Mettono la mano piccola e bianca di lei nella sua, forte e
ruvida, quando Maria la bimba ha sette anni, ed è rimasta orfana. Sono venuti a
trovarlo nel suo deserto proprio per affidargliela: lei non ha più nessuno e
lui, lo zio monaco, è l’unico parente rimastole. Da quel momento, per vent’anni
sarà la sua tortora, la sua agnella, il suo angelo. Le ha costruito una cella
contigua alla sua, e la notte cantano a due voci i salmi di David re.
Un giorno Abramo si allontana in cerca di acqua e di fascine
per il fuoco. Il cammino è lungo, ha sonno, e, con la naturalezza dell’animale
selvatico, si rannicchia a riposare nell’incavo ombroso di una roccia.
Proprio allora, sul sentiero di sassi che passa accanto
all’eremo, ecco arrivare un giovane uomo. E’ un monaco, che l’accidia spinge a
muoversi sempre col cuore e con le gambe, e a non sostare mai. E’ uno di quelli
che san Benedetto conosce bene
e detesta, e che chiama girovaghi, semper vagi et numquam stabiles, et propriis
voluntatibus et gulae illecebris servientes: sempre vagabondi, mai stabili,
schiavi delle proprie voglie e dei piaceri della gola Il monaco girovago
sente una voce che prega, un mormorio come di fonte, e non è allenato a
custodire l’animo dalla vana curiositas.
Guarda dalla finestrella senza far rumore, e vede quell’incanto, la giovane
Maria che saltella con la voce sui salmi di David re. Egli si accorge di aver
sete di vita, la tristezza preme sulle sue spalle come un giogo. Entra
nell’eremo come un falcone in un nido di allodole. Maria si volta, e per farlo
il suo collo di cigno si piega in un modo che il linguaggio umano non è in
grado di descrivere. Quando il monaco esce, riprende il cammino,
nell’indifferenza apparente del deserto, trascinato via dalla tirannica
tristezza che lo domina.
Maria, alzandosi dal giaciglio, si sente perduta, ma non è
il peccato di lussuria a provocare quel sentimento. La lussuria è come una
carica di cavalleria: è un movimento, un’agitazione, ci sono grida, zoccoli di
cavalli, scintillare di sciabole, suoni acuti di trombe. Il demone della
lussuria è violento, ma di scarsa tenuta, è un incendio vivace, ma che dura
molto poco. Il punto è che quando – sul campo di battaglia che è l’anima –
l’incendio della lussuria si spegne, l’anima stessa si trova occupata dalla
possente e tenace fanteria della disperazione, che già vi ha portato i suoi
carriaggi, vi costruisce i caposaldi, vi scava le trincee. Maria è disperata. Si
percuote la faccia e il corpo con le mani. Pensa di gettarsi da una rupe, pensa
a mille modi per darsi la morte, pensa a tutto eccetto che a confessare con
semplicità allo zio quanto è accaduto.
Se la speranza è estasi d’attesa, la disperazione invece non
tollera l’immobilità e il silenzio. Maria si cambia d’abito e fugge dal
romitaggio. Edessa, la grande città, coi suoi colori e i suoi rumori, la attrae
come un’enorme stella. A lei, sconvolta, sembra di non sapere dove andare, ma
la disperazione dentro di lei lo sa benissimo. Conosce perfino il luogo preciso
di quel pubblico albergo in cui si scambia merce con altra merce viva e
palpitante.
Abramo ora è sveglio. Abituato al sonno del leone o del
monaco, un sonno profondo eppure vigile, breve eppure ristoratore, vivo ma
privo di immagini, egli è molto stupito. Questa volta. strano, ha sognato, e si
ricorda il sogno. C’era la sua casa di fango e di frasche: e serpenti
fischianti, enormi scolopendre, ragni e altre forme orribili si insinuavano
nelle fenditure e entravano dentro. Abramo lascia le fascine e i secchi, e
corre verso l’eremo. Ancora questo non si vede e lui sa che certamente qualcosa
è accaduto, lo scorge di lontano e sa che si tratta di Maria, arriva e
l’assenza di lei gli racconta tutto.
Il monaco Abramo chiede agli angeli e ai corvi, alle
carovane di passaggio e agli anacoreti che pregano negli eremi vicini, e
soprattutto a Dio, di ritrovargli Maria. Passano però due lunghi anni. Ecco che un mercante arriva da lui, si siede all’ombra, riceve l’acqua che Abramo
gli offre, e la benedizione. L’ho vista, padre – gli dice – e, credimi, non
vorresti sapere dove sta e cosa fa; non cercarla più: tua nipote Maria è
perduta; fa che per te sia come morta; dille le preghiere per i morti. Abramo
si alza, va nell’oratorio, e torna con il libro dei salmi di David re. Dice al
mercante: prendi, vale molto questo libro, ci guadagnerai; voglio in cambio
abiti come i tuoi, un largo cappello come il tuo, un mantello e delle scarpe
come tu hai. Tieni il libro, padre mio – risponde il mercante – prega piuttosto
per me, per la mia vita; ti lascio un cavallo, lo riprenderò qui da te, quando
passerò ancora. Dio ti consigli però, padre, e ti impedisca di fare ciò che
intendi.
Abramo si sveste della sua cocolla del color della notte e
indossa gli abiti dalle tinte sgargianti che ha ricevuto. Quello stesso giorno
è a Edessa, e si fa indicare l’albergo. Chiede al padrone – un uomo grasso e
calvo - di Maria. Maria, risponde lui,
Maria costa molto. Senza una parola, il monaco travestito fa cadere sulla
tavola alcune monete d’argento, frutto della vendita al mercato di Edessa del
libro dei salmi di David re. Signora Maria! grida il padrone, e lei appare col
volto dipinto e l’abito logoro e scintillante delle prostitute. Abramo sente il
cuore serrarglisi in una morsa, lei non lo riconosce più. Fino all’ultimo aveva
sperato che il travestimento non fosse sufficiente, che sarebbe bastato uno
sguardo. Non è così. Chiama a raccolta le sue virtù virili e monastiche: per
non piangere, per non urlare. Comprende che manifestarsi subito provocherebbe
una nuova fuga di lei. Sa che prima del disvelamento c’è un calvario da salire.
Maria lo conduce in per prima cosa alla tavola: scherza, gli
abbraccia la testa, lo bacia, e mentre lo bacia sente provenire dal corpo di
lui, inconfondibile, l’odore dell’astinenza.
[Ecco, l’odore. L’odore è un
senso primario, elementare, e che proprio per questo ha molto a che fare con lo
spirito. L’odore di santità, oppure
l’odore di zolfo: è sempre il naso
che scova più presto degli altri sensi il diavolo o l’angelo. Il paradossale lezzo della putrefazione che appena
poche ore dopo la morte proviene dal corpo dello starec Zosima – nei Fratelli
Karamazov – metterà in grave crisi perfino il fedelissimo Alësa. Ma, al di
là dei riferimenti letterari, è un’esperienza che tutti facciamo. Il nostro
odore dipende dall’anima (o, come direbbero alcuni pensando di essere
aggiornati, dallo stato della mente): in certe occasioni dopo mezz’ora dalla
doccia già puzziamo. Giorgio Gaber, il filosofo del Giambellino, lo descrive
perfettamente nella sua canzone L’odore
(…oddio l’odore è mio l’odore è mio…vuoi
vedere che sono io? vuoi vedere che sono io?) Sì, sull’odore ci sarebbe da
soffermarsi a lungo. Qui quel che serve dire è che Maria, che abbraccia e bacia
lo zio senza riconoscerlo, d’un tratto viene trafitta dal caratteristico odore
dell’astinenza. Quello non lo ha dimenticato. Gli studiosi del cervello dicono
che gusto e olfatto sono sensi collegati all’ippocampo, che è una struttura a
forma di banana che – assieme ad altre – forma il sistema limbico, ossia la base neurale delle emozioni e sede della
memoria a lungo termine. Sarà benissimo. Fatto sta che – come la madeleine inzuppata nel tè richiama a
Marcel tutto quello che sappiamo, l’odore fragrante di rinuncia del corpo del
monaco richiama alla giovane prostituta un passato che altro che Combray.]
Allora Abramo vede il collo di cigno di Maria torcersi
ancora, questa volta per nascondere il pianto. Ma esso è irrefrenabile ed
escala in un grido. Povera me, grida, me sventurata, me così sola. Ma il
padrone la rimprovera bonario, con quella bonarietà terribile mostrata sempre
da chi ha potere. Signora Maria, cosa succede; sei qui da due anni e non ti sei
mai lamentata, che ti accade? E lei: beata me se fossi morta tre anni fa. Abramo
capisce che non è ancora pronta al disvelamento. Beata me se fossi morta. La memoria risvegliatasi in Maria è una
memoria triste, è la nostalgia disperata di qualcosa di irrecuperabile. Allora
il monaco insiste in questa incredibile, terribile, dolcissima sceneggiata, e
quasi si unisce al rimprovero del padrone: siamo qui insieme, Maria, per
divertirci: e tu vieni a parlarmi dei tuoi peccati? Lei lo guarda: non ha mai
parlato dei suoi peccati. Abramo ordina di portare del vino, della carne
arrostita e dei pimenti, mangia e beve di gusto – lui che non ricordava neppure
di aver mai mangiato carne o bevuto altro che acqua.
Ora la ragazza è in piedi e lo attira in una camera
separata, dove si stende sul giaciglio invitandolo a raggiungerla. Abramo si
stende accanto a lei.
A questo punto il narratore originale della storia – che è
il grande Efrem il Siro, innografo, musicista e santo – non ce la fa più a
narrare, e bisogna lasciare spazio direttamente al suo lamento: O vera sapienza secondo Dio! O vera
intelligenza spirituale! O vero discernimento della salvezza, da proclamare!
Per cinquant’anni di astinenza non ha mai mangiato pane: adesso senza
esitazione, per salvare un’anima perduta, ha mangiato carne. Il coro degli
angeli santi si stupì delle cose che alacremente, senza incertezza alcuna,
mangiò e bevve per strappare un’anima impaludatasi nel fango (questa cosa
degli intelletti incorporei che si meravigliano della voracità è abbastanza
gustosa). Venite, ammiriamo questa
semplicità, venite, proviamo timore per questo capovolgimento: in che modo,
cioè, quest’uomo perfetto e sapiente, pieno di discernimento e prudente, si è
fatto idiota e incapace di discernere, per trar fuori dalla bocca del leone
un’anima inghiottita e sciogliere dalle catene e dal carcere tenebroso un’anima
prigioniera e vinta. Come chiamarti, che nome darti, o perfettissimo atleta di
Cristo, davvero non lo so (e io immagino questo antico scrittore che scuote
la testa, a metà fra l’ammirato e il preoccupato, dinanzi a tante pazzie). Ti potrei definire continente o
incontinente? Sapiente o insipiente? Pieno di discernimento o privo di
discernimento? Durante i cinquant’anni della tua vita di conversione ti sei
coricato su una piccola stuoia: e come ora sali con fermezza su un letto di tal
genere? Ma hai fatto tutte queste cose a lode e gloria di Cristo, sia
intraprendendo un lunghissimo viaggio attraverso gli ostelli, sia mangiando
carne e bevendo vino, sia recandoti in un postribolo. Noi invece, se ogni tanto
vogliamo dire al prossimo una parola utile, valutiamo tutte le cose in maniera
inopportuna.
Hai ragione, Efrem. Abramo si è fatto idiota e temerario per
avvicinarsi più possibile a lei che amava e voleva salvare. Noi valutiamo le
cose, pensiamo al da farsi, e siamo più idioti di lui. Nei vagoni della
metropolitana la signora borghese scruta attentamente il mendicante dallo
sguardo ambiguo e si domanda, stringendo le dita adunche sulla monetina da un
euro con l’uomo vitruviano sul dorso, che cosa ne farebbe quello se glielo
desse. Certo non si comprerebbe il pane. Forse se lo berrebbe. Forse si
drogherebbe. Forse c’è un racket dell’accattonaggio. Meglio non darlo, meglio
fare una donazione natalizia alla Caritas. Dimenticando che – come scrive
Bernanos - un ventre de misérable a plus
besoin d’illusion que de pain.
Così come era abituata a fare con i clienti, Maria toglie all’uomo
i calzari. Abramo la stringe a sé, come volesse baciarla. Figlia mia Maria, non
mi riconosci? Che ti è successo, figlia mia, chi ti ha uccisa? Io avrei preso
su di me qualunque tuo peccato. Perché mi hai sprofondato in questa orribile
tristezza? Chi è senza peccato, poi, se non Dio solo? Maria è come di pietra.
Solo, le tremano le mani, piccole e bianche, e lui gliele prende nelle sue
forti e ruvide, come con quella bimba di ventidue anni prima. Non mi parli,
figlia mia Maria, non mi parli? Sopra di me sia il tuo peccato, io renderò
conto a Dio di te nel giorno del giudizio. Non disperare, Maria: se anche i
tuoi peccati fossero come montagne, la sua misericordia supera ogni cosa.
Segue un gran pianto. Uno di quei pianti che durano tutta
una notte. Perfino il padrone dell’alloggio ne è toccato, sa che Maria è
perduta, eppure chiude la porta a tutti e dice alle ragazze di fare silenzio.
Maria piange e piange, e dice ogni tanto Cosa potrò darti, o Dio, in cambio di
tutto questo.
Ora Maria è tornata nella sua cella. Più che cantare i salmi
di David re, piange e parla a Dio con l’effusione del suo cuore. Quando all’eremo
giunge qualcuno, lei si prostra confessando ad alta voce il proprio passato, in
pace e in modestia lo confessa. E c’è chi – grazie all’incontro con lei - si
scopre guarito dai mali del corpo, chi sollevato dai pesi del cuore.
E termina Efrem il siro, Efrem il diacono: Mi stupisco di me stesso, di come ogni
giorno cado e di come ogni giorno faccio penitenza; in certi momenti edifico e
in altri momenti distruggo ciò che ho costruito. La sera dico: Domani mi pento;
venuta la mattina trascorro la giornata nell’orgoglio. Di nuovo la sera dico:
Di notte veglierò e con le lacrime supplicherò il Signore perché perdoni i miei
peccati; quando poi viene la notte, invece, vengo preso dal sonno. Abbi
misericordia di me, o Dio, tu che solo sei senza peccato, nessun altro conosco
né in altri credo.
Perché non sarà la coerenza a salvarci: ma quel grandioso ‘nonostante tutto’ che regge i cuori dei santi, e che fa loro dire che, nonostante il
peccato, essi mai e poi mai cesseranno di supplicare che Tu, o Tu, dia loro la grande misericordia.