Translate

lunedì 18 gennaio 2016

Pesci in faccia. Note sulla Settimana per l'Unità dei Cristiani

Venuto da molto lontano
a convertire bestie e gente
non si può dire non sia servito a niente
perché prese la terra per mano
vestito di sabbia e di bianco
alcuni lo dissero santo
per altri ebbe meno virtù…

Nel Concilio di Gerusalemme 0 (Lc 24), tenutosi nel Cenacolo e presieduto dal Cristo risorto medesimo, con gli Undici e altri padri o madri conciliari (vi si trovavano infatti congregatos undecim et eos qui cum ipsis erant) il problema dell’unità dei cristiani non era all’ordine del giorno. Non che non ci fossero discussioni, anzi: dum haec autem loquuntur, mentre parlavano, è scritto: e l’argomento pare fosse la sparizione di Gesù nei pressi di Emmaus. Non che non vi fossero dubbi, anzi: apparso il Cristo in mezzo a loro (non si capisce come ma certo non sembra che sia entrato dalla porta) conturbati vero et conterriti existimabant se spiritum videre, quindi ragionavano, e il paradosso era che la spiegazione parapsicologica della loro esperienza sembrava quella più convincente, essendone l’alternativa una vertigine senza fine. Il Cristo li libera dai dubbi spiritici in modo piuttosto terra-terra, mostrando i piedi e le mani (palpate et videte, quia spiritus carnem et ossa non habet, sicut me videtis habere e a me questo palpate et videte piace molto), poi si fa portare una porzione di pesce arrostito, apparentemente il cibo prediletto dal Risorto, tanto che se lo prepara anche da solo sulla riva del lago in Gv 21,9. C’erano discussioni e c’erano dubbi, come in tutti i Concili che si rispettano, ma di unità dei cristiani non si parlò, così come non si parlò di divisione, visto che non risultano agli atti delle proposizioni solennemente condannate, anatemizzate, tacciate di eresia.

A me l’unità/uniformità dei cristiani – lo dico - non piacerebbe: e, almeno per una volta, credo che la storia andrà d’accordo con la mia preferenza mantenendoli disuniti: certamente fino alla fine della mia vita, ma sperabilmente anche fino alla fine del mondo.

E così il Rabbi girava per le strade di Palestina, trascinando l’ombra cruciforme del proprio mistero. Sapeva di sé, non sapeva di sé, intrasapeva probabilmente, comunque chiedeva agli altri chi fosse, e non credo fosse soltanto un espediente per estorcere da tali altri confessioni di fede (vos autem quem me esse dicitis? Mt 16,15 e //). Era un’anfibolia errante. La gente lo guardava, lo ascoltava, ne era intimorita, affascinata, talora guarita, alcuni lo seguivano. Formulavano delle ipotesi a suo riguardo. Da quella familiar-castrante: “Ma sì, lo conosciamo benissimo quello lì” degli abitanti di Nazareth (nonne hic est fabri filius? nonne mater eius dicitur Maria, et fratres eius Iacobus et Ioseph et Simon et Iudas? Mt 13) a quella solenne e densissima “Oddio tu sei proprio quello lì” (tu es Christus Filius Dei vivi! Mt 16) – che a ben vedere sono due forme di conoscenza dagli esiti opposti, perché non sempre sapere è un vantaggio – tutte le ipotesi sono state proposte. A ognuno egli riservò uno sguardo, una parola, un gesto. Chi ebbe il suo rimproverò e si sentì chiamare sepolcro imbiancato o vipera; chi fu afferrato dal regno dei morti in cui abitava da quattro giorni; chi si arrampicò su un albero per vederlo e invece fu visto lui; chi prima senti l’umido del suo sputo sugli occhi e poi vide per la prima volta; chi provò la forza della sua frusta sulle spalle mentre metteva in salvo le carabattole nel Tempio, chi invece fu lui a fustigarlo con la benedizione del procuratore romano; chi fu mondato dalla lebbra e non seppe trattenersi dal cantarlo; chi ricevette pane in abbondanza tratto da minuscole ceste; chi reclinò il capo sul suo petto; chi flirtò con lui al pozzo quando lo vide stanco e assetato; chi lo vide accendersi di maestà divina su un monte; chi fu preso mentre andava a casa per portargli il patibolo fino al luogo dell’esecuzione; chi lo vide fresco di resurrezione nel giardino, e lo scambiò per l’ortolano, poi lo riconobbe e danzò con lui la danza del noli me tangere; chi lo tradì per trenta denari di sconforto; chi fu strappato al padre e alla barca; chi unse i suoi piedi con unguento prezioso, li bagnò con le lacrime e li asciugò coi capelli; chi lo ebbe ospite grato e misterioso alle proprie nozze; chi depose doni regali alla sua culla e poi scomparve per sempre in Oriente; chi ne ebbe paura e gli fu ostile; chi fu liberato dai demoni; chi fu preso dal sonno mentre lui schiumava sangue d’agonia; chi fu rialzata con tocco gentile e come una giovane gazzella appena ritta sulle gambe fu da lui portata a nutrirsi; chi, scaltra, approfittò della folla per rubargli una potenza guaritrice; chi lo mise al mondo senza aver conosciuto uomo; chi – l’uomo che avrebbe dovuto presto conoscerla – straziato, prestò fede ai sogni, chi lo rinnegò presso un fuoco, tradito dal proprio accento provinciale, chi gli piantò den den den i chiodi nei polsi; e chi, infine chi, unico in tutto il racconto, lui guardandolo amò – e mai si dice di nessun’altro in modo così diretto, puntuale e definito, Iesus autem intuitus eum dilexit eum.

Che fine hanno fatto queste parole, questi sguardi, questi gesti, raccolti della narrazione quadrimorfa e in cento altre più segrete e maliziose? Che fine hanno fatto quelli che non sono stati raccolti e che – ove scritti – il mondo stesso con tutte le sue librerie e i suoi server non basterebbe a contenere (Sunt autem et alia multa, quae fecit Iesus, quae - si scribantur per singula - nec ipsum arbitror mundum capere eos qui scribendi sunt libros)? Eppure un giorno lui si spogliò della forma del suo corpo – che nascose in una nube – e portò l’essenza del suo corpo fin nel profondo di ogni atomo dell’universo, rendendo questo “umano” fin nelle più devastanti esplosioni stellari, fin nei più vorticosi buchi neri. Prigionieri dei sensi esterni, siamo rimasti soli. Nell’antico rito latino, nel giorno dell’Ascensione, il cero pasquale viene malinconicamente tolto dallo spazio sacro: non spento, ma occultato.

Rimasti soli, desiderammo che tornasse presto, più che presto: subito. Ma ci accorgemmo che non tornava e, sempre più soli, cominciammo a pensare. Come morì e risorse, prima. Cosa fece, poi. Che cosa disse, infine, e fin qui. Ma poi cominciò l’indagine, quella che devasta i cuori, come dice Gozzano in un canto che celebra un mistico analfabeta. Prima bastava andare da lui, cercarlo, guardarlo. La sua divinità, la sua natura, il suo volere, non se ne discuteva: il pensiero inizia dove cessa la vita. Uno sguardo sguarda, non chiede consenso. Su una definizione si può essere o meno d’accordo. Ovviamente i disaccordi scoppiarono: prima la condanna delle grandi eresie docetismo, cerintianesimo, modalismo, adozionismo, marcionismo, montanismo, manicheismo, novazianismo, donatismo, arianesimo, apollinarismo, priscillianesimo, pelagianesimo, monofisismo, nestorianesimo, monotelismo, abelianismo, adelofagismo, macedonianismo, ma ci furono anche gli artioriti (che offrivano a Dio pane e formaggio), gli Ofiti (che veneravano il serpente dell’Eden, inviato secondo loro da Sophia per iniziare l’umanità ai livelli profondi e divini), i circoncellioni (che giravano attorno alle tombe, bastonavano di santa ragione chi in loro si imbatteva, e si suicidavano, spesso dicendo al povero passante: ‘se non mi ammazzi, ti ammazzo io’) e si potrebbe andare avanti all’infinito, poi il grande scisma ovest / est (con la separazione dei latini), poi il grande scisma sud / nord (con la riforma protestante) e poi ancora divisioni e lotte e scismi più o meno sommersi. Ora, leggendo nomi che ci sembrano strampalati (ma per cui qualcuno ha dato la vita), proviamo a pensare a quel suo sguardo al cospetto del quale riposava ogni domanda, rimanendo domanda, tuttavia, e mai venendo uccisa da una definizione.

Pace sulle Chiese. Chi è in pace è anche unito. Ma mi rattristerebbe l’uniformità. Se ci fosse un artiorita in giro lo proteggerei meglio di un panda, altro che otto per mille. Figuriamoci un circoncellione, e dovrei anche affrettarmi prima che si suicidi. Penso che gli sguardi di Gesù siano stati raccolti e mai dimenticati, e che ogni dottrina su Cristo abbia la sua radice ultima – ritorta, contorta, distorta che sia - nell’esperienza di uno di quegli sguardi. Se tale dottrina venisse meno, perderemmo quel frammento, saremmo più poveri e più soli ancora. In reti aride di parole e di concetti, infatti, abbiamo raccolto i pesci vivi e guizzanti dei suoi sguardi, e li abbiamo tratti a riva. Per potercene nutrire i pesci sono morti di asfissia, e poi sono stati arrostiti alla rossa brace delle nostre filosofie. Forse è stato necessario. Meglio che niente: però sarei per la teodiversità, non per la dieta a base di una sola specie ittica. Pace sulle Chiese, ma che le nostre reti peschino nel subbuglio iridescente e multiforme del mare dei tropici (senza escludere le prede dalle stranissime e buffe forme) non nelle tetre vasche in cui vengono allevati pesci del color del cemento. Fino al momento delizioso in cui, lo speriamo, i pesci morti salteranno vivi di nuovo del mare profondissimo dei suoi occhi, fino a che le nostre definizioni si muteranno di nuovo in domande, vive, (in)saziabili presso l’abisso della sua Presenza.

Anche in quella Chiesa che custodisce trepidando uno sguardo profondissimo di lui, uno sguardo sfolgorante, estatico, pieno di bellezza e di verità, in questa Chiesa – dico – che si chiama Ortodossa, ho spesso, direi sempre, a che fare con ortodossisti (è un espressione del grandissimo teologo Christos Yannaras). Gli ortodossisti, per me, possono essere anche patriarchi o metropoliti, vescovi, preti, monaci o anche martiri: ma non sono ortodossi. Tutti ricordiamo il celebre appunto di Dostoevskij (Se mi si dimostrasse che Cristo non è nella verità, e se fosse dimostrato matematicamente che la verità non è in Cristo, preferirei comunque restare in Cristo che con la verità). Gli ortodossisti preferiscono sempre e comunque la verità a Cristo. In generale sospettano del pesce vivo: uno morto è più controllabile. E poi deve trattarsi di quella specie di pesce che hanno in mente, e solo di quella, altrimenti è peggio che veleno: e quel pesce corrisponde alla verità dogmatica. Io vorrei abbracciare Dostoevskij, e dirgli che certamente Cristo non è nella verità (come può la verità contenere il suo Creatore?), mentre la verità è sì in Cristo, come anche l’errore, come ogni cosa, come tutte le parallele che all’infinito si incontrano – visto che parla di matematica – e Cristo è proprio l’infinito. E’ di lui che parla il profeta Eraclito (gli uomini ritengono giusta una cosa, ingiusta l’altra: per il dio tutto è bello, buono e giusto). Mentre idolatrare la verità – come fanno gli ortodossisti – è, a propria volta (grazie a Dio) un errore.

E morì come tutti si muore
Come tutti cambiando colore
non si può dire  sia servito a molto
perché il male dalla terra non fu tolto
Ebbe forse un po' troppe virtù,
ebbe un volto ed un nome: Gesù.
Di Maria dicono fosse il figlio

sulla croce sbiancò come un giglio. (Fabrizio De André)


Nessun commento:

Posta un commento