Zosima è monaco, monaco perfetto, primo della classe dello
spirito, stacanovista dell’ascesi, valedictorian
del monastero; nasce santo e poi non pago lo diventa anche; non commette mai
peccati, osserva acribicamente ogni minima regola, e dove non ci sono regole ce
ne mette lui di rigidissime; anno dopo anno e sono già cinquantatre, giorno
dopo giorno e sono già diciannovemila, ora dopo ora e sono già cinquecentomila,
istante dopo istante e sono già infiniti, medita la Scrittura, apre la bocca e
il cuore a una salmodia ininterrotta, chiude le mani e la mente nell’incessante
lavoro dell’intreccio dei canestri; quando dorme, e dorme pochissimo, sogna di
salmodiare, sogna di lavorare.
Zosima è monaco, monaco perfetto ma non contento, possibile
che sia tutto qui, tutto in questa osservanza, tutto in questa perfezione,
possibile che non ci sia altro da imparare, possibile non ci sia oltre dove
andare. Lascia il suo monastero per cercare nuove sfide alla sua volontà
ascetica, raggiunge un cenobio presso il fiume Giordano, e ivi trova tanti
altri se stesso; qui sono tutti perfetti, sempre a salmodiare, sempre a
lavorare, pochissime parole e mai una oziosa, pochissimi pensieri e mai uno al
denaro o all’amore ma solo al cielo; hanno abbandonato la vita e i suoi dolori,
hanno scelto la morte al mondo, i loro corpi assottigliati dal digiuno sono la
pura occasione perché l’anima si trattenga a fare vita quasi angelica prima di
volar via in un battito impercettibile d’ali.
Zosima è monaco, monaco perfetto ma non contento, ora fra
altri monaci perfetti ma che siano contenti o meno non lo si sa. Arriva la
Quaresima e ognuno di loro si fa un fagotto di poche cose e pochissimo cibo e
si inoltra solitario nel deserto, sempre più al largo nell’oceano rossastro di
pietra e sabbia, fino a che anche la minima riva di una relazione orizzontale
sia scomparsa e possano essere finalmente soli col Solo. Zosima va anche lui, e
il fagotto è più leggero di quello degli altri, ma il cuore molto pesante per
quella strana, bizzarra scontentezza. Zosima va e sente la stanchezza, perché
le cinquecentomila ore perfette gli gravano sulle spalle come piombo.
Zosima un giorno si sveglia dopo aver dormito qualche ora
con le rocce come cuscino a somiglianza del patriarca Giacobbe, ma senza fare
alcun sogno; si alza e pensa di stare sognando adesso, invece, perché gli
sembra di vedere lontano muoversi l’ombra di un corpo umano: sottilissima,
velocissima, leggerissima; Zosima mette le mani a tettuccio sugli occhi, e vede
che è una donna, una donna completamente nuda, il corpo annerito dall’arsura
solare, i capelli candidi, e fugge via come il vento.
Zosima adesso corre, corre come quando era giovane, come se
di ore ne avesse solo centomila, e neanche il peso sul cuore lo rallenta,
Zosima corre corre corre e chiede e supplica la donna di fermarsi e di
benedirlo, e ogni tanto dà un’occhiata al cuore ed ecco è pieno di una dolcezza
inspiegabile e mai provata, e poi non ce la fa più, lei è così più veloce, e
cade a terra, e piange, e grida basta, ti
prego, benedicimi.
Maria, così si chiama la donna, si ferma, si gira verso
Zosima il monaco, e si prostra davanti a lui, chiedendo a propria volta di
essere benedetta. Rimangono così per molte ore, che per Zosima si aggiungono
alle cinquecentomila ma hanno proprio un altro sapore. Due figurette distese e
allungate nel mezzo del niente, nel mezzo del sole e del vento e della pietra.
Vento e sole passano su di loro, la pietra invece rimane ferma, ed ecco che è
notte. Si leva nel cielo una luna crescente, preludio del plenilunio pasquale:
intorno tutto è nitidissimo, con i margini ritagliati su uno sfondo d’ombra.
Zosima si inginocchia, Zosima comincia a salmodiare, lui fa solo questo da
sempre, però guarda lei, miodio come è leggera, sembra che possa levarsi da
terra in ogni istante. Ecco: si è levata: ora danza nel cielo. Zosima pensa ora
che qualcuno di molto forte e di molto malvagio lo stia ingannando, non è forse
il deserto patria di spettri e di demoni? Chiude gli occhi, mormora un esorcismo,
li riapre. Ora la donna è più vicina, non la vede ma ne sente la voce. Davanti
a lui tutto è pieno di stelle.
Maria dice: sono una donna. Sono solo una donna: ma
battezzata. Sono peccatrice: ma battezzata. Sono brace, sono cenere, sono carne
bruciata: ma battezzata. Sono incapace anche di un solo pensiero spirituale:
eppure, sono battezzata. Zosima tace, immobile, genuflesso: è solo ascolto.
Maria continua: nacqui in Egitto. A dodici anni sono fuggita da casa con una
carovana di mercanti che passava. Mi presero con loro, e presero la mia
verginità, lasciandomi ad Alessandria. Da allora vivo nell’incendio dei sensi.
Per diciassette anni passai da un abbraccio a un altro, da un giaciglio
all’altro, dal ricco al povero, dal soldato al mercante al prete. Mi volevano
pagare: rifiutavo. Mi facevano regali: li sdegnavo. Mi appagava il piacere di
quegli incontri, e insieme non mi appagava. Stretta ad un uomo, pensavo già al
prossimo. Un giorno, al porto, vidi ricchi pellegrini imbarcarsi su una nave,
cristiani che andavano a Gerusalemme. In cerca di occasioni di piacere, volli
andare con loro; non avevo denaro ma il capitano sapeva che avevo modo di
pagarlo anche senza. Gerusalemme mi piaceva: prendere al laccio del mio fascino
i cuori dei pellegrini e al laccio delle mie braccia e delle mie gambe i loro
corpi mi dava una strana soddisfazione, godevo a stare fra il loro desiderio di
essere santi e la loro incapacità di esserlo. Però accadde che un mattino – il
sole non era ancora sorto – vidi una folla di loro, donne e uomini, affrettarsi
alla chiesa dell’Anastasis con la faccia contenta. Li seguii, senza saper
perché, ma questa volta non per le mie voglie. Entrarono, e volli seguirli
ancora. Fu allora che successe. Io sono stata toccata da mille uomini, so cosa
sono i loro abbracci, so cosa sono le loro botte, e so quando non si può dire
se siano abbracci o botte: ma questo tocco io non l’avevo mai provato. Era il
tocco di un maschio, ma nessun maschio toccava così. Era un muro su cui
sbattevo e allo stesso tempo un blocco interiore. Mi respingeva, ed era un
attrarmi. Mi lasciava i lividi sul corpo, ma nessuna carezza mi ha mai onorato
così. Sta di fatto che io – nella chiesa – non potevo entrare, perché una
misteriosa forza me lo impediva. Una immensa Potenza dominava il luogo. Vidi
sull’architrave della porta un’icona della Madre di Dio, due occhi enormi e
scuri che scintillavano su uno sfondo d’oro. Io, la lussuriosa, osai guardare
la Vergine, io, Maria, guardai Maria. Non so dire quanto durò, quando si piange
il tempo è come se si curvasse, ma, quando ritornai in me, la medesima forza
che prima mi sbarrava l’ingesso del tempio mi ci trascinò dentro col medesimo
impeto: mi ritrovai in un istante nel Santo dei Santi, con la mia fronte
poggiata sulla pietra del sepolcro, i miei capelli sparsi sulla pietra del
sepolcro, le mie lacrime cadevano sulla pietra del sepolcro. Poi, la Forza mi
trasse fuori e mi scagliò verso il deserto come si scocca una freccia. Uscii
dalla porta che dà sulla strada per Gerico. Io correvo e mi svestivo dei miei
abiti colorati eppure un altro correva e mi svestiva. Non so come attraversai
il fiume, ricordo solo che mi trovai dall’altra parte. Saranno quarant’anni
adesso. Abba.
Maria ora tace, per Zosima è come lo svegliarsi da un sogno.
Guarda la donna, il suo corpo nudo e castissimo, modellato dal Sommo scultore
con lo scalpello dell’astinenza. L’esperto di ogni strategia ascetica intuisce
davanti a lei la possibilità di acquisirne una ancora. Le chiede: Madre, dimmi
una parola. Che è il modo usato fra i monaci del deserto per dire: Dammi un
consiglio spirituale. Maria non dice nulla, continua a guardarlo con occhi
calmi. Zosima insiste: Madre, vedo che sei stata vittoriosa su tutti i demòni.
Ti prego, insegnami come.
Maria risponde subito: No, Abba, io non ho vinto niente. La
carne che tu vedi brucia ancora di tutte le passioni di prima. E’ come un
tizzone imbiancato dal fuoco, basta che ci soffi sopra appena e diventa tutto
rosso. Un vento, poi, lo farebbe fiammeggiare. No, Abba, non ho vinto niente.
L’altra Maria, però, la santa Vergine, è sempre stata con me, mia compagna di
romitaggio. Lei mi dona il pianto, e le lacrime bagnano quei fuochi e li
smorzano.
Amma, ma reciterai i salmi – dice adesso Zosima, e torna per
un attimo il primo della classe – Amma, ma leggerai la Scrittura! Salmi,
risponde calma Maria, non so di cosa parli, padre mio. Ma dopo tanti anni canto
al mio Amato con le voci degli uccelli, col bramito delle antilopi, col
gracchiare dei corvi, col ronzare degli insetti, col ruggire delle fiere: così
io chiedo a Lui che ogni giorno possa ricevere la grande misericordia.
Fanno silenzio. Per quelle due anime la parola è uno sforzo,
un salto, e il silenzio il luogo dove subito si ricade e si riposa. Maria si
alza, è esile come un soffio di brezza. e fa per allontarsi. Zosima la chiama:
Madre, vieni con me, perché fra pochi giorni è Pasqua, madre, vieni con me al
cenobio, perché fra pochi giorni è Pasqua, madre, riceverai i Santi e Terribili
Misteri, il Corpo e il Sangue del Signore, perché fra pochi giorni è Pasqua.
Maria risponde: il mio Diletto mi ha chiamato al deserto, come potrei venire da
altri uomini, qui Lui dimora in me e io in Lui, l’amata sta dove l’Amato vuole;
ma se tu, Abba, vuoi aver la grazia di portarmi il Divino Calice, tra un anno,
a Pasqua, sotto questa stessa luna, io sarò qui a riceverlo e Lui ti
ricompenserà grandemente. Zosima si volta, fa per dir qualcosa ma lei è ormai
lontanissima, una macchia bruna sulle rocce rosse.
Cinquecentomila ore Zosima ha passato in monastero, ma le
poche migliaia di questo anno sono lunghe mille ciascuna. Per la prima volta egli
attende qualcosa che non è l’apocalisse, o la propria morte. Attende una donna.
Primavera estate autunno inverno e ancora primavera, e dodici lune nel cielo.
Zosima chiede all’Igumeno la santa benedizione e si dirige nel deserto
stringendo al petto i Santi Doni. Ecco, è sulla riva del Giordano. Lei non c’è
– anche gli amori spirituali obbediscono a regole ferree – lei non c’è. Davanti
al ritardo di lei crolla come un castello di carte tutta la struttura ascetica
costruita pazientemente dal monaco: come in preda alle passioni piange,
supplica, e intanto guarda guarda guarda. Si chiede, se verrà, come
attraverserà il fiume. Ora lei arriva, e il Giordano non lo vede nemmeno, il
suo corpo leggerissimo lo attraversa camminando sulle acque. Nuda, le braccia
incrociate sul petto, riceve dalla mano del monaco i santi Misteri, poi si
volta e fa per andarsene. Zosima fa qualche tentativo per trattenerla almeno un
poco, prova a seguirla, la prega di portare con sé un po’ di cibo. Tutto
inutile: non è questione di durata, ma di intensità, nei grandi amori. Maria
gli dice soltanto di pregare per lei e di ricordarsi della sua miseria. Gli
chiede di ritornare per la Pasqua successiva, e se ne va senza voltarsi. Zosima
si ferma, realizzando l’impossibilità di trattenere quella sostanza
sottilissima di cui lei è fatta.
Primavera estate autunno inverno e ancora primavera, e dodici
lune nel cielo, e Zosima è nel deserto, stessa trepidazione, stessa attesa.
Zosima sente il rumore di sassi che si muovono sulle rocce, e i suoi occhi
allenati scorgono un branco di capre nubiane discendere velocemente da un
costone, un po’ a destra, oltre il Giordano. Due aquile volano ad ampi cerchi
nel cielo. Sembra che da sotto ogni pietra un irace si sporga, e proceda
saltellando e emettendo piccole grida nella stessa direzione. Ci sono ronzii di
insetti nell’aria. E’ come se il deserto fosse diventato improvvisamente vivo. Zosima
si cala sulla sponda del fiume aggrappandosi ai ciuffi di ginestra polverosi, e
ne risale per un breve tratto il corso. D’un tratto vede, sull’altra riva, un
gigantesco leone maschio avanzare lentamente, la criniera appena mossa dal
vento; anche il leone lo vede, si ferma, lo guarda per istanti infiniti con i
suoi occhi gialli, emettendo un brontolio sonoro e costante: poi riprende la
sua strada. I piccoli stambecchi gli danzano davanti, ma il felino non se ne
cura, procede quasi con pacatezza, e poi scompare dietro uno spuntone roccioso.
Zosima, con i peli del corpo dritti dal terrore, si accorge che in quel punto
il fiume è guadabile. Sospira, dà addio alla sua vita terrena (non che gliene
avesse mai importato molto), e attraversa il Giordano per seguire il leone. Lo
trova disteso, assorto, vigile, accanto al corpo morto di Maria, che è dorato e
leggero come una foglia secca.
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