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venerdì 22 agosto 2014

5774, 2014, 1435

C’è uno slargo, nella cinta della Gerusalemme vecchia, dove ieri – in un unico istante, ossia alle 17.49 -  si sono trovati contemporaneamente, e per caso, tre ragazzi, tutti e tre di dodici anni. Il primo si chiama Moishele, è uno dei sei figli di una famiglia di Haredim di origine askenazita; indossava una camicia bianca e dei pantaloni scuri, come sempre, del resto; è biondo, ha gli occhi azzurro chiaro, e da sotto la kippah nera spuntano, ai lati della testa, lunghi ciuffi fulvi che quando sarà più grande arriccerà nei tradizionali i payot; è un piccolo zaddiq, e camminava velocemente accanto al padre – il quale a sua volta spingeva un passeggino biposto con a bordo altri due figlioletti – dirigendosi verso il Muro Occidentale. Il secondo è Ahmed, un ragazzo arabo dagli occhi neri come perle, che giocava a palla in strada con alcuni amici; suo padre è un devoto musulmano sunnita, e ha la funzione di imam, cioè guida gli altri credenti, ponendosi di fronte a loro, nelle cinque preghiere quotidiane in una piccola moschea. Passava di lì anche Jean-Jerôme, parigino del quartiere Montparnasse, venuto con i genitori in pellegrinaggio in Terra Santa, ha il volto simpatico e lentigginoso, e in quel momento portava una maglietta con il logo dell’Hard Rock Cafè – Jerusalem, che i suoi gli avevano appena regalato e di cui andava molto fiero; è stato appena cresimato, e – per quanto spesso si annoi – segue il papà e la mamma a messa la domenica.
Ieri, alle 17.49 orario locale, i tre ragazzini erano vicinissimi. Nello spazio e – si direbbe – ancor più nel tempo. Però per Jean-Jerôme era il 21 agosto dell’anno 2014 dalla Nascita di Gesù, per Ahmed era il 25 Shawwal dell’anno 1435 dall’Egira, per Moishele il 25 Av del 5774 dalla Creazione del mondo. Jean-Jerôme sa di vivere all’inizio del terzo millennio, essendoci perfino nato, a differenza della sorella maggiore che ha 16 anni, è nata au siecle dernier –  di questo lui la prende in giro ridendo – e si è guardata bene dall’accompagnare la famiglia in Terra Santa, preferendo di gran lunga andare in tenda col fidanzato a Tarifa per fare kitesurfing. Moishele, nonostante tutto, vive in un fantafuturo (5774 sa di science fiction e di navi spaziali alla Star Trek). Ahmed è un ragazzo tardo medioevale, prima metà del Quattrocento.

Ora, è chiaro che i piccoli Moishele, Jean-Jerôme e Ahmed stasera giocheranno ad Angry Birds sul medesimo modello di IPad. La scienza, in generale la conoscenza, ma soprattutto la tecnologia, hanno un calendario tutto loro a cui prima o poi tutti quanti si adattano. Va bene il Magen Dawid, la Croce o la Mezzaluna: ma alla fine è la Mela Morsicata che brilla dai retroschermi dei laptop di Tel Aviv, di Roma o di Medina, unificandole. E’ovvio che c’è un unico vettore del tempo, e – qualunque sia il nome che gli diamo – siamo tutti su un unico punto di esso. Non è di questo che voglio parlare adesso, bensì del fatto che su quel punto unico ci si possono trovare un ventenne, un cinquantenne e un ottantenne. E, dal punto di vista della religione, Moishele adesso ha ottant’anni, Jean-Jerôme cinquanta e Ahmed venti. Non è una differenza che conti poco.

In una memorabile scena di Non ci resta che piangere – con Benigni e Troisi – i due, rimasti in panne con la macchina in campagna, trovano rifugio in una locanda. E’ tutto un po’ strano, non c’è la luce – sarà il tempaccio – vengono loro offerti dei pagliericci e una stanza con un potente russatore già dentro. Ma al mattino sono spettatori della morte di questo stesso individuo, trafitto da un colpo di lancia scagliato da alcuni cavalieri attraverso la finestra. Quando scendono dabbasso trovano un gruppo di persone vestite con cappucci, corsetti, calzamaglie. Ma che scherzo è questo? Come siete vestiti? dice Benigni; O’vvoi? replica un tizio riccioluto; Noi! grida Benigni Noi siam vestiti bene, no come voi! (…almeno normali soggiunge Troisi col suo delizioso understatement partenopeo). Dove siamo? incalza Benigni. A Frittole, gli rispondono. A Frittole? Cavalli, morti, spade! Ma in che anni siamo? La risposta lo lascerà senza parole e spaventatissimo: Nel millequattrocento, quasi milleccinque. Se Ahmed dicesse a Jean-Jerôme che siamo nel millequattrocento lo vedrebbe mettersi a ridere. Ma religiosamente è proprio così che stanno le cose.

Rabbini si lisciano la loro meravigliosa barba bianca all’ombra delle Yeshivot applicando piamente le sognanti e rigorosissime regole dell’ermeneutica ebraica alle pagine di Devarìm / Deuteronomio, Wayqrà / Levitico e Yeshua / Giosuè per comprendere cosa significhi mai il precetto di votare allo sterminio (khérem) i cananei, dal momento che – nella storia-storia -  ad essere sterminati sono stati sempre gli ebrei. Ma se vogliamo stare al dettato biblico, questo Giosuè non era certo una colomba. Dalle città che conquistava con la spada – oltre che facendone crollare le mura a suon di shofar - non ne scampava uno, fosse uomo donna o bambino, e ciò per rendere onore a Tetragramma, che a quel tempo era un Dio che non aveva scordato le sue origini tribali e desertiche, e ancora ruggiva come un leone, ben lontano dal diventare il mite e silenzioso Antico di Giorni, quel vegliardo simile a Gandalf che si siede in trono nella profezia del libro di Daniele (anche Dio ha una biografia, come si ricava leggendo il piacevole libro di Jack Miles: God: a Biography). Insomma, Giosuè aveva a che fare con un Dio ancora abbastanza giovane e forzuto. In fondo era più o meno il 2700, son passati tremila anni da allora.

Però anche teologi, esegeti, filologi cristiani, magari tedeschi o francesi dalle lenti spesse due dita su montatura di tartaruga a proteggere uno sguardo acquoreo, giacca nera con crocettina d’argento e camicia candida con le punte del collo sopra il gilè, nelle biblioteche di Tubinga o Lovanio, si affannano a disinnescare quei medesimi imbarazzanti testi a colpi di Redaktionsgeschichte, Formgeschichte, di metodi storico-critici e di strutturalismo. Non è facile armonizzare il feroce cugino dei Baal con il Padre del crocifisso. Ma più difficile ancora – anche se forse meno cruciale – è il compito dei colleghi del terzo piano, al dipartimento di Storia della Chiesa. Perché tutti abbiamo in mente il buon Re Carlo – beatificato e venerato con officiatura propria nella Cattedrale di Aquisgrana – sotto un pino, presso un roseto, maestosamente assiso sul trono di oro puro, con la barba bianca, la testa coronata dai fiori, il bel corpo, il contegno fiero , tutti abbiamo in mente i versi delicati della Chanson de Roland. Ma il buon Re Carlo convertì i sassoni e gli àvari ponendo loro di fronte - come alternativa - il fonte battesimale o il ceppo della decapitazione, e molti dei rudi nordici offersero il collo alla mannaia. Anche gli ortodossi, con il loro Costantino isoapostolo, non fanno meno fatica. Avrà anche trionfato contro Massenzio nel segno della Santa Croce, ma proviamo a chiedere a Licinio, al figlio Crispo, alla moglie Fausta e a un sacco di altra gente da lui assassinata cosa ne pensano. Si dirà: erano secoli bui. Forse erano solo secoli di un Dio più giovane e bellicoso. Attorno al 1500, poco più di cinquecento anni fa, di spada e di croce gli spagnoli dilagarono nelle Americhe, vogliosi di anime, terre e oro. Francisco Pizarro sterminò migliaia di innocenti a Cajamarca, e il povero Atahualpa venne destinato misericordiosamente alla garrota e non al rogo solo perché convertitosi in extremis.

Sia ben chiaro: io non voglio dar parole alla scontata antiagiografia ateistica, e suonare la grancassa al ritmo dell’idea della violenza intrinseca dei monoteismi. Con tali superficialità non voglio mescolarmi. Tanto nell’antico Israele quanto nella cristianità antica, medievale e moderna la santità era presente, percepibile, vibrante. Se le religioni, per dirla con Lucrezio, tantum potuerunt suadere malorum, mille volte tanto hanno generato in umanità, civiltà, bellezza. Non è sensato inoltre dire che Giosuè non avesse un rapporto di particolare vicinanza con Tetragramma, né che Carlo Magno non fosse solidamente cristiano. La questione, se mi si consente, è ben altra: ossia il significato teologico della violenza. Il ripudio totale di essa da parte del cristianesimo è abbastanza recente. Il luminoso volto dell’attuale Patriarca di Costantinopoli, la sua attenzione orante per ogni particella del creato di Dio, così come la dolce voce paterna e accattivante del Papa di Roma Francesco e la sua cura per gli ultimi della terra, sono fioriture meravigliose della contemporaneità cristiana. Se è vero che il cristianesimo ha creato le condizioni sociologiche e storiche per lo sviluppo della dottrina dei diritti inviolabili dell’uomo – e di tutto ciò che è chiamato generalgenericamente ‘civiltà occidentale’ – è altrettanto vero che da esse è stato ri-evangelizzato. Molto bene, si dirà. Sì, ma non è senza aver pagato un prezzo che questo è accaduto. il Dio cristiano è invecchiato dolcemente, diventando un nonno saggio e buono, ma quasi privo di forze. Per i cristiani occidentali Dio, quando non è una favola o un’assenza, è ordinariamente una decorazione esistenziale. Alcune anime incandescenti di santità sono forse ancora disposte a morire per Lui (e c’è da dire che ho avuto un brivido lungo la schiena quando – leggendo un recentissimo pezzo di Luca Doninelli – ho appreso che a suo avviso sia lui che Antonio Socci si farebbero ammazzare pur di non calpestare la Croce; mi sono domandato, non riuscendo a rispondere, che cosa farei io, che mi vengono le ginocchia molli se solo devo andare dal dottore). Ma nessuno – e forse fortunatamente – sarebbe disposto a uccidere per Lui. Toccate a un occidentale il suo SUV e lo vedrete impugnare il crick, bestemmiate davanti a lui e rimarrà indifferente. Interisti e juventini possono darsela di santa ragione, ma la questione del filioque non appassiona più se non qualche vecchio teologo. Chesterton (in The Ball and the Cross) descrive lo stupore della società londinese dei primi del novecento quando, dopo che un editore ateo pubblica nell’indifferenza generale una rivista contenente affermazioni insultanti riguardo alla Vergine Maria, un cattolico scozzese sfonda la vetrina e lo sfida a duello. L’editore ateo – che paradossalmente condivide col focoso scoto lo stesso paradigma veritativo forte – è ben contento di combattere: ma finiranno entrambi in manicomio. Un Dio anziano ne ha viste tante. E’ diventato saggio. Conosce gli uomini, la loro povertà. Sa che ce ne sono altri come Lui in cielo, che non è l’unico e non ha più voglia né forza per giocare al maschio alfa. Certo, può ancora accigliarsi in ambito di morale, ma ha rinunciato completamente alla violenza. La sera scende al bar e gioca a tressette con gli altri dèi. Sono suoi amici, e sa che forse presto condivideranno con lui anche la camera dell’ospizio. Se ha una preoccupazione, essa non riguarda i colleghi numinosi, ma i terribili idoli rampanti, Usury, Lust and Power, per dirla con TS Eliot. Il Dio anziano ricorda con nostalgia quando questi idoli – pur sempre esistiti e sempre stati vigorosi – erano a Lui sottomessi. Ricorda quando il Suo servitore Ambrogio di Milano rifiutò l’ingresso al Cesare Teodosio per il crimine compiuto a Tessalonica. O quando Enrico IV attese scalzo e vestito di sacco per tre giorni nella neve davanti alle porte del castello di Canossa. Ricordi lontani, di quando era più giovane. Ora Potere, e le sorelle Usura e Lussuria, gridano forte e dominano menti e cuori in Occidente. Lui li rimprovera un po’, agita il dito, borbotta, ma in fondo chi è Lui per giudicare.

E il Dio dell’ISIS? No, Lui è più giovane. Non sono passati tanti anni da quando si scagliò sul figlio di mercanti meccani Muhammad presso il monte di Hira, rendendolo Messaggero di Dio e Sigillo dei Profeti. Ha ancora nelle narici l’odore umido delle carovane e negli orecchi il frastuono delle spade dei suoi che combattono gli idolatri. E’ ancora padrone della vita e della morte degli uomini. Non c’è Dio se non Proprio-Lui Il-Dio ed è deciso a prendersi il pianeta. Ai devoti non promette diafane e meste speranze di un Oltre alla Here After, ma un sacrosanto Paradiso pieno di palme di acque di ombra di gloria e di meravigliose fanciulle dalla pelle speziata crepitante di desiderio. Se il vecchissimo Dio ebraico dimora riposando nel giorno del Sabato, se il maturo Dio cristiano discende nel panecorpo e nel vinosangue di una cena sacrificale, Lui, il Dio musulmano, è una freccia, una direzione, un orientamento: una Qibla: e vedete come ogni comunità musulmana in preghiera si trasforma inevitabilmente in un esercito allineato e coperto, in una falange pronta alla battaglia.

Già una volta questo Dio si incapricciò dell’occidente e tentò di abbracciarlo con la dottrina e con le armi. Ci riuscì quasi, fermandosi nella Francia meridionale e sotto le porte di Vienna. Maometto II, la sera del 27 maggio dell’anno 1453 (dalla nascita di Cristo), osservava dalla sponda asiatica del Bosforo il Corno d’Oro, e lo vedeva come la profumata vagina dentro la quale sarebbe penetrato il suo Dio di collera e di passione, fecondando con le spade l’Europa. Ma all’epoca anche il Dio cristiano era sufficientemente giovane da non farsi rapire così le terre e le anime. Don Juan d’Austria, bastardo di Carlo V, ventiquattrenne capitano al comando di una flotta sterminata, rovesciò gli Ottomani a Lepanto. Tanto per dire, il comandante musulmano, MuezzinZade Pascià, fu decapitato, e la sua testa appesa all’albero maestro della Real, la galea ammiraglia spagnola.

Ora Il-Dio soffia e accende i cuori e le viscere dei suoi devoti del Califfato, rendendoli rossi d’odio per l’infedele idolatra, soffia e fa sventolare i lugubri neri vessilli dello Stato della Siria e del Levante, soffia soffia soffia e fa sbattere schioccando la veste arancione del genuflesso reporter statunitense James Foley prima di venire decapitato da un guerriero misterioso, nerovestito e anglofono, nel terribile video che abbiamo tutti nella mente. Forse dovremmo riflettere sull’età di questo Dio. Quando il nostro aveva la sua età, anche noi ammazzavamo in Suo nome. Certo, si potrà dire – come alcuni sostengono – che la violenza è la patologia del cristianesimo e ahimé la fisiologia dell’Islam. Quando Benedetto XVI, inforcando gli occhiali di professore a Ratisbona, osò citare un brano del dialogo di Manuele II Paleologo con un dotto persiano che alludeva a questo concetto (oltre a quello – forse più grave – che il Dio musulmano è pura volontà di potenza non sottomessa alla ragione) suscito un vespaio planetario. Non so. Quel che è certo è che di fronte a quel guerriero nero i nostri droni – per quanto micidiali – risultano patetici. Siamo la società delle badanti, della protezione solare +100, dell'Amuchina, degli allarmi nelle case e degli integratori vitaminici: come possiamo anche solo competere con i guerrieri vestiti del color della sabbia e del vento, che dormono distesi sulle pietre del deserto sotto la fredda volta celeste, o tutt'al più in una tenda buia dopo aver mangiato carne semicruda, e ancor più spesso vegliano abbracciati al kalashnikov, i volti arrossati dai bagliori del fuoco da campo. Consapevoli di questo, armiamo i fronteggiatori della morte kurdi (pis mergah, fronte alla morte), che almeno son della stessa pasta umana. Confidiamo nella lotta intestina – e la fomentiamo - tra sottospecie settarie del Dio sanguigno e sanguinario. Che – non lo dimentichiamo – altri non è che quello che fa impazzire di poesia Rumi e roteare d’amore e d’incanto i dervisci. Confidiamo nel sacro simbolo della Mela di Cupertino, che come si è detto tutti riesce ad accomunare. Forse confidiamo anche in Usura, in Lussuria e in Potere, che un po’ se la fanno sotto davanti a tali adamantini e feroci corteggiatori della morte propria e dei nemici, e magari potranno perfino risultarci utili. Confidiamo in tutto, ma non nel nonno Dio cristiano, troppo vecchio e troppo buono.

Non abbiamo più il giovane don Juan d’Austria, ma Mr. Obama Commander in Chief a guidare la difesa dell’Occidente. Quando è apparso in video mi è sembrato teso e invecchiato, se penso all’effervescenza pop della sua campagna elettorale al grido dello yeswecan. Il Califfato, dice, has no place in 21st century. No di sicuro: ma forse ha posto nel 15th century, che è poi quello in cui veramente lo vuole.

Forse vinceremo. Abbiamo i satelliti, gli aerei telecomandati, abbiamo il controllo dei mercati, abbiamo un fortissimo pensiero debole che può inocularsi perfino sotto la corazza saracena e fare precocemente invecchiare anche il loro Dio. Forse ad essere sacrificato – come al solito – sarà il popolo espiatorio di sempre, avamposto tragico e bellissimo nel vicino oriente. Forse, a dispetto di tutto, vinceremo. Ah, gran bella soddisfazione, vincere del segno di Usury, Lust and Power. Ma forse vinceremo.
O forse no, forse perderemo. In questo caso io chiederei la grazia di lasciarmi ammazzare pur di non calpestare la Croce. Ma non per un glorioso senso di martirio, non tanto per Dio, quanto per me, per conservare fino in fondo una dignità basica, per il minimo sindacale di lealtà che la mia storia richiede. Se noi dello Stato di Ponente potremo ancora esprimere qualcosa, sarà questa fedeltà fredda, ostinata e rassegnata. Un martirio a bassa intensità. Peraltro meglio sgozzato che cateterizzato, intubato, frastornato e solo. Confido in quel momento di poter rivolgermi a un Tu paterno, materno, almeno fraterno, ma chissà, posso solo sperarlo. Non ho la statura umana e spirituale di Padre Christian de Chergé, il cui testamento tuttavia, proprio in questo momento, proprio dopo questi sgozzamenti, ciascuno dovrebbe rileggere. Magari potrò soltanto mormorare la preghiera di Hemingway, la più occidentale di tutte: Our nada who art in nada, nada be thy name thy kingdom nada thy will be nada in nada as it is in nada. Give us this nada our daily nada and nada us our nada as we nada our nadas and nada us not into nada but deliver us from nada; Hail nothing full of nothing, nothing is with thee…. Andrà bene lo stesso. Se avrò lo spirito, però, farò l’occhiolino al giovane Dio furibondo che sostiene la mano del nero guerriero. Ti conosco. invecchierai anche Tu, più presto di quel che pensi. Guardando bene, vedo già qualche ruga. E forse sarà proprio il tuo devoto nerovestito a venire ucciso dal servitore di un Dio più giovane e forte di te. E a dire, nel disincanto del suo ultimo istante, Non c’è nulla se non Il-Nulla, e Nulla è messaggero del Nulla.


Più urgente di tutto questo, però, è per me il Califfato che avanza a oriente della mia anima, pieno di vita e di morte, di luce e di tenebra, di odio e di amore, di distruzione (tanto ha già distrutto) e forse di creatività, che pretende di conquistarmi, me ormai così vecchio, di saccheggiare le agende, di stuprare le abitudini, di imporre una nuova e terribile legge. E quel che resta di me non ha nemmeno i droni.


1 commento:

  1. Ah, Leo, Leo.

    E se fossero necessarie solo debolezza e impotenza?
    Se solo, il Nulla di Dio potesse combattere (e vincere) Potere, Usura e Lussuria ( e il nostro Califfato)?

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