Detesto l’indignazione.
E’ un sentimento che io non conosco, e che negli altri mi irrita. Presuppone
forse l’avere una dignità da difendere, e io non credo di disporne: ma anche
negli indignati – mi si perdoni – questa è spesso presunta, auto conferita, se-dicente,
se-urlante.
Detesto l’indignazione:
quanto più è collettiva, condivisa, più la detesto. Mi indigna l’indignazione.
Ora, in questi giorni
un’indignazione sta mettendo d’accordo tutti: dal Manifesto al Foglio, dai
Radicali ai Fratelli d’Italia, e in mezzo tutto il benpensare, il benstampare,
il benpostare, il benparlare, il
bentwittare, il bengridare. Hanno coperto con grigi pannelli di cartongesso le
statue nude del Museo Capitolino in occasione della visita del Presidente della
Repubblica Islamica dell’Iran Hassan Rohani. I mondi reali e virtuali
sogghignano, e in Italia si scarica il barile, ci si libera della patata
bollente, si scarta la Peppa tencia, si passa l’uomo nero: Il Presidente del
Consiglio, il Ministro dei Beni Culturali, i responsabili del protocollo italiani
e iraniani; si smarca con eleganza lo stesso Rohani. Cadrà alla fine una testa
di chissà chi, ecco che cade, è già caduta, a soddisfazione di coloro che hanno
visto in questo gesto un inizio di soumission,
di coloro che hanno subodorato il subordinare la cultura agli affari, di coloro
che comunque così non si fa, che sourtout
pas trop de zéle.
Chissà cosa rappresenta
per voi l’Iran, la favolosa Persia. A me viene in mente una scaturigine di
luce, uno sprigionarsi di vita e di avventure umane. Sospetto che quasi tutto
quel che sono venga da lì, con lo spargersi nel mondo degli arii, i nomadi
guerrieri bianchi recanti nell’anima l’idea del Sacrificio, del Sole, del
Fuoco. Non perdonerò mai a un caro amico di avere visitato l’Iran prima e senza
di me; gli perdono invece, perché mi portò tanti bei racconti, compreso quello
della sua interiore adesione al Mazdeismo, che lo conquistò – mentre il sole gli
faceva fiammeggiare attorno l’aria - ai piedi delle Torri del Silenzio: dove i
corpi dei fedeli venivano esposti al cielo e agli avvoltoi, non potendo gettare
la morte nel Fuoco, che è vita e purezza. Questo è l’Iran: una sorgente da cui in
tempi immemorabili, sotto un cielo limpido e astratto, è sgorgata la goccia che
sono.
Aryamehr, Luce degli Ariani, era uno dei titoli di cui si fregiava il Re di Persia,
shah an shah, il Re dei Re. Contro di
lui si levò il Segno di Dio (Ayat Allah)
Ruhollāh Mostafāvī Mōsavī Khomeynī, il
terribile, e terribile era: ma il popolo seguì quel segno. Fu la grande Rivoluzione
iraniana. Qui da noi accadeva un’altra rivoluzione, fatta di giovinezza, di
languidi sogni, di rovesciamento di regole, di fantasia al potere, di libero amore,
di esilio delle verità, anche se non mancarono certo il piombo e la morte. Ma
in Iran il vecchio imam dagli occhi incredibili divenne voce di un dio giovane
e sanguigno che, da lui evocato, piombò sulla Persia, fece impazzire le menti e
incendiò i cuori. Si lasciò dietro una lunga scia di sangue: le anime belle e
bellissime possono anche protestare, ma questo accade sempre quando le giovani
divinità si scaraventano nel mondo degli uomini. Chiedetelo al cananeo, quando
si vide venire contro l’Arca dell’Alleanza circondata dall’ululato degli
shofarim. Chiedetelo al sassone, quando vide levarsi la spada lampeggiante e
cristiana di Carlo il franco. Beninteso, il dio, di queste cose, non sa nulla:
cosa vuoi che conti una vita umana per colui che gioca con le galassie. Lui è
come un puledro, fresco di sudore sui muscoli guizzanti, al galoppo nei prati:
non si cura certo dell’insetto che finisce calpestato sotto i suoi zoccoli. Gli
dicessero: “Sei malvagio!” si stupirebbe, morte e vita per lui pari son, come
piacere e dolore, luce e tenebra, bene e male: sono i passi della sua danza. Ma
ciò che è ilare e giocondo per il dio si muta in tetra follia nell’uomo: il
vecchio imam tradusse con parole morte un vortice di vita, trasformò in leggi
costrittive e spietate un richiamo di libertà. E tuttavia la folla follemente
amò il feroce mediatore: quando morì tale fu l’impeto della devozione che la
bara cadde cinque volte, tante quanti sono i tempi della preghiera, e
altrettante volte fu sbalzato cadavere dalla bara lui, che la sua gente non
voleva lasciare involarsi nel firdaws.
Fatto è che da quei
giorni, in Persia, cessò di sfolgorare più il Sole degli arii, ma scintillò la
lama lunare del Profeta e del giovane dio, Il-Dio.
Nel frattempo – e da
tanto tempo – i nostri vecchi dèi già prendevano congedo. E fra loro metto
anche il Dio-Uomo, il Cristo, che veniva chiamato dai poeti “la troppo umana
favola”. HaShem se ne era andato da un
bel pezzo. Come gli elfi di Tolkien, essi passavano il mare occidentale,
silenziosi, sorridenti appena, malinconici forse, per andare dove non-si-sa.
Lasciarono una terra disseminata di immagini, di architetture, di canti a loro
dedicati, commoventi e bellissimi. Lasciarono una civiltà ben compaginata, come
si produce quando gli dèi incanutiscono e ingentiliscono. Lasciarono una
multicolore tavolozza di valori. Lasciarono talmente tanti doni che noi non ci
accorgemmo che loro – i donatori – se ne erano ormai andati. Non credemmo più.
Anche quelli che credevano, non cedettero, e quelli che oggi credono, non
credono in effetti: tutto fu e rimane solo storytelling.
Jean Paul il sognatore ci narrò in gotico romantico di come il Cristo stesso,
dopo aver errato per i cieli e visitato tutti i mondi, dichiarò gli uomini
costitutivamente orfani, che non c’era alcun Padre, che la sete di infinito non
sarebbe mai stata saziata. E la morte di Dio ce l’annunciò proprio l’iranico
Zoroastro, Zarathustra, per il tramite del tragico pensatore teutone che lo
incontrò sul lago di Silvaplana. Ah, è rimasta certo la bontà, la saggezza, la
giustizia. E’ così sempre: quando il dio Nilo è vivo, collerico, giovane e
presente, egli distrugge le case, devasta i campi, annega gli uomini; ma
quando, stanco, si ritira nel suo letto lascia una terra nera e fertile, pronta
ad essere coltivata. E questa terra fragrante di valori noi la coltivammo,
seppure – ingegnosi– ci inventammo utensili e aratri meccanici che la
sfruttarono fino a violarla forse, tanto da farci pensare che forse la tecnica
ci stava prendendo la mano e ci interrogammo (ci interroghiamo) sul da farsi.
Essendo il cielo vuoto, però, non sappiamo a chi chiedere, e ci arrangiamo da
soli. Facciamo del nostro meglio. Fuori the
night is dark and full of terrors e noi due orfani ci stringiamo nel letto
e facciamo ipotesi sui misteriosi rumori («Io sento rodere, appena... » «Sarà
forse un tarlo... » «Fratello, l'hai sentito ora un lamento lungo, nel buio?»
«Sarà forse un cane... » «C'è gente all'uscio... » «Sarà forse il vento... »);
rimpiangiamo la luce rassicurante della stanza materna, anche se «noi siamo ora
più buoni... » «ora che non c'è più chi si compiace di noi... » «che non c'è
più chi ci perdoni». Scriviamo la Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo, proteggiamo le minoranze, istituiamo il welfare, la sanità malgrado
tutto è buona e l’attesa di vita aumenta. Ma il rodere interiore che sentiamo,
sarà forse un tarlo?, noi non lo sappiamo. Non lo sapremo più. E comunque
meglio stare in pace, non essendoci più chi possa perdonarci.
Ci piace, e ci consola,
la bellezza. Ascoltiamo i Vespri della Beata Vergine di Monteverdi sulle
poltrone rosso-vellutate dei teatri, ammirandone la polifonia arditissima, le
acrobazie vocali dei sette solisti, ma non pensando certo alla Beata Vergine. Ci
delizia la raccolta, languida e tonica assieme, rotondità delle forme della
Venere Capitolina di Prassitele, ma non offriamo libagioni alla terribile dea,
né certo fremiamo di indignazione nello spirito alla vista dell’idolo, come san
Paolo in Atene, tantomeno lo sfidiamo ordalicamente come avrebbe fatto il
profeta Elia.
La Venere Capitolina,
appunto. Avevo cominciato con l’indignazione. Dunque: uno dei successori
dell’imam terribile arriva a Roma in visita ufficiale, accolto dal Papa in una
sala bellissima piena di affreschi di nudo, poi dalle Autorità civili. Tra i
mille modi possibili per evitare imbarazzi all’ospite – che, a torto o a
ragione, ma probabilmente a torto, qualcuno ritenne insofferente all’esibizione
della nudità dei corpi umani - lo si fa transitare in corridoi piene di statue nude.
Chissà chi ha deciso di impedirne la vista all’ospite con dei pannelli grigi.
Non si sa. E’ come se si fossero materializzati da soli a miracol velare. Le vesti si stracciano – senza però arrivare alla
nudità – e tutti gridano alla piaggeria, allo scandalo, al ridicolo, alla fobia
del corpo e ai valori supremi dell’Occidente, svenduti per un pugno di
contratti con l’Iran disincagliato, disincanaglito da Obama.
Io vedo in questo
avvenimento un gioco d’eros e di cortesia divino, e forse quei pannelli davanti
alla Venere li ha piazzati davvero l’anima di Prassitele, inviata allo scopo da
Afrodite tessitrice di inganni. Perché noi siamo la gente del tramonto, die Aberland (spenglerianamente) untergeht, e spinti da pulsioni
faustiane cambiamo il mondo con frenesia: ma sono gli spasmi disarmonici del
moribondo. Cosa abbiamo a che fare, noi, con quell’Occidente che scolpì la
Venere? Nulla di più che l’aver calcato la medesima parte del pianeta. Ho la
sventura di essere nato e di aver vissuto in una città d’arte, soprattutto
rinascimentale. Davanti alla Galleria dell’Accademia, dove è custodito il David
di Michelangelo, lì, in via Ricasoli – quella che va da san Marco al Duomo – le
bancarelle vendono ai turisti grembiuli da cucina, spillette, cartoline e altri
gadget, tutti col pisello della statua in brutta vista, diventato ben più del
giglio il logo lubrico della città, e effettivamente sua perfetta e completa
espressione. Questa è dunque la qualità del nostro sguardo, l’esito grottesco
della nostra civiltà. E quindi trovo assolutamente spiegabile che,
avvicinandosi il rappresentante del Padre senza-forma e anti-forma, la dea
abbia voluto coprirsi. Svillaneggiata in mille modi, percorsa da sguardi
indifferenti alla sua natura divina, Afrodite di certo non si coprirebbe più
per il turista o per il politico. Ma non appena ha sentito approssimarsi uno
sguardo vero (ostile, certo, ma vero e capace di riconoscerla, come san Paolo,
come Elia) ha sentito il bisogno di proteggersi: come una prostituta nuda,
esposta sempre allo sguardo bavoso della marmaglia, che però arrossirebbe, afferrerebbe
i suoi stracci e si rivestirebbe se d’improvviso, inaspettatamente, il cliente
le confessasse di amarla. In questo senso il suo coprirsi è anche un appello: a
noi, che ogni giorno la vediamo senza vederla; un appello senza speranza alla
qualità di sguardo che non possederemo più.
Ecco dunque apparire
l’aniconostasi di cartongesso. Come – nelle chiese orientali – un pannello
cosparso di icone (quindi di forme divine) protegge l’indescrivibile,
l’ineffabile, l’incircoscrivibile, l’inosservabile, l’irrappresentabile dagli
sguardi che presumerebbero di contenerlo, così - in questo caso - una
superficie totalmente aniconica vela di senza-forma la forma bellissima di Lei
agli occhi del Padre solo spirito e odiatore di forme. Se fossimo degni di
custodirla, l’Afrodite di Prassitele, ce lo lasceremmo, quel pannello, e
entreremmo nel santuario della dea solo dopo esserci preparati e purificati. Ma
siamo solo dei nani lussuriosi. Per questo un giorno, stanca di questi sguardi,
la dea chiamerà dall’Alba un portatore ancor più terribile e rude di follia
paterna: a lui chinerà docilmente il suo marmoreo collo di cigno, e si lascerà
fare a pezzi. In ognuno di questi frammenti, forse, ci riconosceremo.
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