Questa pagina era
dedicata a Brittany Maynard, e voleva essere come un suo epitaffio, prima che
la vita – e, chissà, forse la Vita – bussasse alla porta del suo giovane cuore
e le facesse intendere che ci sono ancora carezze, sguardi, baci, parole,
lacrime che attendono di giocare con lei, fin quando sarà sarà. Certo: con la
possibilità di uscire dal mondo in ogni momento, perché così si può fare
nell’Oregon / ouragan / huracàn / Huracan, dio Maya delle tempeste.
La pubblico ugualmente, felice
di dedicarla invece alla sua ancora-imperterrita-vita,
e non dimenticandomi però degli ignoti che, nello stato dedicato al dio Huracan
e altrove, hanno varcato il confine. In questa sera: la vigilia, dolce e mesta,
dei morti.
Che le Moire (le Parche, le Norme, le Fatae) siano
tre è noto a tutti, e molti conoscono i loro nomi, Cloto, Lachesi e Atropo: sono
esse le divine tricoteuses che siedono presso la ghigliottina della umana
sorte, figlie di Zeus e di Temi, oppure della Notte, oppure della Necessità. Ma
chi scrive aveva pochi anni quando le vide per la prima volta, e ne vide
quattro, dipinte sul vaso François, davanti al quale era stato condotto insieme
agli altri scolari. Rimane da capire cosa vide Klitias l’ateniese quando
appunto quattro le dipinse sul cratere, dove il vino avrebbe dovuto essere
mescolato con l’acqua (per hujus aquae et vini mysterium…)
Che questo scritto sia un pallido e meschino
tentativo di imitare quel grande che veramente dialogò con gli Dèi, non è
neppure da segnalare, se non per la vergogna.
Cloto
Non lo avrei mai
immaginato, sorella. Da giorni il farmaco è nella sua casa. Accanto alle
vitamine, accanto alla crema per il contorno degli occhi. Sì, proprio nell’armadietto
del bagno. Questo è ciò che più mi strazia. Se lo avessi saputo, Lachesi, forse
non avrei neppure cominciato a filarle la vita.
Lachesi
Non è una novità. E’
sempre successo. Cesare, che parlò di noi, e che scrisse le sue ultime parole
sul bianco delle pagine in cui dialogava con Bianca, e col nero dell’inchiostro
disse che la morte sarebbe venuta e avrebbe avuto i suoi occhi, Cesare dico – e
com’è strano questo nome da vincitore su una vita sconfitta – aveva da tempo in
tasca le dodici bustine, ben prima di registrarsi all’albergo Roma in quella
fine d’agosto. D’altra parte Roma in qualche modo doveva essere presente, alla
morte di un Cesare.
Cloto
Cesare, dici. Ricordo quando
iniziai a filare la sua sorte, mi sgorgava così viva e tagliente tra le dita, e
fosti tu che la tingesti di scarlatto d’amore. Cesare: ma di lui sapevamo tutte
come sarebbe andata. Morire così non fu un vero morire: e appunto, quando
Atropo tagliò, lui previde e poi vide gli occhi verdi di Constance. Ma lei.
Lei, quali occhi vedrà?
Lachesi
Accade continuamente, e
lo sai. Accade nelle stanze pulite e anonime in riva al lago, dopo aver
salutato i cari e gli amici con un abbraccio triste e stanco. Accade
silenziosamente e forse più ferocemente negli ospedali di ognidove. E non da
adesso, da sempre. Si gettavano sulle spade. E quando Lucio si tagliò le vene
dei polsi, e poi delle caviglie, perché era così vecchio e il sangue viscoso
non sprizzava, nessuno si stupì: Non enim
vivere bonum est, sed bene vivere: fu lui a dirlo. Accade ovunque. Ovunque
si spezza il filo ben prima che sia nostra sorella a tagliarlo.
Cloto
Accade continuamente,
Lachesi, e lo so. Ti dispiace però se parlo ancora un poco di lei?
Lachesi
Non mi distrae. Mi aiuta,
anzi, perché filare i suoi ultimi momenti non è facile, occorre trovare colori adeguati
da intrecciare.
Cloto
E’ che ne parlano prima.
Questa è una differenza. Lei si affaccia alle finestre di tutto il mondo, di
tutte le case, così, col suo volto sorridente e meraviglioso. Si affaccia e parla
con loro, e loro ne parlano, ne discutono. E ci sono le medicine – si possono
chiamare così? – nell’armadietto del bagno. La sua bellezza è un oltraggio alla
morte, questa è una delle ragioni. In generale sono tutti pieni di ammirazione
per il suo coraggio, come se invece adagiarsi fra le braccia del mondo,
riempire le lenzuola di sudore, di lacrime, di dolore e d’amore, accettare di
perdere tutto fuorché la pena, attendere il fato, come se questo non fosse
coraggioso.
Lachesi
Non avrei filato molto
per lei ancora, in ogni caso: ma in effetti quei colori, quelli che tu dici, ce
li avrei messi. Però coraggiosa lo è davvero.
Cloto
Ci vuol cuore per rubare
le forbici ad Atropo, riporle nel bagno, e sfidare il mondo. Rifiutare il dono
del figlio di Giapeto.
Lachesi
Parli di Prometeo il
Filantropo.
Cloto
Di lui parlo, che suscitò
l’ira di Zeus. Non fu tanto il fuoco il vero dono, no, ma quella benda che
pietosamente stese sugli occhi degli uomini – come disse il poeta - a impedire
loro di vedere quanto filo resta sul nostro aspo. Lei si è strappata quel velo.
Conosce l’ora, il minuto.
Lachesi
Furono i medici a
strapparlo, sorella. Ormai hanno modo di conoscere. Che importa l’ora, il
minuto. Quando ti vien detto che non vedrai la prossima primavera, che per te
questo sarà il vero autunno, quello di cui ogni altro è stato figura, ecco, è
tutto, è già tutto.
Cloto
No, non è tutto. Sei mesi
è pur sempre un chissà. Certo, la sua sorte le fu dischiusa, ma rimaneva comunque
custodita in altre mani, nelle nostre, Cloto. Ora invece è un segno sul
calendario. Anche ai criminali vien nascosta la data, se non quando il patibolo
è ormai rizzato sulla piazza, o quando nel penitenziario è già illuminata la
stanza gelida, con la bianca croce di cuscini e gli aghi pronti. E anche lì, mordono
voraci fino all’ultimo la speranza della grazia. Lei no. Lei lo ha deciso. E’
insieme colei che dà la morte, e colei che la riceve, e colei che decide il
quando, il dove, il come. Non vi sarà grazia possibile per chi è il re, il
giudice, il boia, il suppliziato assieme.
Lachesi
Ne parli come se fosse
una di noi. Come se fosse una dèa. Ma è una mortale. Vedi: il suo filo è fra le
mie dita, solo è difficile trovare le tinte giuste. E Atropo potrebbe ancora
sorprenderla, compiendo subito la sua opera. I farmaci rimarrebbero nel piccolo
armadio bianco.
Cloto
So bene che non è una
dèa. Il fato pesa su di lei con una mano di ferro. Non che il fato non ci
riguardi, ma per noi tutto è un gioco, non può essere che un gioco. Talvolta
invidiamo il loro affondare pesanti nella sorte.
Lachesi
Anche questa non sarebbe
una novità: tanti mortali si son sognati dèi, tanti dèi si son sognati mortali.
Quando ciò accade, sempre ne deriva il male.
Cloto
Non è una dèa, no. Ma è
al servizio di una divinità molto potente, Lachesi.
Lachesi
Più potente di noi, che
filiamo i destini degli uomini?
Cloto
Sì, sorella.
Lachesi
Più potente degli Olimpi?
Di Zeus celeste padre?
Cloto
Più potente anche di lui.
Del celeste padre, e di tutti i nomi che essi gli danno. Quella Libertà che
serra loro il collo più fortemente di quanto mai fece Necessità. Quella Libertà
che impedisce loro di seguire le voci divine, le nostre, che pur li chiamiamo,
che fa loro chiudere gli occhi e avanzare soli nel mondo terribile, e varcare
soglie oltre le quali non vi è ritorno.
Lachesi
Dunque c’è questa dèa
dalla voce potente, mentre i nostri richiami sono sussurri nell’ombra, nella
nebbia, sono come echi, sono come vertigini. Invece lei grida. Guai a noi,
sorella, se è così. Ecco, vedi, sono giunta alla fine, poche fibre rimangono
sulla conocchia, poche fibre, poche ore. Tutto è compiuto: vedi, le medicine
sono state tolte dall’armadietto. Sua madre è andata a prenderle, con gli occhi
lucidi, e gliele porta, ed è giusto che sia lei che le portò anche la vita.
Facciamo silenzio adesso, se vuoi. Io devo tingere gli ultimi momenti con i
colori della nuova dèa. Eppure…
Cloto
Non dire niente, sorella.
Facciamo silenzio, come tu hai detto. Io il mio compito l’ho terminato. No, non
dire più nulla, mi fa paura fin quel che pensi.
(lungo silenzio)
Lachesi
Devo parlare ancora. Non
andartene, Cloto.
Cloto
Ho fra le mani la sua
rocca vuota. Non dar voce ai tuoi pensieri, non farlo. Ti scongiuro.
Lachesi
Devo, sorella. Il mio
compito non è ancora concluso. Tra le dèe, noi siamo le più vicine all’avventura
dei mortali. A furia di filare, abbiamo un’idea del loro tempo, noi che nel
tempo non viviamo. Ma come alcuni di loro sono stati capaci di avvicinarsi a
noi, di conoscerci, di amarci, perfino di sedurci, e hanno così ottenuto in
qualche modo l’idea di com’è vivere nell’eterno, noi sappiamo nelle dita il
tempo cosa sia per loro.
Cloto
Sorella. Non me lo
domandare, non farlo.
Lachesi
Devo. Il mio compito non
è ancora concluso. Da quanto tempo non udiamo la voce di Atropo, nostra
sorella? Intendo il tempo dei mortali. Lo chiedo, a bassa voce lo chiedo:
quando fu l’ultima volta?
Cloto
Nondimeno i mortali
seguono docili la loro sorte. Della maggior parte di loro è ancora Atropo che
decide quando tagliare il filo.
Lachesi
Rispondimi. Il mio
compito non è ancora concluso. Ho trovato il colore denso e violento della
Libertà, ma restano ancora alcuni pollici di filato non tinto. E lei ha ora
preso le sue medicine. Qualcuno piange nella stanza, altri si abbracciano, c’è
musica dolce e un bastoncino d’incenso fiorisce di fumo sul comodino. Fuori
dalla casa la gente canta e prega. Rispondimi.
Cloto
Sorella, l’ultima volta
che Atropo parlò stava recidendo la vita di due ladri. E aveva in mano un altro
filo, che… Ma non è cosa per noi, Lachesi. Ora basta. Non ne parliamo. Non
alzare la testa, il nostro compito è tenerla china sul destino che scorre fra
le nostre mani.
Lachesi
Atropo: la sto guardando.
E’ lei e non è lei. No: è lei, ma c’è un’altra con lei.
Cloto
Abbassa lo sguardo.
Lachesi
Non posso più. Ora la
riconosco, è proprio lei, eppure no, adesso il suo volto mi sembra un mistero, sembra
perfino che non sia sola, che le sia accanto una che le assomiglia, o uno, non
so, perché ecco, egli appare come nel vigore di una fresca e quasi rude
virilità.
Cloto
Abbassa lo sguardo. Non è
per noi quel che immagini di vedere.
Lachesi
Sorella! Egli rompe il
filo con tenerezza, come se spezzasse del pane per i suoi figli. E lei – perché
a volte sembra lei - lo raccoglie nel suo grembo. E i suoi, i loro occhi,
Cloto. Sono come l’oro del mezzogiorno e il rosso del mare risonante: ma così
scuri che nessuna notturna civetta potrebbe penetrarli. E’ il colore con cui
tingerò con le mie dita queste ultime dita del filo. Avrà i suoi occhi. Cesare aveva visto ancora di più di quanto
pensassimo.
Cloto
Hai visto troppo,
Lachesi. Noi siamo solo dèe. Tessiamo le sorti dei mortali, null’altro. A noi
non è dato di levare lo sguardo su ciò che ci sovrasta. Siamo rimaste sole, lo
sai. Gli Olimpi sono andati via da tempo, solo noi restiamo. Hai visto troppo.
Lachesi
Ma ho visto, sorella.
Cloto
Non hai visto niente.
Tutto è pieno di sogni, a forza di filarli li sogniamo anche noi. Scorderai
tutto. Torna al tuo lavoro, Lachesi.
Lachesi
Non potrà essere come
prima.
Cloto
Non c’è nessun prima,
nessun dopo, lo sai. Torna al tuo lavoro.
[Nell’immagine le Moire –
quattro – effigiate sul cratere detto vaso
François, custodito al Museo Archeologico di Firenze, attribuito al
ceramografo Kleitias]
Nessun commento:
Posta un commento