Cosa mi prende?
Eppure anch’io ho incontrato
la Sposa del Deserto, in una sera di velluto che addolciva il bianco dei suoi
marmi e li volgeva in rosa e in sogno. Fu tanto tempo fa: la vita, gli occhi,
il cuore, tutto era proteso alle mille notti che adesso ho consumato senza
goderne, e me ne rimane soltanto una, e quanto fonda, e quanto fitta, e come
interminabile.
Il mio Maestro possedeva
una macchina fotografica che già allora era antiquata – forse una vecchia
Hasselblad medio formato – e durante i viaggi faceva con essa un ritratto 6x6 a
ciascuno dei viaggiatori: nel mio caso la fotografia è stata scattata a Palmyra,
mentre guardo, oltre una rovina di cinta muraria, lo splendore di un cielo
luminoso e barocco. Quel giorno il Maestro aveva l’età che ora pesa su di me.
Anch’io ho amato Palmyra,
la Sposa del Deserto, che ruba il cuore ad ognuno che la guarda, anche per
pochi istanti. E allora che cos’è che mi prende?
Perché questo mio cuore, allora
giovane, non si stringe adesso che è vecchio all’udire e al vedere i templi
sventrati, le mura divelte, i decori sfregiati. Beninteso, un po’ di
indignazione è di rigore: e certo mi addoloro quando leggo di lei, e di cosa le
sta capitando. Ma perché qualcosa dentro subisce il fascino dei devastatori e
si allea immediatamente con la cupa, la spaventosa armata che distrugge la
Sposa nel nome di Colui che abita il Deserto?
Zenobia, il dattero più
profumato e saporito che la Palma ha donato alla storia, Zenobia la Regina
Guerriera che si inventò un regno sterminato, e conquistò l’Arabia, e conquistò
l’Egitto, e conquistò la Palestina, e a nord la Cappadocia fin quasi al Bosforo,
e conquistò tutto il vicino Oriente sottraendolo ai Romani e proclamandosi sua
Imperatrice e discendente di Cleopatra, Zenobia che poi perse tutto, e che
fuggì da Palmyra in sella al suo dromedario più veloce – proprio come in una
fiaba – ma venne catturata sulle rive del grande fiume Eufrate, Zenobia forse
ora non troverà il suo Tempio ove venerare Baal, Yahribol, Aglibol – che poi
sono il Sole e la Luna – e Bel, e Nemesis, e Malakbel, e Arsu, e Abgal, e
Astarte (che poi è Afrodite ed è la Stella del Mattino). Com’è che non ne sento
il grido? Com’è che non sento il fremito delle migliaia e migliaia di
invisibili anime di coloro che hanno costruito, abitato, inghirlandato di
marmi, di statue, di rilievi Palmyra: l’oasi incantata nel cuore della Siria,
posta sulle strade di sabbia e di vento che da Roma giungevano all’India, e più
in là alla Cina, e più in là all’Oriente favoloso, dove, in un palazzo
bianco fiorito di fontane, siede, sul trono di Agartha, il Re del Mondo?
E’ che da molto tempo
ormai quelle anime hanno lasciato Palmyra. Si aggirano meste tra le petrose
dune solitarie, poggiano i loro piedi lievi sui sentieri disertati. Più probabile
che le si trovi nella confusione polverosa delle tende dei Bedu; più verosimile
che se ne stiano fra le lamiere ondulate di una locanda dove, alla luce di una
lampada a gas, vengono poste davanti al commensale qualche ciotolina di maze e un piatto di yabraq; più facile sentirne la presenza nella bottega del
villaggio, piena di fumo, di buio e di grasso e di motociclette da riparare,
stanche e rotte di sabbia e di sassi.
Fatto è che le anime vive hanno
in orrore le anime morte, quelle che arrivavano dentro grandi pullman, dentro
equipaggiamenti tecnici, traspiranti, colorati, dentro corpi bianchi e molli
cosparsi di creme resistenti al sole (che poi è Yahribol) e di creme repellenti
gli insetti. Non sopportano i loro sguardi vuoti dietro gli occhiali da sole e
dietro i mirini o gli schermi delle macchine fotografiche. I passi pesanti
delle anime morte consumavano le pietre di Palmyra più degli zoccoli dei
cavalieri di Ardashir il Sassanide. Qualche ragazzo dagli occhi neri e dalla
faccia triste, giunto da chissadove, vendeva loro kaffyeh, cartoline dai colori smorti, bevande fredde e cammellini
di legno. Le anime morte compulsavano guide intitolate a un pianeta niente
affatto solitario, poi smettevano perché c’era troppo sole (che poi è
Yahribol), perché avevano sete, perché avevano caldo. Stufe assai presto delle
spiegazioni della guida, risalivano nei grandi pullman con il condizionatore
spinto a tutta forza, bevevano acqua e sali minerali in bottigliette dal gusto
effervescente e dolciastro, e tornavano al Grande Hotel & Spa. Il Grande
Hotel & Spa: che ha la facciata che imita il tempio di Baal e dove si serve
la cena sotto una finta tenda beduina, che ha 64 camere,e 6 Royal suites, e una
iperlussuosa Presidential suite, che ha un hammam e una sauna e un luogo per i
massaggi, che ha una superba piscina che drena quasi tutta l’acqua dell’oasi,
togliendola alle palme e alle anime vive. Facevano il bagno, bevevano il vino
che viene dalla valle di Oronte, e guardavano la luna (che poi è Aglibol)
crogiolandosi nel loro oriente confortevole eppur così romantico. Sotto la
finta tenda beduina, infatti, un suonatore in costume traeva dal suo oud accordi pieni di sentimento.
Così che un giorno
Palmyra decise di scomparire e di rifugiarsi nella memoria di Dio, dove tutta
la bellezza è custodita dagli angeli e preservata intatta fino a un nuovo Satya
Yuga. Avrebbe potuto andarsene così, levandosi prima dell’alba all’insaputa di
tutti e dileguandosi silenziosamente nello stellato: al mattino gli occhi
assonnati del portiere di notte del Grande Hotel & Spa avrebbero visto
spazi vuoti al posto del Tempio di Bel, della via colonnata, del santuario di
Nabu, della cinta di mura, del teatro, della necropoli. Ma le anime di Palmyra,
piene di compassione, hanno scelto la via del dolore, del martirio, della
testimonianza: e dal deserto hanno convocato un’armata terribile e implacabile.
I guerrieri dalle lunghe barbe hanno la pelle e gli abiti del colore della
sabbia del deserto, innalzano vessilli neri con iscritta la professione di fede
che inizia con una negazione (non c’è altro dio se non Id-dio, non c’è altro,
non c’è altro), odiano ogni forma nel nome di Colui che non ha forma. Come
stracci portati via dal vento, le anime morte vestite di colori sono scomparse.
Rimasto solo, il vero amante della Sposa, che non l’ha mai abbandonata, colui
che ne sapeva ogni pietra, ogni odore, ogni trascolorare di ore e di stagioni,
Khaled (bisogna pure se ne dica il nome, perché significa eterno, perché significa immortale)
ha offerto la gola alle lame dei soldati. Uscita che fu l’anima dal corpo,
Zenobia stessa la accolse nella radunata delle anime vive. Al sicuro, per ora
al sicuro nelle loro città, le anime morte subito hanno innalzato a Khaled
lapidi di carta e di pixel, i giornali di tutto il mondo lo han celebrato,
sulle televisioni e sui monitor è stata mostrata la sua fotografia, il suo
volto mite, la sua stempiatura grigia, i suoi grandi occhiali fuori moda. Le
anime morte ci sanno fare con le parole. Ma le anime morte, più di tutto, e proprio
perché già morte, hanno paura della morte: e non una di loro è rimasta a
Palmyra, non una di loro ha combattuto per lei. Sono pronti altri mille facili
Orienti per soddisfarle.
Ora Palmyra vuol morire,
e offre il suo corpo bellissimo ai barbuti guerrieri, alle loro piccozze, agli
scalpelli, alle bombe. Cadono una a una le colonne che il tramonto inrosava,
crollano le celle segrete dove i sacerdoti compivano il culto solenne della
Corte degli astri. In immenso, muto, costernato, invisibile anfiteatro, le
anime vive chinano il capo come di fronte a ciò che è atroce e necessario. Mentre i
satelliti, a milioni di metri dalla superficie terrestre, fotografano grigie
spianate al posto di monumenti, mentre i sordidi mercanti d’arte, nei
retrobottega delle gallerie di Londra o di Parigi, quotano milioni di euro i
poveri frammenti della carne di lei, muore Palmyra per la mano - orrenda, ma
almeno non ipocrita - di chi dichiara esplicitamente di volerla uccidere, di
chi non teme di attirare su di sé la collera del mondo cosiddetto civile, di
chi sente la sua visibile bellezza come un supremo insulto all’Invisibile.
Muore così, violentata ma non banalizzata.
Una leggenda, di quelle
che sono più vere del vero, vuole che Zanobi, santo vescovo all’origine della
Firenze cristiana, discendesse proprio dalla regina Zenobia. Spiritualmente,
dunque, i fiorentini sono tutti figli di Palmyra. Sarà per questo che – visto
che l’uomo è l’immagine del mondo e il mondo l'immagine dell'uomo, in un divino gioco di rispecchiamenti – sento dentro di me arrivare i soldati di
sabbia e di sangue. Vengano dunque, vengano e distruggano. Devastino le
architetture della memoria, sventrino i santuari dove si servono dèi troppo
vecchi e stanchi, spezzino le statue dei re, delle regine, delle madri e dei
padri e dei saggi, confondano l’ordine delle vie colonnate della mente, e
soprattutto polverizzino col tritolo il teatro dove recitano i miei personaggi.
Vengono, vengono, ecco sull’orizzonte dell’anima la polvere alzata dai loro
cavalli.
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