real,
la galea ammiraglia spagnola.
Ora Il-Dio soffia e
accende i cuori e le viscere dei suoi devoti del Califfato, rendendoli rossi
d’odio per l’infedele idolatra, soffia e fa sventolare i lugubri neri vessilli
dello Stato della Siria e del Levante, soffia soffia soffia e fa sbattere
schioccando la veste arancione del genuflesso reporter statunitense James Foley
prima di venire decapitato da un guerriero misterioso, nerovestito e anglofono,
nel terribile video che abbiamo tutti nella mente. Forse dovremmo riflettere
sull’età di questo Dio. Quando il nostro aveva la sua età, anche noi
ammazzavamo in Suo nome. Certo, si potrà dire – come alcuni sostengono – che la
violenza è la patologia del cristianesimo e ahimé la fisiologia dell’Islam.
Quando Benedetto XVI, inforcando gli occhiali di professore a Ratisbona, osò
citare un brano del dialogo di Manuele II Paleologo con un dotto persiano che
alludeva a questo concetto (oltre a quello – forse più grave – che il Dio
musulmano è pura volontà di potenza non sottomessa alla ragione) suscito un
vespaio planetario. Non so. Quel che è certo è che di fronte a quel guerriero
nero i nostri droni – per quanto micidiali – risultano patetici. Siamo la società delle badanti, della protezione solare +100, dell'Amuchina, degli allarmi nelle case e degli integratori vitaminici: come possiamo anche solo competere con i guerrieri vestiti del color della sabbia e del vento, che dormono distesi sulle pietre del deserto sotto la fredda volta celeste, o tutt'al più in una tenda buia dopo aver mangiato carne semicruda, e ancor più spesso vegliano abbracciati al kalashnikov, i volti arrossati dai bagliori del fuoco da campo. Consapevoli di
questo, armiamo i fronteggiatori della morte kurdi (pis mergah, fronte alla morte), che almeno son della stessa pasta
umana. Confidiamo nella lotta intestina – e la fomentiamo - tra sottospecie
settarie del Dio sanguigno e sanguinario. Che – non lo dimentichiamo – altri
non è che quello che fa impazzire di poesia Rumi e roteare d’amore e d’incanto
i dervisci. Confidiamo nel sacro simbolo della Mela di Cupertino, che come si è
detto tutti riesce ad accomunare. Forse confidiamo anche in Usura, in Lussuria
e in Potere, che un po’ se la fanno sotto davanti a tali adamantini e feroci
corteggiatori della morte propria e dei nemici, e magari potranno perfino
risultarci utili. Confidiamo in tutto, ma non nel nonno Dio cristiano, troppo
vecchio e troppo buono.
Non abbiamo più il
giovane don Juan d’Austria, ma Mr. Obama Commander
in Chief a guidare la difesa dell’Occidente. Quando è apparso in video mi è
sembrato teso e invecchiato, se penso all’effervescenza pop della sua campagna
elettorale al grido dello yeswecan.
Il Califfato, dice, has no place in 21st
century. No di sicuro: ma forse ha posto nel 15th century, che è poi quello in cui veramente lo vuole.
Forse vinceremo. Abbiamo
i satelliti, gli aerei telecomandati, abbiamo il controllo dei mercati, abbiamo
un fortissimo pensiero debole che può inocularsi perfino sotto la corazza
saracena e fare precocemente invecchiare anche il loro Dio. Forse ad essere
sacrificato – come al solito – sarà il popolo espiatorio di sempre, avamposto
tragico e bellissimo nel vicino oriente. Forse, a dispetto di tutto, vinceremo. Ah, gran bella soddisfazione, vincere del segno di Usury,
Lust and Power. Ma forse vinceremo.
O forse no, forse
perderemo. In questo caso io chiederei la grazia di lasciarmi ammazzare pur di
non calpestare la Croce. Ma non per un glorioso senso di martirio, non tanto
per Dio, quanto per me, per conservare fino in fondo una dignità basica, per il
minimo sindacale di lealtà che la mia storia richiede. Se noi dello Stato di Ponente potremo ancora esprimere qualcosa, sarà questa fedeltà fredda, ostinata e rassegnata. Un martirio a bassa intensità. Peraltro meglio sgozzato che cateterizzato, intubato, frastornato e solo. Confido in quel momento di poter rivolgermi a un Tu
paterno, materno, almeno fraterno, ma chissà, posso solo sperarlo. Non ho la
statura umana e spirituale di Padre Christian de Chergé, il cui testamento
tuttavia, proprio in questo momento, proprio dopo questi sgozzamenti, ciascuno
dovrebbe rileggere. Magari potrò soltanto mormorare la preghiera di Hemingway,
la più occidentale di tutte: Our nada who
art in nada, nada be thy name thy kingdom nada thy will be nada in nada as it
is in nada. Give us this nada our daily nada and nada us
our nada as we nada our nadas and nada us not into nada but deliver us from
nada; Hail nothing full of nothing, nothing is with thee…. Andrà bene lo stesso. Se avrò lo spirito, però, farò l’occhiolino al
giovane Dio furibondo che sostiene la mano del nero guerriero. Ti conosco. invecchierai anche Tu, più
presto di quel che pensi. Guardando
bene, vedo già qualche ruga. E forse sarà proprio il tuo devoto nerovestito a
venire ucciso dal servitore di un Dio più giovane e forte di te. E a dire, nel
disincanto del suo ultimo istante, Non c’è nulla se non Il-Nulla, e Nulla è
messaggero del Nulla.
Più urgente di tutto
questo, però, è per me il Califfato che avanza a oriente della mia anima, pieno
di vita e di morte, di luce e di tenebra, di odio e di amore, di distruzione
(tanto ha già distrutto) e forse di creatività, che pretende di conquistarmi,
me ormai così vecchio, di saccheggiare le agende, di stuprare le abitudini, di
imporre una nuova e terribile legge. E quel che resta di me non ha nemmeno i
droni.
Ah, Leo, Leo.
RispondiEliminaE se fossero necessarie solo debolezza e impotenza?
Se solo, il Nulla di Dio potesse combattere (e vincere) Potere, Usura e Lussuria ( e il nostro Califfato)?