Torno dalla Santa Montagna con la memoria e il taccuino giallo pieni di ricordi che mi piacerebbe condividere qui. Momenti intensi, discussioni significative, visioni mozzafiato, incontri importanti, stati di luce e di buio interiori ed esteriori, falesie scoscese su mare virginale color cobalto, pervinca, pavone e fiordaliso, cupole di stelle con le pleiadi gocce d’argento allo zenit, cittadelle monastiche fortificate di una Grecia in odor di Balcani fuori delle quali, la notte, ululano sfalsettando perfino gli sciacalli, canti, baci di rugose mani di vecchi e di icone, brancolar nel buio verso Dio nelle lunghe liturgie, volti volti volti. Ma questa volta il taccuino giallo resterà chiuso, e non ne condividerò il contenuto.
E’ perché da quando ho messo piede sulla Santa Montagna ho avvertito l’impulso interiore e presuntuoso di essere da Lei guardato. Per un po’ di tempo Lei non ha voluto. Faceva di tutto per iscapolarsene, come Proteo dalle mani di coloro che volevano farlo vaticinare per forza (Promessi Sposi, capitolo VI). E’ stato in effetti come lottare con Proteo (il marino vecchion che mai non mente, come traduce il Pindemonte). Proteo prole di Oceano, uno dei tre grandi vecchi del mare. Pastore del gregge di foche di Poseidone, al meriggio si riposa all’ombra degli scogli: se vuoi sapere il tuo destino devi lottare con lui, che non vorrebbe dirtelo, che quindi può mutar forma per fuggirti – per questa caratteristica è entrato nel linguaggio comune – ma alla fine cede, ridiventa lui stesso, ridiventa il vecchio, e implacabilmente risponde il vero alle tue domande. Proprio così si è comportata la Santa Montagna con me. All’inizio non cedeva e mutava forma e luogo e ragioni. I miei amici, più saggi, mi sconsigliavano con delicatezza. Lascia perdere, dicevano. Ma io no, testardo, orgoglioso, ho lottato con tutte le mie forze.
E alla fine la Vecchia, Santa Montagna ha ceduto. Ha aperto i Suoi occhi antichissimi su di me. Mi ha guardato, mi ha visto, mi ha giudicato, nel modo che solo Lei conosce.
Dopo essere stati visti da Lei, vi giuro, non si ha più voglia di scrivere di mare, di cielo, di notti, di giorni, di bellezza, di silenzio, di canto, o di come profumavano e splendevano di rosso e oro i pomodori nei poveri piatti di ferro. Non si ha più voglia, non si può più. Il temerario giovanotto indiano non pensa più a fotografare, ora che è davanti allo sguardo silenzioso della tigre bianca.
I monaci dell’Athos vengono chiamati alla preghiera, alla mensa, agli atti comuni, con il simandron, uno strumento antico, una grossa asse di legno dalle estremità arrotondate che viene percossa da un martello secondo un ritmo che quando lo senti non lo dimentichi più. TOCtactactac TOCtactactac TOCtac TOCtac TOCtactactac. La tradizione dice che fosse il richiamo con cui Noè attirava gli animali nell’Arca, prima del Grande Diluvio. TOCtactactac TOCtactactac TOCtac TOCtac TOCtactactac. Ho scoperto che il cuore è anch’esso un simandron: TOCtactactac TOCtactactac TOCtac TOCtac TOCtactactac. Ecco, sentite: ora chiama. A qualcosa che non so.