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Non credo che i due giovani gesuiti protagonisti di Silence,
l’ultimo film di Martin Scorsese - l’uno
(Rodriguez) fulvo e della mascella volitiva, l’altro (Garrpe) scavato e già quasi
nipponiforme, come plasmato dal suo desiderio, entrambi coi corpi
atletici/ascetici stretti nella talare nera e il fuoco che divampa negli
occhi – pensassero ai sei modi di evangelizzazione della Chiesa elencati dal
Cardinal Martini in una lettera pastorale degli inizi degli anni ’90 (ossia per
proclamazione, per convocazione, per attrazione, per irradiazione,
per contagio, per lievitazione) quando, nelle prime scene,
chiedono, pretendono e alla fine ottengono dal Provinciale Alessandro Valignano
di partire dall’India per il Giappone. Sapevano che in quel paese ai confini
del mondo la situazione per i cristiani era cambiata, che era in corso una
feroce persecuzione, e che del loro antico e amato maestro e mentore (Ferreira)
non si avevano notizie se non che forse aveva abiurato. Come segugi della fede,
fiutavano odore di oriente, di avventura, di sangue, di eroismo e di martirio.
Bastava.
Non credo che avesse chiare le sei modalità neanche quell’infaticabile
errabondo di Dio che ebbe nome Francesco Saverio, e che cinquant’anni prima si
stremò nelle Indie – tanto che il braccio gli doleva a furia di amministrar
battesimi e la gola gli bruciava per le continue recitazioni del Credo ai
neofiti – che si spinse poi fin nelle Molucche e nella Nuova Guinea, ma il cui
vero, autentico amore fu il Giappone, furono i giapponesi, da lui ritenuti il
popolo migliore del mondo, per poter predicare ai quali corteggiò nobili e
principi fino al Celeste Sovrano, e al fine di rendere ancor più efficace tale
annuncio – visto che i giapponesi non ritenevano potesse esistere una dottrina
giusta non accolta dalla Cina – poi partì per la Cina e vi morì sfinito dalla
febbre, indomito, lui a cui neppure il Padre e Maestro Ignazio riuscì a mettere
briglie e finimenti, e a destinarlo a incarichi non di prima linea.
Semplicemente, questi uomini erano persuasi di portare una
verità di tipo tutto speciale. Non (solo) un pacchetto di nozioni su Dio,
intendiamoci: ma una verità capace di salvare l’uomo e portarlo in Cielo. Una veritas saluti necessaria, per dirla con
l’Aquinate. Al fine di poterla comunicare anche a una sola anima erano pronti a andare non solo all’altro capo del mondo, ma su Marte, qualora si fosse trovato
il vascello adatto, perché per quell’anima erano in gioco vita e morte (eterne):
Qui crediderit et baptizatus fuerit
salvus erit, qui vero non crediderit condemnabitur (Mc16,16). Poi, quando
ci saranno le astronavi, la missione verso gli alieni sarà certamente più
simile, invece, a quella descritta dall’olandese Michel Faber nel bellissimo
libro di fantateologia Book of Strange
New Things (2014), ossia problematica, dubbiosa, estenuata: ma questa è un’altra
storia. Anzi: è la stessa.
Al tempo degli eventi immaginati nel film, in Giappone
furoreggiava appunto la persecuzione del periodo Tokugawa. La comunità
cristiana, che aveva raggiunto il ragguardevole numero di trecentomila anime, e
che comprendeva anche anime illustri (si pensi che – al tempo di Toyotomi
Hideyoshi, ossia pochi decenni prima, lo stesso sommo Maestro dell’arte del Tè Sen
No Rikyu, vertice della raffinatissima cultura zen, fu sospettato di essere
cristiano). Insomma, il cristianesimo andava abbastanza di moda, era abbastanza
cool. Ma gli Shogun sospettavano i
cristiani – e in particolare i gesuiti – di intrigare con l’Imperatore ai loro
danni; si accorgono che Olanda, Portogallo, Inghilterra e Spagna – le ‘quattro
concubine bellissime’ dell’uomo saggio Giappone – litigano fra loro per il
primato e il saggio potrà cacciarle e tornare in pace: non così potrà fare con
la ‘donna brutta’ ossessionata dall’amore per lui, presa in un attrazione
fatale per lui, ossia il cristianesimo; quella dovrà ucciderla, per sposarsi
infine con una donna del suo paese, che lo capisca. C’era inoltre stata la
grande ribellione Shimabara, guidata dal giovane samurai cristiano Shiro
Amakusa, e conclusasi nel massacro di oltre quarantamila convertiti.
Giunti sulle coste occidentali del Giappone meridionale, i
due gesuiti vengono in contatto con comunità clandestine e catacombali di
cristiani (kirishitan) di villaggio.
Poverissimi e fervidissimi, i contadini si sono organizzati senza sacerdoti e
quindi senza sacramenti. C’è un capo (Jisama)
che amministra l’unico sacramento possibile, il battesimo, ai bimbi, ci sono
dei catechisti che insegnano le pochissime parole in portoghese storpiato, ci
sono riunioni di preghiera davanti a immagini sacre cesellate nel legno, c’è
soprattutto la carità fraterna e la possibilità di morire in ogni momento. Per
il resto è una specie di marranismo al contario: tutti pagano le tasse, onorano
i Buddha nei templi, e vivono la loro vera fede soltanto nelle nebbie notturne
(il film qui ha una profusione di bellissime inquadrature caravaggesche). Il
loro timore è che venga un mitico inquisitore a metterli di fronte alla scelta
di calpestare un’immagine sacra o essere uccisi.
I nostri due sono colpiti ed edificati dal fervore di queste
comunità (è deliziosa la scena in cui, dopo aver condiviso delle aringhe
salate, i preti si gettano sul cibo mentre i giapponesi piamente si fanno prima
il segno della croce: Benedic, Domine,
nos et haec tua dona quae de tua largitate sumus sumpturi) ma è evidente
che il nascondimento non soddisfa la loro sete di eroismo. L’uscire dal
nascondiglio per loro preparato innescherà una serie di eventi che porteranno
infine al manifestarsi del leggendario inquisitore.
Questa è – a mio avviso – la figura più riuscita. La sua
fama terribile di Torquemada buddista si implementa in realtà in un vecchietto
artritico, intollerante al sole, al caldo, alle mosche, e con una vocetta
sfalsettante (nella versione inglese Scorsese ha usato per lui la voce dei ‘vecchietti
da film western’, tipo How’dy Pa’t’ner).
Alla sua crudelissima raffinatezza, fatta di spettacoli di terrificanti torture
unita a dialoghi teologici sottolineati dal vibrare di ventagli di carta di
riso, il film affida la trasformazione del vero protagonista, il giovane Rodriguez.
L’altro, Garrpe, ha in sorte una fine tutto sommato più semplice e bella:
mentre alcuni cristiani giapponesi vengono fatti salire su una barca per essere
gettati in mare legati in stuoie di
paglia, riesce a sottrarsi a chi lo trattiene, si slancia in acqua, li
raggiunge a nuoto, e muore annegato anche lui, abbracciato a una bambina
neobattezzata con la quale si inabissa nell’azzurro. Sembra strano, ma in quel
momento lo si invidia.
Quattrocento anni dopo, un Pontefice Romano di nome
Benedetto (e al Pontefice Romano i gesuiti fanno voto speciale di obbedienza circa missiones) dirà che la Chiesa non
fa proselitismo, ma cresce per attrazione (omelia della Messa di inaugurazione
della V Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano, Aparecida, 13
maggio 2007). Ancora vivente Benedetto (dopo aver compiuto l’atto più
postmoderno della storia, ossia dimettersi da Pater Patrum, atto che nessun padre carnale di figli carnali
avrebbe mai il cuore e il diritto di fare) il suo successore Francesco
radicalizzerà questa affermazione a più riprese: in interviste al laico
Pontefice Scalfari dirà che il proselitismo è una solenne sciocchezza (2013, su
Repubblica) e che addirittura esso è peccaminoso, è un atteggiamento
peccaminoso (intervista a Ulf Jonson, in occasione del suo viaggio in Svezia). Attrazione – beninteso - è una delle sei
modalità individuate dal gesuita padre Martini.
Chissà che cosa ne avrebbe pensato Garrpe mentre moriva
affogando assieme alla sua neofita. Posso però dire che cosa ne penso io. E
penso che il disprezzo del proselitismo non mi piace, ma è inevitabile. La
verità – bongré malgré – non siede
più sul trono dei beni, non è più il bene più alto. Io stesso sono pieno di
orrore nel pensare a un mondo tutto romano cattolico, un luogo in cui a Roma,
New York, Delhi, Beijing, Tokyo, Nairobi, Teheran, Tel Aviv tutte le mattine
delle figurette vestite di rosso o di verde o di bianco salgano sull’altare a
dire In nomine Patris… e innalzino
piccoli dischi di pane azzimo, e che questa sia la modalità dell’esperienza
religiosa di tutta l’umanità. Io non potrei vivere in un mondo dove il Signore
Krsna non danzi con le pastorelle al suono incantato del suo flauto, in cui i
minareti non piangano gli appelli alla preghiera all’Unico e al Più Grande, in
cui monaci vestiti di zafferano non vivano secondo gli insegnamenti del Sublime
Gautama, in cui misteriose forze animiche non ruggiscano nelle foreste
africane, in cui fanciulle e madri non accendano al venerdì sera le due luci
del santo Shabbat. Non soltanto sono d’accordo con Simone Weil quando dice che
non darebbe venti soldi per un’opera missionaria e che per un uomo cambiare religione
sia pericoloso quanto per uno scrittore cambiare lingua, e quando afferma l’assurdità
di obbligare le persone a rinnegare ciò che per i loro padri è stato sacro per
millenni e adottare come libro santo la storia di un piccolo popolo a loro
sconosciuto (Lettera a un religioso, 1951), ma sono persuaso che la teodiversità sia l’unica possibilità per
rendere sostenibile all’uomo l’esperienza religiosa. Ciò significa che per me,
Benedetto XVI e Francesco I non avrebbe senso partire dal Portogallo per
convertire un giapponese, e che anzi in qualche modo questo potrebbe perfino
integrare una colpa religiosa. Ciò significa che io, Benedetto XVI e Francesco
I abbiamo un’idea di verità che non corrisponde irreversibilmente più a quella
che era nelle menti e dei cuori del vero Saverio e degli immaginati Garrpe e
Rodriguez. Dici poco. Che la abbia io, quest’idea, non conta nulla, ovvio. Ma i
due Papi. E la stragrande maggioranza dei cristiani sul pianeta. Insomma.
E tuttavia non è il relativismo religioso dell’inquisitore
Inoue a trasformare Rodriguez. Egli vi resiste testardamente (e un po’ sbiaditamente,
dal punto di vista teologico). Il relativismo non è la causa, ma sarà un
effetto della sua trasformazione. Il giovane religioso incontra alla fine il
suo antico maestro Ferreira, malinconicamente ormai integrato nella società dei
letterati giapponesi: non solo ha effettivamente e formalmente abiurato più
volte, ma ha moglie e figli e un nome giapponese. Passa il tempo nei templi
scrivendo libri di astronomia e scienze naturali, nonché un elenco di errori
del cristianesimo intitolato ‘Gengiroku’ (Inganno
rivelato). E’ convinto che i fervidi contadini incontrati dai due preti all’inizio
del loro incontro fossero in realtà dei superstiziosi, e che la loro devozione
a immagini e parole cristiano-portoghesi fosse infinitamente distante dalla
fede in Cristo. E ha visto che c’è chi muore martire per la fede, ma
molto di più ve ne sono che muoiono a causa di superstizioni, nella speranza di
un Parais privo di tasse, fatica,
sfruttamento e signorotti. Conclude che non ne vale la pena, e rifiuta la
testardaggine con cui la Chiesa si ostina a predicare il Vangelo in Giappone
provocando solo il versarsi di sangue giapponese. Ma, ancora, Rodriguez resiste, non è convinto.
Il problema, per Rodriguez, è il silenzio di Gesù, il suo
ostinato tacere davanti al massacro dei suoi. Come possa tacere di fronte alla
bimba gettata in mare perché battezzata, al vecchio esposto per giorni alle
spaventose ondate dell’oceano, al sacerdote legato al palo e cosparso di acqua
bollenti con piccoli mestoli forati che ne ritardassero la morte aumentando la
sofferenza delle ustioni. Questo silenzio lo strazia. L’immagine del volto di
Cristo di El Greco – da lui custodito nei pensieri e negli affetti come un
innamorato fa col volto dell’amata – è terribile nel suo mutismo. Vuol dire che
è morto? La persecuzione giapponese come Auschwitz, lo stesso silenzio
impotente, e Rodriguez si aggrega a Primo Levi e Paul Celan. Si può pensare Dio
dopo Auschwitz? Siamo di fronte il problema dei problemi. Elie Wiesel se lo
chiede di fronte alla prolungata agonia di un ragazzino tredicenne impiccato
nel campo di sterminio, l’angelo dagli
occhi tristi, si chiede dove sia Dio, e sente una risposta: “Dio sta
morendo su quella forca”.
E’ il venerdì santo
speculativo di Hegel, dal quale ancora non siamo affatto usciti. Non è
soltanto il tragico, feroce e vitale annuncio dello Zarathustra di Nietzsche,
non è solo la solenne, sognante e gotica proclamazione del Cristo morto di Jean
Paul (Johann Paul Friedrich Richter) che dall’alto dell’edificio del mondo annuncia a tutti che non vi è alcun Dio (“Siamo tutti orfani, io e voi, senza
Padre”), non è solo l’affilato ateismo dei filosofi analitici oxoniensi degli
anni ’50 (cosa fa un padre umano se vede un figlio ammalato di cancro alla gola
e potrebbe guarirlo? lo fa, altrimenti non è padre; dunque dire che Dio è padre
non ha alcun senso, e se lo si dice si condanna la parola padre a non avere alcun significato, con buona pace dell’analogia),
non è solo la confessione della moglie del missionario interplanetario del
romanzo di Faber (“Non c’è nessun Dio che agisce in modi misteriosi, nessun Dio
che persegue chissà quale sublime obiettivo… Mi sono illusa”). Non solo questo.
Siamo noi che lo viviamo, il venerdì santo senza Pasqua. Davanti al puzzo della
morte, di ogni morte, e davanti all’orrore del silenzio perdurante di un Dio
che non può avere scuse se non perché Egli stesso morto.
E allora ci saranno le riflessioni dello stesso Wiesel, di
Hans Jonas (Des Gottesbregriff nach
Auschwitz), di tanta parte della teologia del novecento. La teologia dopo
la morte di Dio: ma essa non basta a uscire dal terribile venerdì del pensiero.
Dio è morto, va bene, ma non risorge affatto “in ciò che noi vogliamo e
crediamo”, come cantavano Guccini e i Nomadi negli anni ’60. Anzi, c’è – in tutto
il suo immenso, prepotente ingombrare – il suo cadaverone disteso sul mondo e
sulla storia. Che ne faremo? Articoleremo un’azione sociale, un’attitudine
misericordiosa, rizzeremo un ospedale da campo per i feriti del cuore e dell’anima,
e tutto questo etsi deus non daretur?
Intanto – come ha detto recentemente il cardinale guineano Robert Sarah – i fedeli
disertano le Chiese sopraffatti dal fetore del Dio morto (io non credo che mai
un’espressione più drammatica e significativa sia stata pronunciata da un’autorità
religiosa cristiana dell’epoca moderna).
Una notte, nella prigione, Rodriguez sente gemere e russare.
“Come fa questa guardia a russare mentre il prigioniero soffre!” si indigna. Ma
nessuno russa. Sono quattro cristiani condannati alla ‘fossa’, ossia avvolti in
un sacco e appesi a testa in giù in un buco, con una ferita sul collo che
impedisce che il sangue alla testa li faccia svenire e in attesa di una morte
lentissima e dolorosa. “Se lei abiura”, dice il carceriere giapponese “saranno
immediatamente liberati”. Viene posta davanti a lui l’immagine del Cristo da
calpestare. “Cosa farebbe Cristo se fosse al suo posto?”. Ferreira è al suo
fianco, lo incoraggia: “Ora compirai l’atto d’amore più doloroso che sia mai
stato fatto…” E – finalmente – Gesù stesso, il Gesù di El Greco, parla:”Calpesta!
Calpesta! Io più di ogni altro so quale dolore prova il tuo piede. Io sono
venuto al mondo per essere calpestato dagli uomini!”. E Rodriguez calpesta, in
uno straordinario gesto che è anche assieme capovolgimento, prostrazione e
bacio. Si crocifigge alla sua abiura nel nome della misericordia: che –
compiutasi finalmente la trasformazione – siede sul trono del bene supremo,
prima occupato dalla verità.
Diventato un secondo Ferreira, con nome giapponese, moglie e
figli, abiurerà ancora molte volte con meno drammaticità e più scioltezza.
Verrà utilizzato dai giapponesi per evitare che le navi europee introducano in
Giappone oggetti cristiani. E, dopo la morte, sarà cremato da buddista, anche
se la moglie farà segretamente scivolare fra le sue mani un crocifissino di
legno intagliato e a lui donato dai primi – superstiziosi – contadini cristiani.
Ci sarebbe anche da dire della figura niente affatto
secondaria del debole Kichijiro, a tutti gli effetti un Giuda seriale che
tradisce e poi chiede perdono e poi tradisce e poi chiede perdono e poi ancora
e ancora. Chissà, forse è la vera soluzione del tragico enigma del film.
Ah, comunque, il gesuita Hubert Cieslik, in Monumenta Nipponica (1974) sostiene che
il personaggio ‘vero’ della storia, padre Cristovao Ferreira, abbia alla fine
della sua vita ritrovato la fede, l’abbia confessata pubblicamente e sia morto
martire. A Nagasaki. Dove, 312 anni dopo, per una questione meteo che impediva
la visibilità della città di Kokura, fu dirottato (in qualità di obiettivo
secondario) il B29 americano che vi sganciò sopra The Fat Man, il grassone, nome dato alla bomba contenente 6,4 chili
di plutonio-239, e che sterminò quasi centomila persone – tra cui alcuni
sopravvissuti al bombardamento di Hiroshima. E anche in quel caso non sembra
che gli dèi (d’oriente e d’occidente) abbiano alzato la loro voce.
Sono andato a vedere Silence non appena il film è uscito
nelle sale, ossia il venerdì 13 alle 14.50 al cinema Odeon di Milano. Pensavo
ci fosse folla, invece eravamo una ventina. Tutti solitari, tutti senza un
compagno o una compagna di visione. Accanto a me: a sinistra era seduta una
signora che riceve una telefonata prima che inizino le anteprime e sussurra
concitata di essere al lavoro e di non avere tempo per parlare, e che alla fine
mi ha chiesto Le è piaciuto il film?
e io le ho detto Non tanto; a destra
una ragazza bruna con i capelli lisci e lunghi, che succhiava un chupa chups, e che non ha mai cessato –
durante tutto il film – di guardare il suo Iphone, nascondendone la luce rosata
sotto il cardigan bianco di pizzo e creando un effetto niente affatto
spiacevole da paralume liberty. Uscito all’aria aperta mi accolgono da un
negozio di Corso Vittorio Emanuele le parole di una canzone dell’ultimo album
dei Baustelle:
Betty / ha provato di
morire / sulla circonvallazione / prima ancora di soffrire / era già in
putrefazione / un bellissimo mattino / senza alcun dolore / senza più dolore.
Un bellissimo mattino senza più dolore.
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