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lunedì 10 febbraio 2014

[Un anno dopo] Nevicata bianca: il Papa diventi monaco



11 Febbraio 2013, ore 2.32pm

Un'umida corrente giunge dall'Atlantico, e incontra i gelidi venti polari. Nevica fitto su Milano, e il vento spinge i fiocchi sui vetri delle finestre. Benedetto XVI si dimette. Nevicata bianca. Un'altra perturbazione occidentale inquietava questi cieli in quell'aprile del 2005, e un temporale si scatenava sulla città, mentre in una Roma grigia un fragile professore tedesco, appena vestito dei panni lasciati dal gigante polacco, si presentava al balcone della grande basilica come l'umile operaio della vigna del Signore. Fumata bianca.

Si scatenano i giornali, i siti. Televisioni e radio si contendono vaticanisti illustri, merce ora mediaticamente pregiata. Le Cancellerie mondiali rilasciano dichiarazioni infelucate. I social network schiumano di banalità, stupidaggini, ironie anche molto divertenti, presagi apocalittici. Morto un Papa se ne fa un altro, ma dimesso un Papa se ne fa un altro? Oppure il cadavere vivente che torna a vestirsi di nero sarà un'angoscia eccessiva per il neoeletto?

Io ho in mente alcuni ricordi. Ratisbona, e il terribile incontro scontro con l'Islam. Le sue occhiaie nere, scavate da un dolore che nessuno conosce interamente. La sua caduta silenziosa, quando una folle ragazza svizzera volle abbracciarlo, in mezzo alla basilica di san Pietro come un grande vecchissimo abete.  Il suo piegare il capo verso il Mihrab nella moschea blu.  La difesa accanita della ragione, povero dolcissimo professore teutone, 'ammalato' - come direbbe forse Umberto Eco - 'di clavicembalo ben temperato', mentre la postmodernità svelava un cosmo differente, liquido, anche se attraversato da strani bagliori. Il dolore degli scandali del clero. Il suo giungere le mani - come sottolineava qualche tempo fa un amico monaco - un po' orientale, un po' indobuddista, quando doveva salutare o rendere omaggio. Le carte sottratte, gli intrighi di curia, i corvi, i processi e le prigioni in Vaticano. Wojtila aveva l'attentatore turco, il feroce assassino, il Lupo Grigio, da visitare e perdonare, lui solo il molle ragazzone maggiordomo che rovistava nei cassetti. Otto anni come ricoperti di un mantello di inquietudine e di indecifrabilità.

E ora questo vecchio professore spiazza il mondo. Perfino la turbinante postmodernità tace e si siede ai piedi del Maestro. Con poche parole in un latino austerissimo, Benedetto ritorna Giuseppe, Giuseppe il sognatore, Giuseppe il fanciullo - with the amazing technicolor dreamcoat - Giuseppe lo sposo. Il vecchio ritorna bambino. Giovanni Paolo II aveva dato alla sua Chiesa lo spettacolo tragico e possente della sua malattia e agonia, Benedetto XVI dà alla sua Chiesa quello sommesso e mancafiato della sua stessa simbolica morte. 

Il piccolo Giuseppe dice di voler pregare. Mi piacerebbe che andasse in monastero. Magari in un monastero cistercense o certosino. Ora che è tornato giovane può sovrascrivere la vita, rivestirsi ancora di bianco, della bianca lana di san Bernardo o di san Bruno, stretta ai fianchi da una cintura di cuoio. Nevicata bianca, il Papa diventi monaco.

E contemporaneamente sarebbe bello che due Legati vaticani - come nel 'Die Erwaehlte' di Mann - giungessero in un monastero, dicendo a un monaco giovane che è tempo di diventare vecchio, di lasciare le dolci lane monastiche per le terribili, brucianti sete bianche e rosse della veste petrina. Un monaco diventi Papa. Ed evangelizzi il postmoderno.  Fumata bianca.


 

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