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sabato 30 gennaio 2016

Aniconostasi. Storia di cartongesso e di sguardi divini.

Detesto l’indignazione. E’ un sentimento che io non conosco, e che negli altri mi irrita. Presuppone forse l’avere una dignità da difendere, e io non credo di disporne: ma anche negli indignati – mi si perdoni – questa è spesso presunta, auto conferita, se-dicente, se-urlante.
Detesto l’indignazione: quanto più è collettiva, condivisa, più la detesto. Mi indigna l’indignazione.

Ora, in questi giorni un’indignazione sta mettendo d’accordo tutti: dal Manifesto al Foglio, dai Radicali ai Fratelli d’Italia, e in mezzo tutto il benpensare, il benstampare, il benpostare, il benparlare,  il bentwittare, il bengridare. Hanno coperto con grigi pannelli di cartongesso le statue nude del Museo Capitolino in occasione della visita del Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran Hassan Rohani. I mondi reali e virtuali sogghignano, e in Italia si scarica il barile, ci si libera della patata bollente, si scarta la Peppa tencia, si passa l’uomo nero: Il Presidente del Consiglio, il Ministro dei Beni Culturali, i responsabili del protocollo italiani e iraniani; si smarca con eleganza lo stesso Rohani. Cadrà alla fine una testa di chissà chi, ecco che cade, è già caduta, a soddisfazione di coloro che hanno visto in questo gesto un inizio di soumission, di coloro che hanno subodorato il subordinare la cultura agli affari, di coloro che comunque così non si fa, che sourtout pas trop de zéle.

Chissà cosa rappresenta per voi l’Iran, la favolosa Persia. A me viene in mente una scaturigine di luce, uno sprigionarsi di vita e di avventure umane. Sospetto che quasi tutto quel che sono venga da lì, con lo spargersi nel mondo degli arii, i nomadi guerrieri bianchi recanti nell’anima l’idea del Sacrificio, del Sole, del Fuoco. Non perdonerò mai a un caro amico di avere visitato l’Iran prima e senza di me; gli perdono invece, perché mi portò tanti bei racconti, compreso quello della sua interiore adesione al Mazdeismo, che lo conquistò – mentre il sole gli faceva fiammeggiare attorno l’aria - ai piedi delle Torri del Silenzio: dove i corpi dei fedeli venivano esposti al cielo e agli avvoltoi, non potendo gettare la morte nel Fuoco, che è vita e purezza. Questo è l’Iran: una sorgente da cui in tempi immemorabili, sotto un cielo limpido e astratto, è sgorgata la goccia che sono.

Aryamehr, Luce degli Ariani, era uno dei titoli di cui si fregiava il Re di Persia, shah an shah, il Re dei Re. Contro di lui si levò il Segno di Dio (Ayat Allah) Ruhollāh Mostafāvī Mōsavī Khomeynī, il terribile, e terribile era: ma il popolo seguì quel segno. Fu la grande Rivoluzione iraniana. Qui da noi accadeva un’altra rivoluzione, fatta di giovinezza, di languidi sogni, di rovesciamento di regole, di fantasia al potere, di libero amore, di esilio delle verità, anche se non mancarono certo il piombo e la morte. Ma in Iran il vecchio imam dagli occhi incredibili divenne voce di un dio giovane e sanguigno che, da lui evocato, piombò sulla Persia, fece impazzire le menti e incendiò i cuori. Si lasciò dietro una lunga scia di sangue: le anime belle e bellissime possono anche protestare, ma questo accade sempre quando le giovani divinità si scaraventano nel mondo degli uomini. Chiedetelo al cananeo, quando si vide venire contro l’Arca dell’Alleanza circondata dall’ululato degli shofarim. Chiedetelo al sassone, quando vide levarsi la spada lampeggiante e cristiana di Carlo il franco. Beninteso, il dio, di queste cose, non sa nulla: cosa vuoi che conti una vita umana per colui che gioca con le galassie. Lui è come un puledro, fresco di sudore sui muscoli guizzanti, al galoppo nei prati: non si cura certo dell’insetto che finisce calpestato sotto i suoi zoccoli. Gli dicessero: “Sei malvagio!” si stupirebbe, morte e vita per lui pari son, come piacere e dolore, luce e tenebra, bene e male: sono i passi della sua danza. Ma ciò che è ilare e giocondo per il dio si muta in tetra follia nell’uomo: il vecchio imam tradusse con parole morte un vortice di vita, trasformò in leggi costrittive e spietate un richiamo di libertà. E tuttavia la folla follemente amò il feroce mediatore: quando morì tale fu l’impeto della devozione che la bara cadde cinque volte, tante quanti sono i tempi della preghiera, e altrettante volte fu sbalzato cadavere dalla bara lui, che la sua gente non voleva lasciare involarsi nel firdaws.

Fatto è che da quei giorni, in Persia, cessò di sfolgorare più il Sole degli arii, ma scintillò la lama lunare del Profeta e del giovane dio, Il-Dio.

Nel frattempo – e da tanto tempo – i nostri vecchi dèi già prendevano congedo. E fra loro metto anche il Dio-Uomo, il Cristo, che veniva chiamato dai poeti “la troppo umana favola”.  HaShem se ne era andato da un bel pezzo. Come gli elfi di Tolkien, essi passavano il mare occidentale, silenziosi, sorridenti appena, malinconici forse, per andare dove non-si-sa. Lasciarono una terra disseminata di immagini, di architetture, di canti a loro dedicati, commoventi e bellissimi. Lasciarono una civiltà ben compaginata, come si produce quando gli dèi incanutiscono e ingentiliscono. Lasciarono una multicolore tavolozza di valori. Lasciarono talmente tanti doni che noi non ci accorgemmo che loro – i donatori – se ne erano ormai andati. Non credemmo più. Anche quelli che credevano, non cedettero, e quelli che oggi credono, non credono in effetti: tutto fu e rimane solo storytelling. Jean Paul il sognatore ci narrò in gotico romantico di come il Cristo stesso, dopo aver errato per i cieli e visitato tutti i mondi, dichiarò gli uomini costitutivamente orfani, che non c’era alcun Padre, che la sete di infinito non sarebbe mai stata saziata. E la morte di Dio ce l’annunciò proprio l’iranico Zoroastro, Zarathustra, per il tramite del tragico pensatore teutone che lo incontrò sul lago di Silvaplana. Ah, è rimasta certo la bontà, la saggezza, la giustizia. E’ così sempre: quando il dio Nilo è vivo, collerico, giovane e presente, egli distrugge le case, devasta i campi, annega gli uomini; ma quando, stanco, si ritira nel suo letto lascia una terra nera e fertile, pronta ad essere coltivata. E questa terra fragrante di valori noi la coltivammo, seppure – ingegnosi– ci inventammo utensili e aratri meccanici che la sfruttarono fino a violarla forse, tanto da farci pensare che forse la tecnica ci stava prendendo la mano e ci interrogammo (ci interroghiamo) sul da farsi. Essendo il cielo vuoto, però, non sappiamo a chi chiedere, e ci arrangiamo da soli. Facciamo del nostro meglio. Fuori the night is dark and full of terrors e noi due orfani ci stringiamo nel letto e facciamo ipotesi sui misteriosi rumori («Io sento rodere, appena... » «Sarà forse un tarlo... » «Fratello, l'hai sentito ora un lamento lungo, nel buio?» «Sarà forse un cane... » «C'è gente all'uscio... » «Sarà forse il vento... »); rimpiangiamo la luce rassicurante della stanza materna, anche se «noi siamo ora più buoni... » «ora che non c'è più chi si compiace di noi... » «che non c'è più chi ci perdoni». Scriviamo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, proteggiamo le minoranze, istituiamo il welfare, la sanità malgrado tutto è buona e l’attesa di vita aumenta. Ma il rodere interiore che sentiamo, sarà forse un tarlo?, noi non lo sappiamo. Non lo sapremo più. E comunque meglio stare in pace, non essendoci più chi possa perdonarci.

Ci piace, e ci consola, la bellezza. Ascoltiamo i Vespri della Beata Vergine di Monteverdi sulle poltrone rosso-vellutate dei teatri, ammirandone la polifonia arditissima, le acrobazie vocali dei sette solisti, ma non pensando certo alla Beata Vergine. Ci delizia la raccolta, languida e tonica assieme, rotondità delle forme della Venere Capitolina di Prassitele, ma non offriamo libagioni alla terribile dea, né certo fremiamo di indignazione nello spirito alla vista dell’idolo, come san Paolo in Atene, tantomeno lo sfidiamo ordalicamente come avrebbe fatto il profeta Elia.

La Venere Capitolina, appunto. Avevo cominciato con l’indignazione. Dunque: uno dei successori dell’imam terribile arriva a Roma in visita ufficiale, accolto dal Papa in una sala bellissima piena di affreschi di nudo, poi dalle Autorità civili. Tra i mille modi possibili per evitare imbarazzi all’ospite – che, a torto o a ragione, ma probabilmente a torto, qualcuno ritenne insofferente all’esibizione della nudità dei corpi umani - lo si fa transitare in corridoi piene di statue nude. Chissà chi ha deciso di impedirne la vista all’ospite con dei pannelli grigi. Non si sa. E’ come se si fossero materializzati da soli a miracol velare. Le vesti si stracciano – senza però arrivare alla nudità – e tutti gridano alla piaggeria, allo scandalo, al ridicolo, alla fobia del corpo e ai valori supremi dell’Occidente, svenduti per un pugno di contratti con l’Iran disincagliato, disincanaglito da Obama.

Io vedo in questo avvenimento un gioco d’eros e di cortesia divino, e forse quei pannelli davanti alla Venere li ha piazzati davvero l’anima di Prassitele, inviata allo scopo da Afrodite tessitrice di inganni. Perché noi siamo la gente del tramonto, die Aberland (spenglerianamente) untergeht, e spinti da pulsioni faustiane cambiamo il mondo con frenesia: ma sono gli spasmi disarmonici del moribondo. Cosa abbiamo a che fare, noi, con quell’Occidente che scolpì la Venere? Nulla di più che l’aver calcato la medesima parte del pianeta. Ho la sventura di essere nato e di aver vissuto in una città d’arte, soprattutto rinascimentale. Davanti alla Galleria dell’Accademia, dove è custodito il David di Michelangelo, lì, in via Ricasoli – quella che va da san Marco al Duomo – le bancarelle vendono ai turisti grembiuli da cucina, spillette, cartoline e altri gadget, tutti col pisello della statua in brutta vista, diventato ben più del giglio il logo lubrico della città, e effettivamente sua perfetta e completa espressione. Questa è dunque la qualità del nostro sguardo, l’esito grottesco della nostra civiltà. E quindi trovo assolutamente spiegabile che, avvicinandosi il rappresentante del Padre senza-forma e anti-forma, la dea abbia voluto coprirsi. Svillaneggiata in mille modi, percorsa da sguardi indifferenti alla sua natura divina, Afrodite di certo non si coprirebbe più per il turista o per il politico. Ma non appena ha sentito approssimarsi uno sguardo vero (ostile, certo, ma vero e capace di riconoscerla, come san Paolo, come Elia) ha sentito il bisogno di proteggersi: come una prostituta nuda, esposta sempre allo sguardo bavoso della marmaglia, che però arrossirebbe, afferrerebbe i suoi stracci e si rivestirebbe se d’improvviso, inaspettatamente, il cliente le confessasse di amarla. In questo senso il suo coprirsi è anche un appello: a noi, che ogni giorno la vediamo senza vederla; un appello senza speranza alla qualità di sguardo che non possederemo più.


Ecco dunque apparire l’aniconostasi di cartongesso. Come – nelle chiese orientali – un pannello cosparso di icone (quindi di forme divine) protegge l’indescrivibile, l’ineffabile, l’incircoscrivibile, l’inosservabile, l’irrappresentabile dagli sguardi che presumerebbero di contenerlo, così - in questo caso - una superficie totalmente aniconica vela di senza-forma la forma bellissima di Lei agli occhi del Padre solo spirito e odiatore di forme. Se fossimo degni di custodirla, l’Afrodite di Prassitele, ce lo lasceremmo, quel pannello, e entreremmo nel santuario della dea solo dopo esserci preparati e purificati. Ma siamo solo dei nani lussuriosi. Per questo un giorno, stanca di questi sguardi, la dea chiamerà dall’Alba un portatore ancor più terribile e rude di follia paterna: a lui chinerà docilmente il suo marmoreo collo di cigno, e si lascerà fare a pezzi. In ognuno di questi frammenti, forse, ci riconosceremo.


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