tag:blogger.com,1999:blog-67353038047343360302024-02-18T20:30:28.168-08:00La realtà è sopravvalutataleolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.comBlogger65125tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-36872074021153989312017-05-02T23:28:00.000-07:002017-05-02T23:28:03.999-07:00Quoniam dilexerunt multum. La vecchia donna cinese e il monaco ch'an<div class="MsoNormal">
Per quest’ultima, breve storia ci spostiamo più in oriente,
e lasciamo anche il continente cristiano, geografico, cronologico e culturale.
Siamo in Cina, nel nonsoquando che potrebbe essere ogni istante, perfino ieri,
o venti secoli fa. In realtà più che di una coppia dovremmo parlare di un
terzetto, perché c’è anche una fanciulla di mezzo: ma, come vedremo, ha una
funzione più secondaria e strumentale.<o:p></o:p></div>
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<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj5rAeTI2DQeg9jJxWJwHtlIdxdr9Z-xk8dLSWuz-of5QNl35OURtNvfNpSbbshw816L5TeSBtf0mFV_jz8DW3dx8DzQdFHcrpIxWyt4QQ3E5u3Xo7kvhbsZzf8kJtkOi7uWtnRcTN1zBLF/s1600/monaco+zen+e+donna+2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj5rAeTI2DQeg9jJxWJwHtlIdxdr9Z-xk8dLSWuz-of5QNl35OURtNvfNpSbbshw816L5TeSBtf0mFV_jz8DW3dx8DzQdFHcrpIxWyt4QQ3E5u3Xo7kvhbsZzf8kJtkOi7uWtnRcTN1zBLF/s320/monaco+zen+e+donna+2.jpg" width="280" /></a></div>
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<o:p><br /></o:p></div>
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<o:p><br /></o:p></div>
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C’è questa vecchia donna cinese, che possiede un po’ di
terra adatta alla vita solitaria. Arriva un monaco che pratica il <i>ch’an</i>, quella via che in Giappone e in
Occidente sarà conosciuta come <i>zen</i>. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Dire che cos’è lo zen non è possibile: per definizione esso
è privo di definizione. I praticanti trascorrono la vita in uno stato di grande
concentrazione e contemporaneamente di decentrazione, con molti momenti
dedicati a ciò nell’assoluta immobilità. Gli attaccamenti, le brame, i
desideri, i pensieri, l’io stesso, tutto cade come foglie secche da un albero
autunnale. Appare /ecco!/ il Sé originale, il Sé eterno, o la <i>natura-di-Buddha</i>. Ma di questo non si
può parlare se non sbagliando. <i>Imparare
lo Zen è trovarci / trovarci è dimenticarci / dimenticarci è trovare la natura
di Buddha / la nostra natura originale</i>, dirà Eihei Dogen Roshi, il grande
Maestro giapponese che si recò in Cina nel XIII secolo e ne portò in patria il
suo tesoro. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Il monaco chiede alla vecchia donna se può stabilirsi sulla
vetta di un monte che fa parte dei suoi possedimenti, e che gli sembra adatto
per meditare. La vecchia guarda il giovane asceta dagli occhi lucenti, e
acconsente. Del resto, per i laici d’oriente, mantenere i monaci è una grande
opportunità per guadagnare meriti per le successive esistenze. Il monaco, col
suo piccolo bagaglio in spalla, scompare fra gli alberi. Passano gli inverni,
ne passano venti. La vecchia donna ora è molto più vecchia. Questo è un inverno
arido e ventoso. Le torna in mente il monaco che aveva chiesto di meditare
sulla montagna. Si chiede se sia ancora lì, se sia vivo, se segua ancora la
Via, se abbia fatto progressi. Chiama allora una sua serva, giovane e bella e <i>piena di desiderio</i>. Le dice: Vai
all’eremo, cerca un monaco, e se lo vedi abbraccialo a lungo e con passione: e
poi gli chiederai: <i>Adesso?</i>. L’ancella
si avvia. Dopo la lunga salita, vede profilarsi sul crinale la figura del
monaco, ormai non più così giovane, il cranio perfettamente rasato, seduto
nella postura solidissima della meditazione, immobile come solo i non
naturalmente immobili riescono ad essere. Obbediente, la ragazza si avvicina,
saluta, forse anche canta un po’ per farsi coraggio. Il monaco non dà segno di
averne sentito la presenza, eppure ha gli occhi semiaperti e vigili. Lei scherza,
danza, lo abbraccia, lo accarezza, dice perfino <i>Adesso?</i>: niente. Perfetta serena immutabile immobilità: il vento
marino gonfia le grandi maniche e agita il <i>kesa</i>,
che schiocca con rumore di fuoco e di bandiera, ma lui non se ne cura. Un po’
delusa, un po’ sollevata, molto stupita, la ragazza attende qualche ora al gelo
sotto il portico del piccolo romitaggio. Quando sta per andarsene sente,
profondissime, sonore, melodiose, forti come un tuono, le parole dell’eremita: <i><o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Un vecchio albero su
una fredda roccia. Pieno inverno: non è rimasto più calore in alcun luogo.</i><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Ora la ragazza discende dalla montagna correndo, e ripetendo
tra sé le parole da riferire alla padrona: è ormai notte. Eccola davanti alla
vecchia a riferirle. La vecchia scuote la testa, visibilmente delusa.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Per vent’anni ho
mantenuto quel buono a nulla!<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
La mattina del giorno seguente, una piccola carovana di
uomini e asini coperti di fascine secche sale il sentiero che conduce alla
vetta della montagna. Circondano la zona dell’eremo con le fascine, e appiccano
il fuoco. La notte il monte ancora brucia, e il vento piega la fiamma verso
est. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<br />
<div class="MsoNormal">
Sorride la vecchia donna, pensando che ora in quel luogo c’è
molto calore.<i><o:p></o:p></i></div>
leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-28440221138961983702017-05-02T01:24:00.003-07:002017-05-02T09:30:55.146-07:00Quoniam dilexerunt multum. Terza strana coppia: Maria e lo zio Abramo<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Mettono la mano piccola e bianca di lei nella sua, forte e
ruvida, quando Maria la bimba ha sette anni, ed è rimasta orfana. Sono venuti a
trovarlo nel suo deserto proprio per affidargliela: lei non ha più nessuno e
lui, lo zio monaco, è l’unico parente rimastole. Da quel momento, per vent’anni
sarà la sua tortora, la sua agnella, il suo angelo. Le ha costruito una cella
contigua alla sua, e la notte cantano a due voci i salmi di David re. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Un giorno Abramo si allontana in cerca di acqua e di fascine
per il fuoco. Il cammino è lungo, ha sonno, e, con la naturalezza dell’animale
selvatico, si rannicchia a riposare nell’incavo ombroso di una roccia. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Proprio allora, sul sentiero di sassi che passa accanto
all’eremo, ecco arrivare un giovane uomo. E’ un monaco, che l’accidia spinge a
muoversi sempre col cuore e con le gambe, e a non sostare mai. E’ uno di quelli
<span style="font-size: 12.0pt; line-height: 107%;">che san Benedetto conosce bene
e detesta, e che chiama <i>girovaghi</i>, <i>semper vagi et numquam stabiles, et propriis
voluntatibus et gulae illecebris servientes</i>: sempre vagabondi, mai stabili,
schiavi delle proprie voglie e dei piaceri della gola</span> Il monaco girovago
sente una voce che prega, un mormorio come di fonte, e non è allenato a
custodire l’animo dalla <i>vana curiositas</i>.
Guarda dalla finestrella senza far rumore, e vede quell’incanto, la giovane
Maria che saltella con la voce sui salmi di David re. Egli si accorge di aver
sete di vita, la tristezza preme sulle sue spalle come un giogo. Entra
nell’eremo come un falcone in un nido di allodole. Maria si volta, e per farlo
il suo collo di cigno si piega in un modo che il linguaggio umano non è in
grado di descrivere. Quando il monaco esce, riprende il cammino,
nell’indifferenza apparente del deserto, trascinato via dalla tirannica
tristezza che lo domina.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Maria, alzandosi dal giaciglio, si sente perduta, ma non è
il peccato di lussuria a provocare quel sentimento. La lussuria è come una
carica di cavalleria: è un movimento, un’agitazione, ci sono grida, zoccoli di
cavalli, scintillare di sciabole, suoni acuti di trombe. Il demone della
lussuria è violento, ma di scarsa tenuta, è un incendio vivace, ma che dura
molto poco. Il punto è che quando – sul campo di battaglia che è l’anima –
l’incendio della lussuria si spegne, l’anima stessa si trova occupata dalla
possente e tenace fanteria della disperazione, che già vi ha portato i suoi
carriaggi, vi costruisce i caposaldi, vi scava le trincee. Maria è disperata. Si
percuote la faccia e il corpo con le mani. Pensa di gettarsi da una rupe, pensa
a mille modi per darsi la morte, pensa a tutto eccetto che a confessare con
semplicità allo zio quanto è accaduto.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Se la speranza è estasi d’attesa, la disperazione invece non
tollera l’immobilità e il silenzio. Maria si cambia d’abito e fugge dal
romitaggio. Edessa, la grande città, coi suoi colori e i suoi rumori, la attrae
come un’enorme stella. A lei, sconvolta, sembra di non sapere dove andare, ma
la disperazione dentro di lei lo sa benissimo. Conosce perfino il luogo preciso
di quel pubblico albergo in cui si scambia merce con altra merce viva e
palpitante.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Abramo ora è sveglio. Abituato al sonno del leone o del
monaco, un sonno profondo eppure vigile, breve eppure ristoratore, vivo ma
privo di immagini, egli è molto stupito. Questa volta. strano, ha sognato, e si
ricorda il sogno. C’era la sua casa di fango e di frasche: e serpenti
fischianti, enormi scolopendre, ragni e altre forme orribili si insinuavano
nelle fenditure e entravano dentro. Abramo lascia le fascine e i secchi, e
corre verso l’eremo. Ancora questo non si vede e lui sa che certamente qualcosa
è accaduto, lo scorge di lontano e sa che si tratta di Maria, arriva e
l’assenza di lei gli racconta tutto.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Il monaco Abramo chiede agli angeli e ai corvi, alle
carovane di passaggio e agli anacoreti che pregano negli eremi vicini, e
soprattutto a Dio, di ritrovargli Maria. Passano però due lunghi anni. Ecco che un mercante arriva da lui, si siede all’ombra, riceve l’acqua che Abramo
gli offre, e la benedizione. L’ho vista, padre – gli dice – e, credimi, non
vorresti sapere dove sta e cosa fa; non cercarla più: tua nipote Maria è
perduta; fa che per te sia come morta; dille le preghiere per i morti. Abramo
si alza, va nell’oratorio, e torna con il libro dei salmi di David re. Dice al
mercante: prendi, vale molto questo libro, ci guadagnerai; voglio in cambio
abiti come i tuoi, un largo cappello come il tuo, un mantello e delle scarpe
come tu hai. Tieni il libro, padre mio – risponde il mercante – prega piuttosto
per me, per la mia vita; ti lascio un cavallo, lo riprenderò qui da te, quando
passerò ancora. Dio ti consigli però, padre, e ti impedisca di fare ciò che
intendi. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgRs2Zv_afvQUDR3vKLZmxeNWXeoqjvJHfkiAlEPU3k8dMoFIEWuVxgw249MlDVV4feZm_UDO9832DeFPao8TQMFp4Pf5k5Qyahiw0lv6DionFxLdVMRDcYgd6ecqmVcC1QC90rSYA67dP7/s1600/maria+nipote+di+abramo.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgRs2Zv_afvQUDR3vKLZmxeNWXeoqjvJHfkiAlEPU3k8dMoFIEWuVxgw249MlDVV4feZm_UDO9832DeFPao8TQMFp4Pf5k5Qyahiw0lv6DionFxLdVMRDcYgd6ecqmVcC1QC90rSYA67dP7/s320/maria+nipote+di+abramo.jpg" width="214"></a></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
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<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Abramo si sveste della sua cocolla del color della notte e
indossa gli abiti dalle tinte sgargianti che ha ricevuto. Quello stesso giorno
è a Edessa, e si fa indicare l’albergo. Chiede al padrone – un uomo grasso e
calvo - di Maria. Maria, risponde lui,
Maria costa molto. Senza una parola, il monaco travestito fa cadere sulla
tavola alcune monete d’argento, frutto della vendita al mercato di Edessa del
libro dei salmi di David re. Signora Maria! grida il padrone, e lei appare col
volto dipinto e l’abito logoro e scintillante delle prostitute. Abramo sente il
cuore serrarglisi in una morsa, lei non lo riconosce più. Fino all’ultimo aveva
sperato che il travestimento non fosse sufficiente, che sarebbe bastato uno
sguardo. Non è così. Chiama a raccolta le sue virtù virili e monastiche: per
non piangere, per non urlare. Comprende che manifestarsi subito provocherebbe
una nuova fuga di lei. Sa che prima del disvelamento c’è un calvario da salire.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Maria lo conduce in per prima cosa alla tavola: scherza, gli
abbraccia la testa, lo bacia, e mentre lo bacia sente provenire dal corpo di
lui, inconfondibile, l’odore dell’astinenza.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: normal; text-align: justify;">
[Ecco, l’odore. L’odore è un
senso primario, elementare, e che proprio per questo ha molto a che fare con lo
spirito. L’<i>odore di santità</i>, oppure
l’<i>odore di zolfo</i>: è sempre il naso
che scova più presto degli altri sensi il diavolo o l’angelo. Il paradossale <i>lezzo della putrefazione</i> che appena
poche ore dopo la morte proviene dal corpo dello <i>starec</i> Zosima – nei <i>Fratelli
Karamazov</i> – metterà in grave crisi perfino il fedelissimo Alësa. Ma, al di
là dei riferimenti letterari, è un’esperienza che tutti facciamo. Il nostro
odore dipende dall’anima (o, come direbbero alcuni pensando di essere
aggiornati, dallo stato della mente): in certe occasioni dopo mezz’ora dalla
doccia già puzziamo. Giorgio Gaber, il filosofo del Giambellino, lo descrive
perfettamente nella sua canzone <i>L’odore</i>
(…<i>oddio l’odore è mio l’odore è mio…vuoi
vedere che sono io? vuoi vedere che sono io?</i>) Sì, sull’odore ci sarebbe da
soffermarsi a lungo. Qui quel che serve dire è che Maria, che abbraccia e bacia
lo zio senza riconoscerlo, d’un tratto viene trafitta dal caratteristico odore
dell’astinenza. Quello non lo ha dimenticato. Gli studiosi del cervello dicono
che gusto e olfatto sono sensi collegati all’ippocampo, che è una struttura a
forma di banana che – assieme ad altre – forma il <i>sistema limbico</i>, ossia la base neurale delle emozioni e sede della
memoria a lungo termine. Sarà benissimo. Fatto sta che – come la <i>madeleine</i> inzuppata nel tè richiama a
Marcel tutto quello che sappiamo, l’odore fragrante di rinuncia del corpo del
monaco richiama alla giovane prostituta un passato che altro che Combray.]<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Allora Abramo vede il collo di cigno di Maria torcersi
ancora, questa volta per nascondere il pianto. Ma esso è irrefrenabile ed
escala in un grido. Povera me, grida, me sventurata, me così sola. Ma il
padrone la rimprovera bonario, con quella bonarietà terribile mostrata sempre
da chi ha potere. Signora Maria, cosa succede; sei qui da due anni e non ti sei
mai lamentata, che ti accade? E lei: beata me se fossi morta tre anni fa. Abramo
capisce che non è ancora pronta al disvelamento. <i>Beata me se fossi morta</i>. La memoria risvegliatasi in Maria è una
memoria triste, è la nostalgia disperata di qualcosa di irrecuperabile. Allora
il monaco insiste in questa incredibile, terribile, dolcissima sceneggiata, e
quasi si unisce al rimprovero del padrone: siamo qui insieme, Maria, per
divertirci: e tu vieni a parlarmi dei tuoi peccati? Lei lo guarda: non ha mai
parlato dei suoi peccati. Abramo ordina di portare del vino, della carne
arrostita e dei pimenti, mangia e beve di gusto – lui che non ricordava neppure
di aver mai mangiato carne o bevuto altro che acqua. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Ora la ragazza è in piedi e lo attira in una camera
separata, dove si stende sul giaciglio invitandolo a raggiungerla. Abramo si
stende accanto a lei.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
A questo punto il narratore originale della storia – che è
il grande Efrem il Siro, innografo, musicista e santo – non ce la fa più a
narrare, e bisogna lasciare spazio direttamente al suo lamento: <i>O vera sapienza secondo Dio! O vera
intelligenza spirituale! O vero discernimento della salvezza, da proclamare!
Per cinquant’anni di astinenza non ha mai mangiato pane: adesso senza
esitazione, per salvare un’anima perduta, ha mangiato carne. Il coro degli
angeli santi si stupì delle cose che alacremente, senza incertezza alcuna,
mangiò e bevve per strappare un’anima impaludatasi nel fango </i>(questa cosa
degli intelletti incorporei che si meravigliano della voracità è abbastanza
gustosa). <i>Venite, ammiriamo questa
semplicità, venite, proviamo timore per questo capovolgimento: in che modo,
cioè, quest’uomo perfetto e sapiente, pieno di discernimento e prudente, si è
fatto idiota e incapace di discernere, per trar fuori dalla bocca del leone
un’anima inghiottita e sciogliere dalle catene e dal carcere tenebroso un’anima
prigioniera e vinta. Come chiamarti, che nome darti, o perfettissimo atleta di
Cristo, davvero non lo so</i> (e io immagino questo antico scrittore che scuote
la testa, a metà fra l’ammirato e il preoccupato, dinanzi a tante pazzie). <i>Ti potrei definire continente o
incontinente? Sapiente o insipiente? Pieno di discernimento o privo di
discernimento? Durante i cinquant’anni della tua vita di conversione ti sei
coricato su una piccola stuoia: e come ora sali con fermezza su un letto di tal
genere? Ma hai fatto tutte queste cose a lode e gloria di Cristo, sia
intraprendendo un lunghissimo viaggio attraverso gli ostelli, sia mangiando
carne e bevendo vino, sia recandoti in un postribolo. Noi invece, se ogni tanto
vogliamo dire al prossimo una parola utile, valutiamo tutte le cose in maniera
inopportuna</i>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Hai ragione, Efrem. Abramo si è fatto idiota e temerario per
avvicinarsi più possibile a lei che amava e voleva salvare. Noi valutiamo le
cose, pensiamo al da farsi, e siamo più idioti di lui. Nei vagoni della
metropolitana la signora borghese scruta attentamente il mendicante dallo
sguardo ambiguo e si domanda, stringendo le dita adunche sulla monetina da un
euro con l’uomo vitruviano sul dorso, che cosa ne farebbe quello se glielo
desse. Certo non si comprerebbe il pane. Forse se lo berrebbe. Forse si
drogherebbe. Forse c’è un racket dell’accattonaggio. Meglio non darlo, meglio
fare una donazione natalizia alla Caritas. Dimenticando che – come scrive
Bernanos - <i>un ventre de misérable a plus
besoin d’illusion que de pain</i>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Così come era abituata a fare con i clienti, Maria toglie all’uomo
i calzari. Abramo la stringe a sé, come volesse baciarla. Figlia mia Maria, non
mi riconosci? Che ti è successo, figlia mia, chi ti ha uccisa? Io avrei preso
su di me qualunque tuo peccato. Perché mi hai sprofondato in questa orribile
tristezza? Chi è senza peccato, poi, se non Dio solo? Maria è come di pietra.
Solo, le tremano le mani, piccole e bianche, e lui gliele prende nelle sue
forti e ruvide, come con quella bimba di ventidue anni prima. Non mi parli,
figlia mia Maria, non mi parli? Sopra di me sia il tuo peccato, io renderò
conto a Dio di te nel giorno del giudizio. Non disperare, Maria: se anche i
tuoi peccati fossero come montagne, la sua misericordia supera ogni cosa.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Segue un gran pianto. Uno di quei pianti che durano tutta
una notte. Perfino il padrone dell’alloggio ne è toccato, sa che Maria è
perduta, eppure chiude la porta a tutti e dice alle ragazze di fare silenzio.
Maria piange e piange, e dice ogni tanto Cosa potrò darti, o Dio, in cambio di
tutto questo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Ora Maria è tornata nella sua cella. Più che cantare i salmi
di David re, piange e parla a Dio con l’effusione del suo cuore. Quando all’eremo
giunge qualcuno, lei si prostra confessando ad alta voce il proprio passato, in
pace e in modestia lo confessa. E c’è chi – grazie all’incontro con lei - si
scopre guarito dai mali del corpo, chi sollevato dai pesi del cuore. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
E termina Efrem il siro, Efrem il diacono: <i>Mi stupisco di me stesso, di come ogni
giorno cado e di come ogni giorno faccio penitenza; in certi momenti edifico e
in altri momenti distruggo ciò che ho costruito. La sera dico: Domani mi pento;
venuta la mattina trascorro la giornata nell’orgoglio. Di nuovo la sera dico:
Di notte veglierò e con le lacrime supplicherò il Signore perché perdoni i miei
peccati; quando poi viene la notte, invece, vengo preso dal sonno. Abbi
misericordia di me, o Dio, tu che solo sei senza peccato, nessun altro conosco
né in altri credo.</i><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<br>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Perché non sarà la coerenza a salvarci: ma quel grandioso ‘nonostante tutto’ che regge i cuori dei santi, e che fa loro dire che, nonostante il
peccato, essi mai e poi mai cesseranno di supplicare che Tu, o Tu, dia loro la grande misericordia.<o:p></o:p></div>
leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-46885880394070736392017-05-01T00:29:00.001-07:002017-05-01T00:29:06.534-07:00Quoniam dilexerunt multum. Seconda strana coppia: Pelagia e Nonno<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Nonno: il nome in greco vuol dire puro, santo, venerabile. Nonno
fa onore al suo nome anche adesso, sotto il portico bianco della basilica che
lo protegge dal sole di Antiochia: è figura veramente venerabile. Gli hanno preparato un sedile un po’ più
alto degli altri che sono con lui, un piccolo gruppo di vescovi e presbiteri
locali riunitisi al fine di discutere di alcuni affari ecclesiastici. Il
giovane arcidiacono si prende cura di lui con ammirazione e devozione, lui però
sembra indifferente, ha il cranio calvo e lucido, la barba lunga e candida, il
mento poggiato sul petto coperto da un logoro omoforion bianco a grandi croci
nere. Socchiude gli occhi azzurrissimi, circondati da piegoline della pelle
come raggi di un ostensorio. E’ stanco. Sogna il suo deserto, da cui
l’obbedienza l’ha strappato per convocarlo in città e ordinarlo episcopo e
primate. Sogna la sua grotta, le sue notti trascorse in piedi guardando
l’oriente, le sere in cui passava ogni tanto qualche confratello, e si
benedivano e abbracciavano reciprocamente, ma poi subito si lasciavano e
ritornavano alla gioiosa solitudine d’amore. Antiochia ribolle di calore
malsano – lui sogna il vento secco e infuocato fra le rocce, i vescovi parlano
e parlano – lui sogna il belato della sua capretta. L’arcidiacono lo guarda,
intenerito e preoccupato: conosce i termini delle questioni proposte, e vi
risponde come può e sa, facendo scudo al raccoglimento o alla vaghezza del vecchio vescovo. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Ora però l’arcidiacono sembra distratto. C’è movimento nella
piazza, i bambini corrono qua e là, un cane abbaia, ci sono grida di uomini e
tintinnii nell’aria. Il chierico è in piedi, afferra per un braccio un
ragazzotto che cerca un posto più alto per vedere. Che succede, gli chiede.
Voglio vederla, risponde. Chi. Pelagia la danzatrice, il sogno di Antiochia. Pelagia
la prostituta, vuoi dire. Quel che è: in giro si dice che della sua bellezza
non si potrebbero saziare gli uomini di tutto il mondo. Vattene ragazzo, e lo
allontana con una spinta. Eccola infatti, ecco la sua portantina, ecco i suoi
servitori che la precedono e la seguono, ecco il profumo acuto che si mescola
con l’aria densa. La lettiga ha le cortine aperte, si vede il suo volto
impastato di colori, si vedono i suoi occhi resi cupi dall’indaco che li circonda, si vedono le
sue braccia nude istoriate di henné. I vescovi ora si sono alzati, si voltano
dalla parte opposta, tuffano gli occhi nell’incavo dei gomiti per non vedere.
L’arcidiacono va verso la portantina, grida a quella gente di andarsene, di
tenersi lontano dai padri santi, i servi lo sfottono, Pelagia non sembra accorgersi
di nulla. Più lentamente di quel che il chierico avrebbe voluto, il piccolo
corteo scompare, la gente si disperde, i suoni si attutiscono, i profumi
svaniscono. Si volta verso il portico ed ecco cosa vede.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Vede i vescovi nuovamente seduti ai loro posti, le facce
rosse, le fronti corrugate, gli zigomi tesi. In mezzo a loro, Nonno è in piedi,
alto e dritto, ha fra le mani l’evangelario, e il suo volto è pieno di luce e
privo di stanchezza, gli occhi aperti fissi sul punto in cui la lettiga è scomparsa.
L’arcidiacono si avvicina: Padre, gli dice, e non aggiunge altro. Non ti
rallegra, gli dice piano piano il vescovo, poi, con voce più alta, fratelli, non
vi rallegra una così grande bellezza? Tutti tacciono, con le parole e con gli
sguardi. Padre, dice l’arcidiacono, e non aggiunge altro. E’ seduto ora, il venerabile,
e piange: le sue lacrime cadono sul libro santo, e ne bagnano le pagine. Alza
la testa, è tornato stanco e curvo, ma la voce è ancora forte: io mi sono
rallegrato molto, e molto mi è piaciuta la sua bellezza, e vi dico: Dio la
metterà al primo posto, e la stabilirà davanti al suo tremendo tribunale, per
giudicare noi e il nostro episcopato. Padre, dice l’arcidiacono, padre, e non
aggiunge altro.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Ad aggiungere qualcosa è un giovane vescovo dai capelli neri
e dallo sguardo in fiamme. Padre, cosa dici! Cosa ha a che fare la bellezza
dello spirito con quel fantoccio impiastricciato per attirare i suoi clienti!
Risponde a lui il primate: con quanta cura, fratello mio, quella donna si adorna per
il piacere dei suoi amanti, che oggi sono e domani non sono più; noi, invece,
non soltanto non orniamo la nostra anima, ma neppure laviamo il nostro cuore
per presentarci davanti all’Amore stesso.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgLFd6kbAUQuy64su7Qjtrua7dh_OL8QFSg1Twc59f3HgBDSj2Zx6HM3MB3t0sqjnqgToZqhRSWy2banHSBQ-3JvlGRGuEHqIy6bzeViNvdond9bZ1GhtgCSjVwxD5p3K806Y4YD30Gd3FU/s1600/nonno+pelagia.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="224" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgLFd6kbAUQuy64su7Qjtrua7dh_OL8QFSg1Twc59f3HgBDSj2Zx6HM3MB3t0sqjnqgToZqhRSWy2banHSBQ-3JvlGRGuEHqIy6bzeViNvdond9bZ1GhtgCSjVwxD5p3K806Y4YD30Gd3FU/s320/nonno+pelagia.jpg" width="320" /></a></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<o:p><br /></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
C’è il caso, e c’è la Grazia: a volte danzano insieme. Sarà
che forse l’indifferenza di Pelagia non era proprio tale, e che anche lei è stata
colpita da quanto è accaduto davanti a quel portico. Sarà che Nonno, con la sua
voce di miele, incantava la gente parlando dalla sua cattedra. Sarà che niente
di tutto questo, e che ogni evento fu propiziato dagli angeli. Ma ora Pelagia, che
mai era entrata in una chiesa, che mai era stata neppure sfiorata
dall’inquietudine della coscienza, ora Pelagia – circondata dai suoi servi che
gli fanno scudo dagli sguardi di desiderio, dagli sguardi di riprovazione, e
dagli sguardi, la maggioranza, che sono insieme di desiderio e di riprovazione
– è in piedi nella basilica dove Nonno sta predicando. Come sempre, Pelagia si
accorge di ciò che prova perché il corpo glielo dice: un po’ stupefatta sente
le lacrime scendergli sulle guance. Le lacrime, aratri ardenti, aprono un solco
sulla resistente crosta del trucco. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Pelagia è ora davanti a Nonno, si è inginocchiata davanti al
suo sguardo calmo e azzurro. Padre. gli dice, imita il tuo Maestro e riversa su
di me la grande misericordia; Padre, fa di me una cristiana. Come ti chiami,
sorella mia, dice il vescovo. Pelagia, gli risponde lei, Pelagia che vuol dire
mare, ed ecco i miei peccati sono un mare, e i miei orrori un abisso.
L’arcidiacono – che ha visto e udito - guarda il vescovo. Padre, gli dice, e
non aggiunge altro.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Il vescovo vede la donna ai suoi piedi. Il monaco del
deserto conosce le belve, e sa bene la loro imprevedibilità. A volte un
brontolio sommesso annuncia il pericolo più di un tonate ruggito. Ma non ha mai
incontrato una fiera più pericolosa di lei. Come sempre succede quando soffia
il vento scompigliante dello Spirito che non si sa dove viene e dove va, ci si
rifugia nella capanna della Legge. E, quando sente l’arcidiacono dire a Pelagia che i
santi canoni impediscono di ammettere al battesimo una prostituta se non dopo
molto tempo passato sotto la guida di persone esperte che garantiranno che essa
non torni ai suoi peccati, chiude gli occhi e annuisce. Pelagia, che non ha mai
cessato di piangere, con le lacrime bagna i piedi del vescovo e coi capelli li
asciuga, facendo rivivere il suo prototipo evangelico.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Adesso però si è alzata, e guarda Nonno con uno sguardo
dardeggiante, implacabile. Padre, dice, renderai conto a Dio della mia anima;
io ricadrò nel mio peccato: ma sarai tu a portarne la colpa; non avrai parte
con Dio e con i santi, sarai ritenuto da lui un adoratore di idoli, se tu
adesso non mi salverai dalle mie iniquità, se non mi farai sposa di Cristo e
non mi offrirai a lui. Il vescovo comprende chi parla in lei, e prontamente,
monasticamente, obbedisce. Si prepari il sacro Fonte, ordina. Padre, dice
l’arcidiacono, e non aggiunge altro. Sorella, conclude Nonno, ti lascerò il
nome del mare.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Pelagia, battezzata e rivestita della veste bianca, rimane
per otto giorni distesa sulla pietra della basilica, i piedi nudi, le braccia
in croce. Ha dato gli ordini ai servitori di disfarsi di tutte le sue ricchezze
donandole ai poveri. Poi depone l’abito candido dei neofiti, indossa una logora
veste color del deserto, e scompare.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Anni trascorrono, e il vescovo è oramai vecchissimo,. Un giorno
riceve dei monaci di un cenobio molto remoto: ha sempre piacere di incontrarli
e di sentire il profumo della vita e dell’amore da cui amore e vita lo hanno
costretto a allontanarsi. I monaci gli parlano di un santo eremita, un recluso,
l’abitante di una grotta strapiombante su una falesia; loro gli portavano del
cibo, pochissimo, e lui, forse nella notte scendeva, o volava chissà, e lo
prendeva. Ma da tempo il cibo non viene più toccato e si suppone che
l’anacoreta sia morto. Pelagio, aggiungono, era il suo nome. Il volto di Nonno
si apre in un sorriso di comprensione. Manderò dei chierici a raccogliere le
spoglie del recluso, dice, perché desidero che siano venerate in questa chiesa.
Padre, dice l’arcidiacono. Ma questa volta aggiunge: manda me.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<br />
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Vanno i chierici con l’arcidiacono, che è l’unico a non
stupirsi quando trovano il corpo di una donna, di Pelagia, la santa prostituta,
ritiratasi nell’alcova di pietra per deliziare con la sua bellezza l’Amore
divino. </div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Se qualcuno oggi sale sul tetto del Duomo di Milano, e perde il suo sguardo nel <i>fantastico popolo di figure in quel vistoso giardino marmoreo</i>, come ebbe a definirlo Hermann Hesse, ossia alle statue collocate solo per l'occhio di Dio e degli angeli su vertiginose guglie di marmo, potrebbe incontrare - fra le milleottocento - quella di Pelagia la prostituta. Ma non è facile, perché ama nascondersi<o:p></o:p></div>
leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-32409046639915848472017-04-29T03:14:00.001-07:002017-04-29T16:32:59.767-07:00Quoniam dilexerunt multum. Prima strana coppia: Maria e Zosima<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Zosima è monaco, monaco perfetto, primo della classe dello
spirito, stacanovista dell’ascesi, <i>valedictorian</i>
del monastero; nasce santo e poi non pago lo diventa anche; non commette mai
peccati, osserva acribicamente ogni minima regola, e dove non ci sono regole ce
ne mette lui di rigidissime; anno dopo anno e sono già cinquantatre, giorno
dopo giorno e sono già diciannovemila, ora dopo ora e sono già cinquecentomila,
istante dopo istante e sono già infiniti, medita la Scrittura, apre la bocca e
il cuore a una salmodia ininterrotta, chiude le mani e la mente nell’incessante
lavoro dell’intreccio dei canestri; quando dorme, e dorme pochissimo, sogna di
salmodiare, sogna di lavorare.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Zosima è monaco, monaco perfetto ma non contento, possibile
che sia tutto qui, tutto in questa osservanza, tutto in questa perfezione,
possibile che non ci sia altro da imparare, possibile non ci sia oltre dove
andare. Lascia il suo monastero per cercare nuove sfide alla sua volontà
ascetica, raggiunge un cenobio presso il fiume Giordano, e ivi trova tanti
altri se stesso; qui sono tutti perfetti, sempre a salmodiare, sempre a
lavorare, pochissime parole e mai una oziosa, pochissimi pensieri e mai uno al
denaro o all’amore ma solo al cielo; hanno abbandonato la vita e i suoi dolori,
hanno scelto la morte al mondo, i loro corpi assottigliati dal digiuno sono la
pura occasione perché l’anima si trattenga a fare vita quasi angelica prima di
volar via in un battito impercettibile d’ali.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Zosima è monaco, monaco perfetto ma non contento, ora fra
altri monaci perfetti ma che siano contenti o meno non lo si sa. Arriva la
Quaresima e ognuno di loro si fa un fagotto di poche cose e pochissimo cibo e
si inoltra solitario nel deserto, sempre più al largo nell’oceano rossastro di
pietra e sabbia, fino a che anche la minima riva di una relazione orizzontale
sia scomparsa e possano essere finalmente soli col Solo. Zosima va anche lui, e
il fagotto è più leggero di quello degli altri, ma il cuore molto pesante per
quella strana, bizzarra scontentezza. Zosima va e sente la stanchezza, perché
le cinquecentomila ore perfette gli gravano sulle spalle come piombo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Zosima un giorno si sveglia dopo aver dormito qualche ora
con le rocce come cuscino a somiglianza del patriarca Giacobbe, ma senza fare
alcun sogno; si alza e pensa di stare sognando adesso, invece, perché gli
sembra di vedere lontano muoversi l’ombra di un corpo umano: sottilissima,
velocissima, leggerissima; Zosima mette le mani a tettuccio sugli occhi, e vede
che è una donna, una donna completamente nuda, il corpo annerito dall’arsura
solare, i capelli candidi, e fugge via come il vento.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Zosima adesso corre, corre come quando era giovane, come se
di ore ne avesse solo centomila, e neanche il peso sul cuore lo rallenta,
Zosima corre corre corre e chiede e supplica la donna di fermarsi e di
benedirlo, e ogni tanto dà un’occhiata al cuore ed ecco è pieno di una dolcezza
inspiegabile e mai provata, e poi non ce la fa più, lei è così più veloce, e
cade a terra, e piange, e grida <i>basta, ti
prego, benedicimi</i>. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Maria, così si chiama la donna, si ferma, si gira verso
Zosima il monaco, e si prostra davanti a lui, chiedendo a propria volta di
essere benedetta. Rimangono così per molte ore, che per Zosima si aggiungono
alle cinquecentomila ma hanno proprio un altro sapore. Due figurette distese e
allungate nel mezzo del niente, nel mezzo del sole e del vento e della pietra.
Vento e sole passano su di loro, la pietra invece rimane ferma, ed ecco che è
notte. Si leva nel cielo una luna crescente, preludio del plenilunio pasquale:
intorno tutto è nitidissimo, con i margini ritagliati su uno sfondo d’ombra.
Zosima si inginocchia, Zosima comincia a salmodiare, lui fa solo questo da
sempre, però guarda lei, miodio come è leggera, sembra che possa levarsi da
terra in ogni istante. Ecco: si è levata: ora danza nel cielo. Zosima pensa ora
che qualcuno di molto forte e di molto malvagio lo stia ingannando, non è forse
il deserto patria di spettri e di demoni? Chiude gli occhi, mormora un esorcismo,
li riapre. Ora la donna è più vicina, non la vede ma ne sente la voce. Davanti
a lui tutto è pieno di stelle.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Maria dice: sono una donna. Sono solo una donna: ma
battezzata. Sono peccatrice: ma battezzata. Sono brace, sono cenere, sono carne
bruciata: ma battezzata. Sono incapace anche di un solo pensiero spirituale:
eppure, sono battezzata. Zosima tace, immobile, genuflesso: è solo ascolto.
Maria continua: nacqui in Egitto. A dodici anni sono fuggita da casa con una
carovana di mercanti che passava. Mi presero con loro, e presero la mia
verginità, lasciandomi ad Alessandria. Da allora vivo nell’incendio dei sensi.
Per diciassette anni passai da un abbraccio a un altro, da un giaciglio
all’altro, dal ricco al povero, dal soldato al mercante al prete. Mi volevano
pagare: rifiutavo. Mi facevano regali: li sdegnavo. Mi appagava il piacere di
quegli incontri, e insieme non mi appagava. Stretta ad un uomo, pensavo già al
prossimo. Un giorno, al porto, vidi ricchi pellegrini imbarcarsi su una nave,
cristiani che andavano a Gerusalemme. In cerca di occasioni di piacere, volli
andare con loro; non avevo denaro ma il capitano sapeva che avevo modo di
pagarlo anche senza. Gerusalemme mi piaceva: prendere al laccio del mio fascino
i cuori dei pellegrini e al laccio delle mie braccia e delle mie gambe i loro
corpi mi dava una strana soddisfazione, godevo a stare fra il loro desiderio di
essere santi e la loro incapacità di esserlo. Però accadde che un mattino – il
sole non era ancora sorto – vidi una folla di loro, donne e uomini, affrettarsi
alla chiesa dell’Anastasis con la faccia contenta. Li seguii, senza saper
perché, ma questa volta non per le mie voglie. Entrarono, e volli seguirli
ancora. Fu allora che successe. Io sono stata toccata da mille uomini, so cosa
sono i loro abbracci, so cosa sono le loro botte, e so quando non si può dire
se siano abbracci o botte: ma questo tocco io non l’avevo mai provato. Era il
tocco di un maschio, ma nessun maschio toccava così. Era un muro su cui
sbattevo e allo stesso tempo un blocco interiore. Mi respingeva, ed era un
attrarmi. Mi lasciava i lividi sul corpo, ma nessuna carezza mi ha mai onorato
così. Sta di fatto che io – nella chiesa – non potevo entrare, perché una
misteriosa forza me lo impediva. Una immensa Potenza dominava il luogo. Vidi
sull’architrave della porta un’icona della Madre di Dio, due occhi enormi e
scuri che scintillavano su uno sfondo d’oro. Io, la lussuriosa, osai guardare
la Vergine, io, Maria, guardai Maria. Non so dire quanto durò, quando si piange
il tempo è come se si curvasse, ma, quando ritornai in me, la medesima forza
che prima mi sbarrava l’ingesso del tempio mi ci trascinò dentro col medesimo
impeto: mi ritrovai in un istante nel Santo dei Santi, con la mia fronte
poggiata sulla pietra del sepolcro, i miei capelli sparsi sulla pietra del
sepolcro, le mie lacrime cadevano sulla pietra del sepolcro. Poi, la Forza mi
trasse fuori e mi scagliò verso il deserto come si scocca una freccia. Uscii
dalla porta che dà sulla strada per Gerico. Io correvo e mi svestivo dei miei
abiti colorati eppure un altro correva e mi svestiva. Non so come attraversai
il fiume, ricordo solo che mi trovai dall’altra parte. Saranno quarant’anni
adesso. Abba.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Maria ora tace, per Zosima è come lo svegliarsi da un sogno.
Guarda la donna, il suo corpo nudo e castissimo, modellato dal Sommo scultore
con lo scalpello dell’astinenza. L’esperto di ogni strategia ascetica intuisce
davanti a lei la possibilità di acquisirne una ancora. Le chiede: Madre, dimmi
una parola. Che è il modo usato fra i monaci del deserto per dire: Dammi un
consiglio spirituale. Maria non dice nulla, continua a guardarlo con occhi
calmi. Zosima insiste: Madre, vedo che sei stata vittoriosa su tutti i demòni.
Ti prego, insegnami come.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Maria risponde subito: No, Abba, io non ho vinto niente. La
carne che tu vedi brucia ancora di tutte le passioni di prima. E’ come un
tizzone imbiancato dal fuoco, basta che ci soffi sopra appena e diventa tutto
rosso. Un vento, poi, lo farebbe fiammeggiare. No, Abba, non ho vinto niente.
L’altra Maria, però, la santa Vergine, è sempre stata con me, mia compagna di
romitaggio. Lei mi dona il pianto, e le lacrime bagnano quei fuochi e li
smorzano. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Amma, ma reciterai i salmi – dice adesso Zosima, e torna per
un attimo il primo della classe – Amma, ma leggerai la Scrittura! Salmi,
risponde calma Maria, non so di cosa parli, padre mio. Ma dopo tanti anni canto
al mio Amato con le voci degli uccelli, col bramito delle antilopi, col
gracchiare dei corvi, col ronzare degli insetti, col ruggire delle fiere: così
io chiedo a Lui che ogni giorno possa ricevere la grande misericordia. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Fanno silenzio. Per quelle due anime la parola è uno sforzo,
un salto, e il silenzio il luogo dove subito si ricade e si riposa. Maria si
alza, è esile come un soffio di brezza. e fa per allontarsi. Zosima la chiama:
Madre, vieni con me, perché fra pochi giorni è Pasqua, madre, vieni con me al
cenobio, perché fra pochi giorni è Pasqua, madre, riceverai i Santi e Terribili
Misteri, il Corpo e il Sangue del Signore, perché fra pochi giorni è Pasqua.
Maria risponde: il mio Diletto mi ha chiamato al deserto, come potrei venire da
altri uomini, qui Lui dimora in me e io in Lui, l’amata sta dove l’Amato vuole;
ma se tu, Abba, vuoi aver la grazia di portarmi il Divino Calice, tra un anno,
a Pasqua, sotto questa stessa luna, io sarò qui a riceverlo e Lui ti
ricompenserà grandemente. Zosima si volta, fa per dir qualcosa ma lei è ormai
lontanissima, una macchia bruna sulle rocce rosse.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Cinquecentomila ore Zosima ha passato in monastero, ma le
poche migliaia di questo anno sono lunghe mille ciascuna. Per la prima volta egli
attende qualcosa che non è l’apocalisse, o la propria morte. Attende una donna.
Primavera estate autunno inverno e ancora primavera, e dodici lune nel cielo.
Zosima chiede all’Igumeno la santa benedizione e si dirige nel deserto
stringendo al petto i Santi Doni. Ecco, è sulla riva del Giordano. Lei non c’è
– anche gli amori spirituali obbediscono a regole ferree – lei non c’è. Davanti
al ritardo di lei crolla come un castello di carte tutta la struttura ascetica
costruita pazientemente dal monaco: come in preda alle passioni piange,
supplica, e intanto guarda guarda guarda. Si chiede, se verrà, come
attraverserà il fiume. Ora lei arriva, e il Giordano non lo vede nemmeno, il
suo corpo leggerissimo lo attraversa camminando sulle acque. Nuda, le braccia
incrociate sul petto, riceve dalla mano del monaco i santi Misteri, poi si
volta e fa per andarsene. Zosima fa qualche tentativo per trattenerla almeno un
poco, prova a seguirla, la prega di portare con sé un po’ di cibo. Tutto
inutile: non è questione di durata, ma di intensità, nei grandi amori. Maria
gli dice soltanto di pregare per lei e di ricordarsi della sua miseria. Gli
chiede di ritornare per la Pasqua successiva, e se ne va senza voltarsi. Zosima
si ferma, realizzando l’impossibilità di trattenere quella sostanza
sottilissima di cui lei è fatta.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiDms6SeM6s96_MfyLeQWNirbcCNXSh9YG5tri8s-gzKat6toBpUfGJ7UR5i6kAWSAid8vuy_ZaPiHvTDQZIcFsMfr7Owz_zolgSHFfBFo7dW89iihUGECCihla-69JrqNOMSDhIcMynF_k/s1600/zosima+maria+egiziaca.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiDms6SeM6s96_MfyLeQWNirbcCNXSh9YG5tri8s-gzKat6toBpUfGJ7UR5i6kAWSAid8vuy_ZaPiHvTDQZIcFsMfr7Owz_zolgSHFfBFo7dW89iihUGECCihla-69JrqNOMSDhIcMynF_k/s320/zosima+maria+egiziaca.jpg" width="246"></a></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<br>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Primavera estate autunno inverno e ancora primavera, e dodici
lune nel cielo, e Zosima è nel deserto, stessa trepidazione, stessa attesa.
Zosima sente il rumore di sassi che si muovono sulle rocce, e i suoi occhi
allenati scorgono un branco di capre nubiane discendere velocemente da un
costone, un po’ a destra, oltre il Giordano. Due aquile volano ad ampi cerchi
nel cielo. Sembra che da sotto ogni pietra un irace si sporga, e proceda
saltellando e emettendo piccole grida nella stessa direzione. Ci sono ronzii di
insetti nell’aria. E’ come se il deserto fosse diventato improvvisamente vivo. Zosima
si cala sulla sponda del fiume aggrappandosi ai ciuffi di ginestra polverosi, e
ne risale per un breve tratto il corso. D’un tratto vede, sull’altra riva, un
gigantesco leone maschio avanzare lentamente, la criniera appena mossa dal
vento; anche il leone lo vede, si ferma, lo guarda per istanti infiniti con i
suoi occhi gialli, emettendo un brontolio sonoro e costante: poi riprende la
sua strada. I piccoli stambecchi gli danzano davanti, ma il felino non se ne
cura, procede quasi con pacatezza, e poi scompare dietro uno spuntone roccioso.
Zosima, con i peli del corpo dritti dal terrore, si accorge che in quel punto
il fiume è guadabile. Sospira, dà addio alla sua vita terrena (non che gliene
avesse mai importato molto), e attraversa il Giordano per seguire il leone. Lo
trova disteso, assorto, vigile, accanto al corpo morto di Maria, che è dorato e
leggero come una foglia secca.<o:p></o:p></div>
leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-31572791591702897872017-04-29T03:10:00.002-07:002017-04-29T04:22:09.382-07:00Quoniam dilexerunt multum: tre strane coppie dell'oriente vicino, più una dell'oriente lontano<div class="MsoNormal" style="margin-right: 10cm; text-align: justify;">
<i><span style="font-size: 9.0pt; line-height: 107%;">Sume citharam, circui
civitatem, meretrix oblivioni tradita; bene cane, frequenta canticum, ut
memoria tui sit<o:p></o:p></span></i></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 10cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 9.0pt; line-height: 107%;">Prendi la cetra, gira per la città, prostituta consegnata
all’oblio; suona con abilità, moltiplica i canti, perché qualcuno si ricordi di
te<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 10cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 9.0pt; line-height: 107%;">Isaia 23, 16<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 10cm; text-align: justify;">
<i><span style="font-size: 9.0pt; line-height: 107%;">Fasciculus murrae
dilectus meus mihi: inter ubera mea commorabitur. Dilectus meus misit manum
suam per foramen, et venter meus intremuit ad tactum eius. Surrexi ut aperirem
dilecto meo: manus meae stillaverunt murra, digiti mei pleni murra probatissima
pessulum ostii.<o:p></o:p></span></i></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 10cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 9.0pt; line-height: 107%;">Un sacchetto di mirra l’amato mio per me: tra i miei seni
passa la notte. Il mio amato ha messo la mano nella fessura e il mio ventre fremette
al suo tocco. Mi sono alzata per aprire al mio amato, le mie mani stillavano
mirra, le mie dita mirra purissima sulla maniglia del chiavistello.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 10cm; text-align: justify;">
<span style="font-size: 9.0pt; line-height: 107%;">Cantico dei Cantici 1,12; 5,4-5)<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Gesù parla con severità, nel Vangelo, di denaro e di sesso.
Più severamente e ampiamente di denaro che di sesso: e questo potrebbe
sorprendere, visto che poi la Chiesa è stata ben più rigida e occhiuta sul
secondo. In questi ambiti l’insegnamento di Gesù è rigorosissimo, e niente
affatto <i>easy going</i>. Proprio in un
solo capitolo di Matteo (il diciannovesimo), prima i farisei gli domandano se
sia lecito ripudiare la propria moglie: e lui, appellandosi a ciò che accadeva
agli albori della creazione, risponde di no, e che farlo equivale
all’adulterio, e i suoi discepoli allora scuotono la testa e dicono che forse è
meglio non sposarsi, e lui replica col misterioso detto dei castrati per
natura, di quelli resi così dagli uomini, e di quelli che si sono fatti tali
per il Regno; pochi versetti dopo incontra il cosiddetto <i>giovane ricco</i>, che vorrebbe seguirlo ma è trattenuto dai molti
beni, il <i>giovane ricco</i>, l’unico
essere umano di cui viene detto che Gesù lo ama di un amore personale e
diretto, il <i>giovane ricco</i> che se ne
va via come <i>giovane triste</i>, e Gesù se
ne esce con la celebre metafora del cammello e della cruna dell’ago, e i suoi
discepoli scuotono ancora la testa e si domandano chi mai potrà salvarsi, e
Gesù risponde che ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio. Se però
si cerca nel Vangelo come il Figlio di Dio razzolava, oltre che come predicava,
vediamo che Egli amava frequentare gente non tanto perbene sia rispetto al
denaro (prende un esattore delle tasse dell’occupante romano fra i suoi, va in
casa di Zaccheo il truffatore, loda in parabola l’amministratore disonesto,
sembra esaltare lo spreco talvolta a scapito della carità verso i poveri), che rispetto al sesso. Anche le donne che Gesù predilige non sono esattamente delle personcine
perbene: l'adultera che sta per essere lapidata, e per la quale Egli compie il
misteriosissimo gesto di scrivere sulla sabbia chissà cosa; la samaritana al
pozzo, che aveva avuto cinque mariti e il cui attuale uomo non è il marito. Ce
ne sono poi altre tre, che la tradizione cristiana riassume nella figura di
Maria di Magdala, la peccatrice guarita e perdonata, che sarà presente sotto la
croce e che danzerà con Lui, nel giardino della risurrezione, la danza
meravigliosa del <i>nolimetangere</i>: una che all'inizio della vita pubblica di
Gesù, mentre si nasconde da chi la giudica e la condanna, gli bagna i piedi con
le lacrime e glieli asciuga con i capelli, ingenerando una diffidenza nel suo
ospite Simone, la seconda che nell'imminenza della fine gli cosparge il capo
con unguento prezioso, provocando l'indignazione di Giuda Iscariota, la terza -
sorprendentemente - la Maria sorella di Marta e di Lazzaro, quella che siede ai
piedi del Maestro mentre l'altra lavora e serve, e che neanche il verificarsi
dell'episodio più scenografico del Vangelo - quello della rianimazione del
fratello avvolto da bende è già in stato di putrefazione - riuscirà a far
uscire di casa. Quindi la Chiesa ha indentificato in una prostituta, in una
peccatrice, l'archetipo della vita contemplativa. E' una cosa che - come si
dice - dà da pensare. La vita contemplativa cristiana non è fatta per chi ha
estinto in sé il desiderio, ma per chi ne avvampa. Il desiderio dovrà essere
liberato dal Cristo, ma il desiderio liberato non coincide con la liberazione
dal desiderio.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg3Mz4HmJUbcTYgni_b69u2nofGn3Z6k_SHO24xuvZaAb1cB3CZeUBrPWzOWX8U3rmfsmQ3KkfwzgeaT9aR6jjqbFQ7QvAiNOVB76TpOUF0VqjUzOkZko-6xV1agF6Iz46-uajhxmBUspw4/s1600/collage+sante+blog.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg3Mz4HmJUbcTYgni_b69u2nofGn3Z6k_SHO24xuvZaAb1cB3CZeUBrPWzOWX8U3rmfsmQ3KkfwzgeaT9aR6jjqbFQ7QvAiNOVB76TpOUF0VqjUzOkZko-6xV1agF6Iz46-uajhxmBUspw4/s320/collage+sante+blog.jpg" width="320" /></a></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Le prime tre coppie di cui sto per raccontare dobbiamo
pensarle nel IV secolo, in Egitto, Siria e Palestina: è l'ambito storico in cui
sono state elaborate le celebri storie dei cosiddetti <i>padri del deserto</i>. Il cristianesimo è appena diventato 'lecito' nei
confini dell'impero, con la conseguenza che non vi sono più martiri, e che la
terra non è più irrigata dal loro sangue nutriente e generativo. Nasce la
necessità di una sostituzione, e questa è la vita monastica. Si va nel deserto
alla ricerca di un martirio incruento. Questi uomini, veri giganti dello
spirito, sono degli atleti della mistica, e proprio la loro <i>athlesis</i> li espone al serio rischio di
non aver più bisogno di Cristo, di credere di potersi autoperfezionare e
autorealizzare. E allora ogni tanto giunge qualche donna a ricordare loro che
non c'è compimento, spiritualità, mistica, senza la misericordia di Gesù. Pur
raggiungendo talvolta livelli straordinari di ascesi, rimane chiarissima nelle <i>donne del deserto</i> la grazia femminile
del loro prototipo, colei che siede ai piedi del Maestro ed è tutta nel suo
sguardo e nelle sue parole. Non dobbiamo dimenticare tuttavia che <i>non est masculus neque femina </i>(Gal 3,
28) e che, ad alcuni monaci venuti a visitarla, amma Sarra – una di queste
donne – disse: <i>Io sono un uomo, voi siete
donne</i>. Risposta strana, forse immediatamente irritante, ma se la si coglie
in un epoca in cui la parola uomo alludeva a certe virtù quali la forza,
l’autonomia, il coraggio, l’energia, e la parola donna a limiti quali la
debolezza, la dipendenza, il timore, si capisce che si tratta di una risposta
femminista: per madre Sarra ciò che fa di una persona un uomo (nel senso di
essere umano detentore di quelle virtù) o una donna (recante il segno di quei
limiti) non è certamente il sesso biologico. È da notare che le vite di queste
sante prostitute sono state composte e lette in ambito monastico maschile:
servivano a ricordare a coloro che potevano pensarsi perfetti nelle loro grotte
e nei loro cenobi che senza quello sguardo non c'è ascesi che valga.<o:p></o:p></div>
leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-82573400732651929242017-03-25T13:15:00.000-07:002017-03-25T23:18:57.138-07:00In Annunciatione Beatae Mariae Virginis (con più di sette motivi per
non fidanzarsi con gli dei)<div class="MsoNormal">
Bisognerebbe guardarci bene – noi mortali – dall’interagire
con gli dei e con le dee, e soprattutto dall’avere storie d’amore con loro.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Ci sono due signori colti, un po’ anziani, in visita alla
Galleria Borghese di Roma. Sono fermi davanti al gruppo marmoreo di Gian
Lorenzo Bernini, dove Apollo cerca di ghermire Dafne, ninfa bellissima e figlia
del dio-fiume, <i>Flu</i><i>ß-Gott des Bluts</i>, dove lei cerca di
sottrarsi, e dove il padre-fiume la trasforma in albero d’alloro, ed ecco ha
già un piede radice e le palme foglie. I due signori guardano la statua in
silenzio. Poi passano all’altro capolavoro del Bernini, dove Proserpina figlia
di Giove e della dea delle messi, mentre raccoglie fiori, viene afferrata dal
terribile Plutone signore degli Inferi, e dove lei è come una lepre inseguita
dal cupo cacciatore e dal tricipite cane Cerbero, e dove lui l’ha già presa, e
lei è già sua, e sotto le dita del rapitore cede la carne morbida della sua
coscia, e tutto questo è candido marmo durissimo morbidissimo. Uno dei due
visitatori, con l’accento francese, dice all’altro: “Due capolavori dell’arte
occidentale. E – in effetti – rappresentano due stupri…”<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
L’altro è uno psicoanalista, e ricorda allora che Freud - in
qualche punto della sua sterminata opera - sostiene che una delle funzioni
delle rappresentazioni religiose consiste nel poter attribuire alle figure
divine, notoriamente al di sopra del bene e del male, degli atti che noi vorremmo
compiere, ma non possiamo (perché c’è il super Io e l’etica e le relazioni e la
legge e la polizia e la rispettabilità e insomma queste cose non si fanno).
In realtà , io vorrei prendere la giovane vicina di casa che vedo uscire al
mattino con i capelli color miele e i pantaloni strappati sul ginocchio a mostrarne
la forma perfetta rivestita di pelle dorata, vorrei trascinarla in cantina e
possederla. Naturalmente non <i>posso</i>,
non <i>devo</i>, e la parte più alta e
nobile di me neppure <i>vuole</i> farlo. Ma
il desiderio brado – in me - sogna. E il sogno assume la forma del vecchio
Plutone che è preso di passione per la figlia di Demetra, e – con la potenza
vigorosa e pre-morale tipica degli dei – la conduce nell’abisso dove vive e la
fa sua.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Così fanno gli dei. D’altra parte non ce li vedi – gli Olimpi
(ma neanche i più colorati e polimorfi cugini indiani) – corteggiare l’amata,
mandarle i fiori, portarle i cioccolatini, sedersi sulla panchina del parco a
guardare le stelle, leggerle delle poesie, essere da lei presentato alla
famiglia, frequentare il corso per fidanzati della parrocchia, andare a scegliere
la lista di nozze e le bomboniere di ceramica col cacciatore e il bracco,
sposarsi in chiesa con l’organo che suona l’aria sulla quarta corda di Bach, ricevere i chicchi di riso in faccia, dopo la festa attraversare la soglia di casa con lei in braccio, poi i
preliminari, e poi il sesso del sabato sera. Gli dèi quando toccano, toccano
così, toccano forte (<i>noi arriviamo fin
qui, / questo è nostro, di toccarci così, più forte / ci gravano gli Dei. Ma è
cosa degli Dei</i>, scrive Rilke nella sua seconda elegia di Duino).<i> </i>Gli dei non hanno una psicologia, e
quando desiderano il loro desiderio si trasforma in atto. A noi mortali il loro
comportamento sembra violento, sprezzante, brutale, ma per loro, i celesti
spensierati, non è che la normalità. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Arianna figlia di Minosse, re di Creta, aiuta Teseo a
sconfiggere il Minotauro con la famosa vicenda del labirinto, si innamora di lui
e con lui fugge verso Atene. Tuttavia commette l’errore di rivelare a Teseo l’intenzione
di sposarlo. Credo che le dicerie che vorrebbero Teseo come figlio illegittimo
di Poseidone dio degli abissi marini siano false, perché Teseo si comporta in
questo frangente in un modo che più umano non si potrebbe. Fa sosta a Nasso, e
mentre lei è addormentata, risale sulla nave e salpa via (da cui pare venga l’espressione
‘piantare in (N)asso’. Ridestatasi, Arianna piange tutte le sue lacrime e
invoca la morte. Il mito ha diverse versioni e diversi finali, ognuno dei quali
potrebbe essere esplorato con molto interesse. Hugo von Hoffmansthal – nel libretto
per l’opera <i>Ariadne auf Naxos</i> sceglie
il finale più celebre. Giunge Dioniso, la vede e la desidera, ma nel modo in
cui un dio vede e desidera, e vuol portarla via.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Dice Arianna:<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Lo so, così è laggiù
dove mi guidi!<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Chi là dimora, tutto
presto scorda!<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>La parola finisce ed
il respiro!<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Là è il riposo un
continuo riposo dal riposo –<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i><u>nessuno là si
consuma nel pianto</u>, –<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>dimentichiamo ciò che
ci affliggeva:<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>nulla conta di ciò che
qui contava, lo so.<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
E Bacco soggiunge:<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Se sono un dio, se un
dio m’ha creato,<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>se le fiamme hanno
ucciso mia madre,<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>quando tra fiamme mio
padre le apparve<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>non mi ha toccato la
magia di Circe,<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i><u>perché sono immune,
etere e balsamo<o:p></o:p></u></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i><u>non sangue umano
nelle vene mi scorre</u>.<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Ascoltami, creatura
che ho davanti,<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>ascoltami, tu che vuoi
morire:<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>le stelle eterne
moriranno prima<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>che la morte ti
strappi dal mio abbraccio!<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Ai mortali che si innamorano delle dee non va certo meglio.
C’è Artemide, la saettatrice, che, in una notte d’arsura <i>in opaca silva Gargaphia,</i> depone le vesti e si bagna nuda in un
lago. E c’è il nobile Atteone anche lui a caccia nella selva oscura, con la sua
muta di cani addestrati all’uccisione del cervo. C’è uno sguardo, soltanto uno
sguardo, fra la dea e il mortale: ma è più che troppo. Egli vede ciò che è
oltre la misura di ogni pensiero umano e perde il senno, o lo acquista. E lei,
ilare, come un’adolescente timida e divertita, compie il gesto più innocuo che
si possa immaginare: raccoglie un po’ d’acqua con la mano e gliela spruzza in
volto. Come un gioco benedicente. Ma, sul versante umano, queste gocce assumono
il significato di indignazione e di condanna del sacrilegio, ed ecco Atteone
trasformarsi egli stesso in preda, in cervo, ed essere divorato dai suoi stessi
cani.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
C’è poi da notare che il sesso agli dèi piace moltissimo, lo
fanno abbondantemente senza riguardo ai sentimenti, alle età, ai contesti,
persino alle stesse forme e specie. Ma sembra che piaccia loro un sesso senza
procreazione. Quando devono procreare, lo fanno in modo diverso. Atena esce armata
di tutto punto dal cranio di Giove, Afrodite sorge dalla spuma del mare. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Anche il dio dei deserti, dei pastori e dei fuochi da campo,
il dio che scelse Abramo, Isacco e Giacobbe, non era certo, almeno
inizialmente, un tipo raccomandabile. Oltre a mostrare la consueta <i>divina indifferenza</i> verso la sorte umana,
non aveva neppure la raffinatezza del club degli olimpi. Era sanguigno e scabro
come la terra in cui si aggirava. Gli piaceva l’odore della carne arrostita, e
non credo sia completamente escluso dagli studiosi che abbia domandato a
qualcuno dei suoi primi devoti anche qualche bambino. Si dice anche che abbia
avuto una moglie, Asherah, Grande Madre e Regina dei Cieli. Però, col tempo, è
cambiato. Tutta la narrazione biblica è la storia del suo addomesticamento da
parte degli uomini: lenta, lentissima, e non senza svolte e passi indietro.
Grazie alla relazione con quei pastori, egli ha a poco a poco scoperto di
essere lui stesso il D-o, l’Origine radicale, il Principio e il Destino di ogni
cosa, il Reggitore dell’Universo. Poiché <i>noblesse
oblige</i>, dovette rinunciare a alcuni suoi comportamenti non compatibili:
smettere di essere un giovane e focoso capo militare alla conquista di Canaan e
incamminarsi (forse con un poco di malinconia) verso la trascendenza assoluta.
Ora: il <i>Totaliter Aliter</i> non poteva
godere nello scannare il Gebuseo: quindi perse a poco a poco la primitiva
fisionomia per assumere quella solenne e esangue dell’Antico dei Giorni, e alla
fine si ritirò nel <i>Qadosh ha-Qodashim</i>,
consegnandosi irreversibilmente all’immaterialità e all’irrappresentabilità
(gli rimase tuttavia il gusto della carne arrostita che continuò a esigere gli
fosse arsa davanti: non si può d’altronde pretendere tutto).<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Irreversibilmente irrappresentabile? In un certo senso sì.
Ma a forza di stare insieme agli uomini cominciò a voler loro bene. Si poneva
un nuovo problema: a innamorarsi degli uomini (ovverosia delle donne) non era l’Adunatore
di nembi o Lossia l’arciere o Poseidone signore dei mari, dei terremoti e dei
cavalli. Ora il D-o degli dèi, l’al di là di tutto, l’oltre ogni forma, era lui
ad amare gli uomini, a volerli salvare dalla morte (gli olimpi ne ridevano,
perché non la capivano), a volerli far diventare simili a lui. Per far questo
decise di diventare come loro. E fu incantato, lui D-o reggitore delle galassie
e delle quattro interazioni fondamentali (elettromagnetica, gravitazionale ed
nucleare forte e debole), da una vergine ebrea – avrà avuto sedici anni - che
lo aveva servito nel Tempio fino al menarca, e poi era andata in sposa a un
giusto in Israele. Ma, anziché piombare su di lei come un falco su una tortora,
prese la forma bellissima dell’Arcangelo Forzadiddio, afferrò una verga da
pellegrino (ingentilita poi dai pittori in un ramo gigliato) e andò da lei.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
La tradizione ortodossa – che è più fiorita e immaginativa
della latina, e si rifà ai racconti apocrifi – articola questo incontro in due
differenti scene. La prima vicino a una fontana, dove Forzadiddio cominciò a
sussurrarle di gioire, perché era benedetta: la vergine è spaventata, cerca e
non trova chi le parla così, e corre in casa. Di questo sgomento non c’è
traccia nell’iconografia tradizionale, e il dipinto che più ne rende ragione è
la celebre Annunciazione di Recanati di Lorenzo Lotto. Ma Forzadiddio la segue,
le si inginocchia davanti umilmente, e le dice che avrebbe concepito <i>per la sua parola</i>. <i>Dovrò io concepire per opera del Signore Iddio vivente, e partorire poi
come ogni donna partorisce?</i>. Lui, restando in ginocchio, la guarda e
sorride: <i>No, non così, Maria! Ti coprirà,
infatti, con la sua ombra, la potenza del Signore. Perciò l'essere santo che
nascerà da te sarà chiamato Figlio dell'Altissimo. Gli imporrai il nome Gesù…</i>
Questa volta è la vergine a inchinarsi: <i>Davanti
a lui è la sua ancella. In me si compia la sua parola</i>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Forzadiddio la lascia in fretta, ora deve entrare nei sogni
di Giuseppe il giusto. Nel grembo di Maria, Santo dei Santi non costruito da
mano d’uomo, ma forgiato da D-o stesso, <i>cova
la felicità nuova</i> dell’embrione del Teantropo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<br>
<div class="MsoNormal">
Gli olimpi guardarono silenziosi il corteggiamento divino e
il successivo concepimento. Eros, in particolare, ne fu molto stupito.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiEMSO_2KluHE6zCj5j1RpeksNhmu8huw1IdthZVJCzkKCfH1NtGI8EuOZeFgl37n-sn2LaQ7jtQFn3MJsUyb6VpHjTMm8WmDMuh9P3MglOXD-CzpuE-sA1nTv3j6XL1JjCKmEFGMTPhKMJ/s1600/Annunciazione+Plutone+Proserpina.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="179" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiEMSO_2KluHE6zCj5j1RpeksNhmu8huw1IdthZVJCzkKCfH1NtGI8EuOZeFgl37n-sn2LaQ7jtQFn3MJsUyb6VpHjTMm8WmDMuh9P3MglOXD-CzpuE-sA1nTv3j6XL1JjCKmEFGMTPhKMJ/s320/Annunciazione+Plutone+Proserpina.jpg" width="320"></a></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-45005101597568938132017-03-09T04:52:00.000-08:002017-03-09T23:46:49.771-08:00La Madonna di Medjugorje, san Giuseppe che dorme e altri postini<div class="MsoNormal">
Che a Francesco non piacesse questa cosa delle apparizioni
di Medjugorje, questo lo si sapeva benissimo. Il suo giudizio su di esse è
sempre stato piuttosto sferzante, ai limiti del dileggio. Recentemente, in
un’udienza concessa ai Superiori Generali maschili, è tornato a ironizzare
sulla Madonna <i>capufficio delle Poste</i>
che manda un messaggio al giorno. Curioso semmai è che, nel corso della
medesima udienza, il Papa abbia raccontato come nella sua camera conservi una
statuetta di san-Giuseppe-che-dorme (e che sogna, aggiungo io, soprattutto che
sogna, Giuseppe è nomen/omen di gran sognatori), e come – quando è oppresso da
qualche problema – lui scriva un biglietto e lo metta sotto tale statuetta, in
modo da riposare tranquillo e senza angoscia. Chissà se - sotto qualche cappa,
qualche lana monastica, qualche scapolare, qualche saio – qualcuno dei presenti
si è reso conto di questa deliziosa flagrante contraddizione relativa al
sistema postale (e ai postini) da e per l’Oltremondo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Monsignor Ratko Peric, vescovo di Mostar (la diocesi che
include Medjugorje) adesso riafferma la sua netta contrarietà rispetto a quanto
sta avvenendo tra il brutto chiesone intonacato di bianco e il montarozzo
sassoso di nome Podbrdo. Al netto delle ostilità che da tempo immemorabile
vedono contrapposti clero diocesano e frati francescani – gelosi custodi della
chiesa delle apparizioni – il vescovo così pensa dell’apparizione:<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
- è una
figura ambigua;<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
- non
parla mai per prima;<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
- ride in
maniera strana;<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
- a certe
domande scompare, poi ritorna;<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
- obbedisce
– pur controvoglia – ai veggenti e certe volte addirittura al parroco;<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
- le
tremano le mani;<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
- certe
volte ha con sé un misterioso bambino che alcuni veggenti scorgono e altri no;<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
- da tempo
promette un segno eclatante e irrefutabile, ma non mantiene mai tale promessa;<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
- provoca
svenimenti, nervosismo, e altri fenomeni bizzarri nei veggenti;<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
- certe
volte si lascia perfino toccare – l’espressione è <i>toccamenti scandalosi</i> – non solo sul mantello, ma anche sul suo
stesso corpo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Insomma, conclude il prelato, <i>si tratta di un gioco magico e non del Vangelo di Cristo</i>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Devo ammettere di essere stato una volta a Medjugorje, e fu
quando non era ancora molto famosa, agli inizi degli anni ’80. Ah, io ero così
diverso da come sono adesso – dentro e fuori – che mi sembra davvero di parlare
di un’altra persona. In piedi, nella sacrestia, quando i veggenti caddero in
ginocchio, per quanto mi trovassi vicinissimo non provai alcuna emozione
significativa, anche se non ebbi la sensazione di assistere a una recita. Uno
del nostro gruppo era amico di una delle veggenti: e così trascorsi un
pomeriggio a casa di lei bevendo succo di frutta e tè freddo e giocando nel
giardino. Mi sono preso perfino un secchio d’acqua che la ragazza rovesciò
ridendo da una finestra del piano superiore, il che mi fa appartenere a pieno
titolo al club piuttosto esclusivo degli esseri umani colpiti da un gavettone
di una veggente. Sono salito sulla montagna di notte a pregare: anche lì nulla
di straordinario. Le benedizioni di padre Jozo – con tanto di contorsioni e
svenimenti – mi provocarono invece una sensazione di nausea (e un po’ di
sentore di zolfo), mentre non posso negare che lo schieramento di sacerdoti
confessori sul lato della chiesa, all’aperto, e mai che fossero senza un
penitente genuflesso vicino, fosse una cosa mai vista e piuttosto toccante.
Quanto ai messaggi, già allora erano banalissimi ma innocui, esortazioni
semplici alla penitenza, al rosario, al digiuno, solo leggermente intimidatori.
Niente a che vedere con gli abissi tremendi (e con più di un risvolto politico:
la guerra, il bolscevismo, il nazismo) delle apparizioni di Fatima, o alla
sorgente di inspiegabili guarigioni (nonché conferma di un controverso dogma)
che fu quanto avvenne a Lourdes o alle spaventose vicende de La Salette ("Non riesco più a trattenere il braccio vendicativo di mio Figlio!") che tanto affascinavano il cupo fiammeggiante Leon Bloy. Complessivamente tornai a casa persuaso che,
se non era diabolica, era comunque cosa sciocca e di scarso interesse. Ma
ero giovane. E rigido. E – soprattutto – non ancora mai stato in India. Perché
in India avrei scoperto cose molto importanti.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Per prima cosa ho imparato che il sacro è una materia
viscosa e appiccicosa, è una marmellata di senso che nutre e assieme
impiastriccia. Il sacro è denso e scuro come il sangue, non puro e trasparente
come l’acqua. Il suo contatto provoca nausea e estasi assieme. Il sacro precede
il divino nell’esperienza umana, e – per parafrasare un famoso frammento di
Eraclito – è giorno-e-notte, estate-e-inverno, guerra-e-pace, e muta come il
fuoco quando si mischia ai profumi odorosi, prendendo di volta in volta il loro
aroma; l’uomo ritiene giusta una cosa e ingiusta l’altra, per il sacro tutto è
bello, buono e giusto. Il sacro non è presentabile in società, neanche – e
particolarmente – nelle società religiose, per quanto ciò possa apparire
paradossale, e ciò esattamente a causa di questa sua natura ambivalente e
talora indecorosa e indecente.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
[Excursus: un giorno ebbi l’occasione di ascoltare lo
scrittore e studioso di cultura sarda Bachisio Bandinu. Raccontava di quando –
per dilettare i turisti dei <i>ghetti per
ricchi della costa nord</i> dell’isola – un’amministrazione comunale di una
cittadina molto glamour ebbe l’idea di invitare i Mamuthones, figure terribili
della Sardegna profonda, esito dell’imbestiamento sacro – ottenuto rivestendosi
di maschere, pelli, cinghie e campanacci - in onore di Dioniso o di numi
nuragici ancora più antichi e misteriosi. La speranza era quella di offrire ai
ricchi villeggianti una sfilata di tipo carnevalizio, seppur fuori stagione, e di
fargliela godere in tranquillità, mentre loro sorseggiavano il mirto o il
vermouth nei dehors dei localini à la page. Fino a un certo punto andò bene.
Poi accadde qualcosa di strano: Dioniso, o l’arcaico nume, si rese realmente
presente nei figuranti, e la sua manifestazione esplose in violenza e furore.
Il clima cambiò d’improvviso, non si vide più l’acqua turchese nelle baie dalla
sabbia fine e candida, si velò il sole e il cielo virò nel cupo, addio
porticcioli fighetti con gli yacht e le boutiques con i marchi prestigiosi. L’ira
del dio – o sarebbe più giusto dire la sua misericordia - si riversò nelle strade, rovesciò i tavoli,
spaccò le vetrine. I villeggianti si rifugiarono negli hotel e si chiusero
nelle camere, mentre la polizia cercava di mettere ordine nella disordinata
danza di ciò che era ormai tutto fuorché un carnevale. Non si convoca il sacro
senza esporsi al rischio della sua imprevedibilità, recando sempre con sé il
sacro il suo aspetto perturbante]<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Ma in India ho appreso anche altro. E cioè che esiste tutto
un popolatissimo mondo sospeso tra l’essere e il non essere. In India questo è
facile da capire, perché l’induismo medesimo nasce dall’impatto tra l’astratta,
rigorosa, luminosa, diurna, desertica, sacrificale visione vedica (recata dai
bianchi, nordici, ariani conquistatori provenienti dall’Iran) e i misteriosi
culti dravidici del sud: scuri, sanguinosi, di foresta, di fiumi, di giungla,
di fiere, di notte. Tale scontro geologico-spirituale ha sprigionato un intermondo
multiforme, multicolore, inclusivo, pieno di dei e dee dai mille volti e dalle
centomila braccia, ma ognuno di essi soglia, porta, accesso al divino purissimo
e quintessenziale, senza immagine e forma o dualità. In questo intermondo
l’indiano si muove con disinvoltura sorprendente, non avendo una concezione
digitale (on/off) dell’esistere, ma piuttosto l’esperienza di un continuum
analogico.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Ciò che in India è palese, tuttavia, accade ovunque, e
l’intermondo cristiano – per esempio - è policromo e interessantissimo. Beninteso:
gli abitatori di questo luogo intermedio non sono totalmente assimilabili – non
so – agli archetipi junghiani o all’inconscio collettivo. Essi hanno una forma
di esistenza parzialmente indipendente dalla psiche di chi interagisce con loro
vedendoli, parlandoci, pregandoli, sognandoli, a volte avendoci relazioni
sessuali (come accadeva frequentemente nell’epoca classica in occidente e
tuttora accade in oriente), a volte avendo a che fare con loro in modi ancora
più strani (l’incantevole Gemma Galgani aveva l’angelo custode che le preparava
il caffè, e soprattutto che le recapitava la posta al suo direttore spirituale
(anche qui la posta: ma è più che naturale che gli intermondiali abbiano la
vocazione mercuriale di facilitare le comunicazioni e le connessioni). Essi
sono il frutto di un incontro: Dio soffia sulla ribollente, greve – e talora
malsana - palude del sacro che c’è nell’universo, e il suo soffio anima un’infinità di forme divine che poi vivono tra gli uomini e danzano con loro.
Ma come gli uomini, spiriti incarnati o carni spiritate, non possono
prescindere dalla pesantezza e dalle limitazioni dei loro corpi, così tali
forme non possono interamente liberarsi dalla viscosità carica di ambivalenza
che caratterizza il sacro della cui stoffa son fatte: e questo spiega il senso
di disagio che ci prende quando si manifestano, come se fossimo al cospetto di
qualcosa che non è fatto solo di luce. La più vertiginosa anima mistica del
Novecento, Santa Teresa di Lisieux (e dico del <i>Novecento</i> ben consapevole che ne morì sulla soglia) ottenne da una
di tali forme divine la liberazione da una malattia chiaramente psicosomatica:
la Vergine infatti le apparve e lei fu guarita. Bambina, confidò alle sorelle
che aveva visto. Ma era una bambina dallo spirito lucido e tagliente come una
spada, e fino alla morte ripensò a questo contatto dubitando, soffrendo, perfino
autoaccusandosi di menzogna. Lei cercava altro, e le fu dato: la nudità del Dio
al di là dell’Essere.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Il vescovo di Mostar tenta un <i>mystical profiling</i>: la donna che trema, che ride, che si fa toccare
le membra, che si nasconde, ecco: questa donna non sembra corrispondere al
profilo della Vergine Maria. Che cos’è dunque? Un <i>gioco magico</i>, tuona il prelato, intendendo screditare. Ma il gioco
magico è bellissimo, ed è bellissimo quando Dio fa l’illusionista e gioca con
le forme da lui stesso inabitate per potersi, nel rivelarsi così, nascondere
ancora.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<br>
<div class="MsoNormal">
Nel frattempo questa vicenda creerà un grattacapo al Papa.
Il quale, prima di addormentarsi, scriverà un biglietto con scritto
‘Medjugorje’ e lo infilerà sotto la statua di <i>San Giuseppe che dorme</i>, e lui, abitante dell’intermondo esattamente
come la <i>Vergine che ride</i> , troverà il
modo di occuparsene.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgdc9BlWLVLx1bdzbP29BfNLcYd1GMs15By9i05L8-aTxXjgsh-UUY2tkydWMbyS7fu4Srk2HOwRQtMS8zRxrNx3uUvWSfn4JIrJoL1qswEW_NrWIZ1aGgioNJO4ZGw4oOoh2_Gm_maUGss/s1600/blog+medjugorje.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="179" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgdc9BlWLVLx1bdzbP29BfNLcYd1GMs15By9i05L8-aTxXjgsh-UUY2tkydWMbyS7fu4Srk2HOwRQtMS8zRxrNx3uUvWSfn4JIrJoL1qswEW_NrWIZ1aGgioNJO4ZGw4oOoh2_Gm_maUGss/s320/blog+medjugorje.jpg" width="320"></a></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-56969122172583905992017-02-09T13:16:00.000-08:002017-02-09T13:16:02.700-08:00Non solum in memoriam. Sed in intentionem.<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
<span style="font-size: large;">Massimo Papini</span></div>
<div style="text-align: center;">
22 giugno 1942 - 7 febbraio 2017</div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
DOLORE IGNOTO</div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
Poggio</div>
<div style="text-align: center;">
sul mio dolore</div>
<div style="text-align: center;">
invisibile,</div>
<div style="text-align: center;">
ignoto</div>
<div style="text-align: center;">
come</div>
<div style="text-align: center;">
rossa la vela sul suo vento.</div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
POCO A POCO</div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
guarisco lentamente della notte</div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
CREPUSCOLO</div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
L'ombra scompare</div>
<div style="text-align: center;">
prima della luce</div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
PROMESSA</div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
Notte senza attesa di sole.</div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
Al bambino nel buio</div>
<div style="text-align: center;">
sugli scalini dell'immenso</div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
intatta nel cielo senza lacrime</div>
<div style="text-align: center;">
l'universo promise</div>
<div style="text-align: center;">
la curva lieve delle stelle dell'Orsa.</div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
[da <i>Estenuante memoria del corpo</i>, 1997]</div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgavUaToxTBAE-3CfBhh5hRbknDO6FyZcd9cA0dwrxhrT6RJoVuDKzcygySbvvQQNTV6YRM_DYo4W8QSl-C6lmRkhB0aO6Fp23gmqJIs8ILeMQtdzo3qjVWrY02XQnLnstA6cfBdN2-RHMC/s1600/papini+estenuante+memoria+del+corpo.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgavUaToxTBAE-3CfBhh5hRbknDO6FyZcd9cA0dwrxhrT6RJoVuDKzcygySbvvQQNTV6YRM_DYo4W8QSl-C6lmRkhB0aO6Fp23gmqJIs8ILeMQtdzo3qjVWrY02XQnLnstA6cfBdN2-RHMC/s1600/papini+estenuante+memoria+del+corpo.jpg" /></a></div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-79835305831161081982017-01-16T04:37:00.000-08:002017-01-16T12:21:03.120-08:00Silence: verità, misericordia, e putrefazione di Dio<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
J</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhVhVjO24B0O-nZeYw4w8Z5V66es_-NtV4QZKHyqw_QPBYSPQ_Eut-I25CpHHKVVhK01rk6CguWMoaOUeyxDxHqZVuu1JWq7OpfMb57pag6lS8EMIJDCXko2akiudJNcNtrJUD-FzOqk6rr/s1600/garrpe+gutierrez.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="212" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhVhVjO24B0O-nZeYw4w8Z5V66es_-NtV4QZKHyqw_QPBYSPQ_Eut-I25CpHHKVVhK01rk6CguWMoaOUeyxDxHqZVuu1JWq7OpfMb57pag6lS8EMIJDCXko2akiudJNcNtrJUD-FzOqk6rr/s320/garrpe+gutierrez.jpg" width="320"></a></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Non credo che i due giovani gesuiti protagonisti di <i>Silence</i>,
l’ultimo film di Martin Scorsese - l’uno
(Rodriguez) fulvo e della mascella volitiva, l’altro (Garrpe) scavato e già quasi
nipponiforme, come plasmato dal suo desiderio, entrambi coi corpi
atletici/ascetici stretti nella talare nera e il fuoco che divampa negli
occhi – pensassero ai sei modi di evangelizzazione della Chiesa elencati dal
Cardinal Martini in una lettera pastorale degli inizi degli anni ’90 (ossia per
<i>proclamazione</i>, per <i>convocazione</i>, per <i>attrazione</i>, per <i>irradiazione</i>,
per <i>contagio</i>, per <i>lievitazione</i>) quando, nelle prime scene,
chiedono, pretendono e alla fine ottengono dal Provinciale Alessandro Valignano
di partire dall’India per il Giappone. Sapevano che in quel paese ai confini
del mondo la situazione per i cristiani era cambiata, che era in corso una
feroce persecuzione, e che del loro antico e amato maestro e mentore (Ferreira)
non si avevano notizie se non che forse aveva abiurato. Come segugi della fede,
fiutavano odore di oriente, di avventura, di sangue, di eroismo e di martirio.
Bastava.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Non credo che avesse chiare le sei modalità neanche quell’infaticabile
errabondo di Dio che ebbe nome Francesco Saverio, e che cinquant’anni prima si
stremò nelle Indie – tanto che il braccio gli doleva a furia di amministrar
battesimi e la gola gli bruciava per le continue recitazioni del Credo ai
neofiti – che si spinse poi fin nelle Molucche e nella Nuova Guinea, ma il cui
vero, autentico amore fu il Giappone, furono i giapponesi, da lui ritenuti il
popolo migliore del mondo, per poter predicare ai quali corteggiò nobili e
principi fino al Celeste Sovrano, e al fine di rendere ancor più efficace tale
annuncio – visto che i giapponesi non ritenevano potesse esistere una dottrina
giusta non accolta dalla Cina – poi partì per la Cina e vi morì sfinito dalla
febbre, indomito, lui a cui neppure il Padre e Maestro Ignazio riuscì a mettere
briglie e finimenti, e a destinarlo a incarichi non di prima linea.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Semplicemente, questi uomini erano persuasi di portare una
verità di tipo tutto speciale. Non (solo) un pacchetto di nozioni su Dio,
intendiamoci: ma una verità capace di salvare l’uomo e portarlo in Cielo. Una <i>veritas saluti necessaria</i>, per dirla con
l’Aquinate. Al fine di poterla comunicare anche a una sola anima erano pronti a andare non solo all’altro capo del mondo, ma su Marte, qualora si fosse trovato
il vascello adatto, perché per quell’anima erano in gioco vita e morte (eterne):
<i>Qui crediderit et baptizatus fuerit
salvus erit, qui vero non crediderit condemnabitur</i> (Mc16,16). Poi, quando
ci saranno le astronavi, la missione verso gli alieni sarà certamente più
simile, invece, a quella descritta dall’olandese Michel Faber nel bellissimo
libro di fantateologia <i>Book of Strange
New Things</i> (2014), ossia problematica, dubbiosa, estenuata: ma questa è un’altra
storia. Anzi: è la stessa.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Al tempo degli eventi immaginati nel film, in Giappone
furoreggiava appunto la persecuzione del periodo Tokugawa. La comunità
cristiana, che aveva raggiunto il ragguardevole numero di trecentomila anime, e
che comprendeva anche anime illustri (si pensi che – al tempo di Toyotomi
Hideyoshi, ossia pochi decenni prima, lo stesso sommo Maestro dell’arte del Tè Sen
No Rikyu, vertice della raffinatissima cultura zen, fu sospettato di essere
cristiano). Insomma, il cristianesimo andava abbastanza di moda, era abbastanza
<i>cool</i>. Ma gli Shogun sospettavano i
cristiani – e in particolare i gesuiti – di intrigare con l’Imperatore ai loro
danni; si accorgono che Olanda, Portogallo, Inghilterra e Spagna – le ‘quattro
concubine bellissime’ dell’uomo saggio Giappone – litigano fra loro per il
primato e il saggio potrà cacciarle e tornare in pace: non così potrà fare con
la ‘donna brutta’ ossessionata dall’amore per lui, presa in un attrazione
fatale per lui, ossia il cristianesimo; quella dovrà ucciderla, per sposarsi
infine con una donna del suo paese, che lo capisca. C’era inoltre stata la
grande ribellione Shimabara, guidata dal giovane samurai cristiano Shiro
Amakusa, e conclusasi nel massacro di oltre quarantamila convertiti.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Giunti sulle coste occidentali del Giappone meridionale, i
due gesuiti vengono in contatto con comunità clandestine e catacombali di
cristiani (<i>kirishitan</i>) di villaggio.
Poverissimi e fervidissimi, i contadini si sono organizzati senza sacerdoti e
quindi senza sacramenti. C’è un capo (<i>Jisama</i>)
che amministra l’unico sacramento possibile, il battesimo, ai bimbi, ci sono
dei catechisti che insegnano le pochissime parole in portoghese storpiato, ci
sono riunioni di preghiera davanti a immagini sacre cesellate nel legno, c’è
soprattutto la carità fraterna e la possibilità di morire in ogni momento. Per
il resto è una specie di marranismo al contario: tutti pagano le tasse, onorano
i Buddha nei templi, e vivono la loro vera fede soltanto nelle nebbie notturne
(il film qui ha una profusione di bellissime inquadrature caravaggesche). Il
loro timore è che venga un mitico inquisitore a metterli di fronte alla scelta
di calpestare un’immagine sacra o essere uccisi. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhqGYX0pHT0bY9Vd2MM6lXc1C6u3qQzo6vklGI_ZeebtceAnLRsgb8QtxNwPuNq3b52a9fRZARfkaucxJxg52A0tgha40ajo-5_fsfwUGdp9yB1Cgqc2ClTETqHXY0uCyn2ZOFJgk14K9cB/s1600/silence.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="237" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhqGYX0pHT0bY9Vd2MM6lXc1C6u3qQzo6vklGI_ZeebtceAnLRsgb8QtxNwPuNq3b52a9fRZARfkaucxJxg52A0tgha40ajo-5_fsfwUGdp9yB1Cgqc2ClTETqHXY0uCyn2ZOFJgk14K9cB/s320/silence.jpg" width="320"></a></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
I nostri due sono colpiti ed edificati dal fervore di queste
comunità (è deliziosa la scena in cui, dopo aver condiviso delle aringhe
salate, i preti si gettano sul cibo mentre i giapponesi piamente si fanno prima
il segno della croce: <i>Benedic, Domine,
nos et haec tua dona quae de tua largitate sumus sumpturi</i>) ma è evidente
che il nascondimento non soddisfa la loro sete di eroismo. L’uscire dal
nascondiglio per loro preparato innescherà una serie di eventi che porteranno
infine al manifestarsi del leggendario inquisitore.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Questa è – a mio avviso – la figura più riuscita. La sua
fama terribile di Torquemada buddista si implementa in realtà in un vecchietto
artritico, intollerante al sole, al caldo, alle mosche, e con una vocetta
sfalsettante (nella versione inglese Scorsese ha usato per lui la voce dei ‘vecchietti
da film western’, tipo <i>How’dy Pa’t’ner</i>).
Alla sua crudelissima raffinatezza, fatta di spettacoli di terrificanti torture
unita a dialoghi teologici sottolineati dal vibrare di ventagli di carta di
riso, il film affida la trasformazione del vero protagonista, il giovane Rodriguez.
L’altro, Garrpe, ha in sorte una fine tutto sommato più semplice e bella:
mentre alcuni cristiani giapponesi vengono fatti salire su una barca per essere
gettati in mare legati in stuoie di
paglia, riesce a sottrarsi a chi lo trattiene, si slancia in acqua, li
raggiunge a nuoto, e muore annegato anche lui, abbracciato a una bambina
neobattezzata con la quale si inabissa nell’azzurro. Sembra strano, ma in quel
momento lo si invidia.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Quattrocento anni dopo, un Pontefice Romano di nome
Benedetto (e al Pontefice Romano i gesuiti fanno voto speciale di obbedienza <i>circa missiones</i>) dirà che la Chiesa non
fa proselitismo, ma cresce per attrazione (omelia della Messa di inaugurazione
della V Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano, Aparecida, 13
maggio 2007). Ancora vivente Benedetto (dopo aver compiuto l’atto più
postmoderno della storia, ossia dimettersi da <i>Pater Patrum</i>, atto che nessun padre carnale di figli carnali
avrebbe mai il cuore e il diritto di fare) il suo successore Francesco
radicalizzerà questa affermazione a più riprese: in interviste al laico
Pontefice Scalfari dirà che il proselitismo è una solenne sciocchezza (2013, su
Repubblica) e che addirittura esso è peccaminoso, è un atteggiamento
peccaminoso (intervista a Ulf Jonson, in occasione del suo viaggio in Svezia). <i>Attrazione</i> – beninteso - è una delle sei
modalità individuate dal gesuita padre Martini.<o:p></o:p></div>
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Chissà che cosa ne avrebbe pensato Garrpe mentre moriva
affogando assieme alla sua neofita. Posso però dire che cosa ne penso io. E
penso che il disprezzo del proselitismo non mi piace, ma è inevitabile. La
verità – <i>bongré malgré</i> – non siede
più sul trono dei beni, non è più il bene più alto. Io stesso sono pieno di
orrore nel pensare a un mondo tutto romano cattolico, un luogo in cui a Roma,
New York, Delhi, Beijing, Tokyo, Nairobi, Teheran, Tel Aviv tutte le mattine
delle figurette vestite di rosso o di verde o di bianco salgano sull’altare a
dire <i>In nomine Patris</i>… e innalzino
piccoli dischi di pane azzimo, e che questa sia la modalità dell’esperienza
religiosa di tutta l’umanità. Io non potrei vivere in un mondo dove il Signore
Krsna non danzi con le pastorelle al suono incantato del suo flauto, in cui i
minareti non piangano gli appelli alla preghiera all’Unico e al Più Grande, in
cui monaci vestiti di zafferano non vivano secondo gli insegnamenti del Sublime
Gautama, in cui misteriose forze animiche non ruggiscano nelle foreste
africane, in cui fanciulle e madri non accendano al venerdì sera le due luci
del santo Shabbat. Non soltanto sono d’accordo con Simone Weil quando dice che
non darebbe venti soldi per un’opera missionaria e che per un uomo cambiare religione
sia pericoloso quanto per uno scrittore cambiare lingua, e quando afferma l’assurdità
di obbligare le persone a rinnegare ciò che per i loro padri è stato sacro per
millenni e adottare come libro santo la storia di un piccolo popolo a loro
sconosciuto (Lettera a un religioso, 1951), ma sono persuaso che la <i>teodiversità</i> sia l’unica possibilità per
rendere sostenibile all’uomo l’esperienza religiosa. Ciò significa che per me,
Benedetto XVI e Francesco I non avrebbe senso partire dal Portogallo per
convertire un giapponese, e che anzi in qualche modo questo potrebbe perfino
integrare una colpa religiosa. Ciò significa che io, Benedetto XVI e Francesco
I abbiamo un’idea di verità che non corrisponde irreversibilmente più a quella
che era nelle menti e dei cuori del vero Saverio e degli immaginati Garrpe e
Rodriguez. Dici poco. Che la abbia io, quest’idea, non conta nulla, ovvio. Ma i
due Papi. E la stragrande maggioranza dei cristiani sul pianeta. Insomma.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
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E tuttavia non è il relativismo religioso dell’inquisitore
Inoue a trasformare Rodriguez. Egli vi resiste testardamente (e un po’ sbiaditamente,
dal punto di vista teologico). Il relativismo non è la causa, ma sarà un
effetto della sua trasformazione. Il giovane religioso incontra alla fine il
suo antico maestro Ferreira, malinconicamente ormai integrato nella società dei
letterati giapponesi: non solo ha effettivamente e formalmente abiurato più
volte, ma ha moglie e figli e un nome giapponese. Passa il tempo nei templi
scrivendo libri di astronomia e scienze naturali, nonché un elenco di errori
del cristianesimo intitolato ‘Gengiroku’ (<i>Inganno
rivelato</i>). E’ convinto che i fervidi contadini incontrati dai due preti all’inizio
del loro incontro fossero in realtà dei superstiziosi, e che la loro devozione
a immagini e parole cristiano-portoghesi fosse infinitamente distante dalla
fede in Cristo. E ha visto che c’è chi muore martire per la fede, ma
molto di più ve ne sono che muoiono a causa di superstizioni, nella speranza di
un <i>Parais</i> privo di tasse, fatica,
sfruttamento e signorotti. Conclude che non ne vale la pena, e rifiuta la
testardaggine con cui la Chiesa si ostina a predicare il Vangelo in Giappone
provocando solo il versarsi di sangue giapponese. Ma, ancora, Rodriguez resiste, non è convinto.<o:p></o:p></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiWP40ujEjEUaVKNz-BXZNBx1cEL3JiPlzOlmWogMsvc_y-vAeFLsNHOGh6-PBjSSBsBuF_CEkdlgm_6OWcaJSxwW1yE_neJZ9IXH12aieq9ti3oDUk5JW15upXSMoBY3Hn0J193WlXdi7B/s1600/el+greco+ges%25C3%25B9.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiWP40ujEjEUaVKNz-BXZNBx1cEL3JiPlzOlmWogMsvc_y-vAeFLsNHOGh6-PBjSSBsBuF_CEkdlgm_6OWcaJSxwW1yE_neJZ9IXH12aieq9ti3oDUk5JW15upXSMoBY3Hn0J193WlXdi7B/s320/el+greco+ges%25C3%25B9.jpg" width="225"></a></div>
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Il problema, per Rodriguez, è il silenzio di Gesù, il suo
ostinato tacere davanti al massacro dei suoi. Come possa tacere di fronte alla
bimba gettata in mare perché battezzata, al vecchio esposto per giorni alle
spaventose ondate dell’oceano, al sacerdote legato al palo e cosparso di acqua
bollenti con piccoli mestoli forati che ne ritardassero la morte aumentando la
sofferenza delle ustioni. Questo silenzio lo strazia. L’immagine del volto di
Cristo di El Greco – da lui custodito nei pensieri e negli affetti come un
innamorato fa col volto dell’amata – è terribile nel suo mutismo. Vuol dire che
è morto? La persecuzione giapponese come Auschwitz, lo stesso silenzio
impotente, e Rodriguez si aggrega a Primo Levi e Paul Celan. Si può pensare Dio
dopo Auschwitz? Siamo di fronte il problema dei problemi. Elie Wiesel se lo
chiede di fronte alla prolungata agonia di un ragazzino tredicenne impiccato
nel campo di sterminio, <i>l’angelo dagli
occhi tristi</i>, si chiede dove sia Dio, e sente una risposta: “Dio sta
morendo su quella forca”.<o:p></o:p></div>
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E’ il <i>venerdì santo
speculativo</i> di Hegel, dal quale ancora non siamo affatto usciti. Non è
soltanto il tragico, feroce e vitale annuncio dello Zarathustra di Nietzsche,
non è solo la solenne, sognante e gotica proclamazione del Cristo morto di Jean
Paul (Johann Paul Friedrich Richter) che dall’alto dell’edificio del mondo annuncia a tutti che non vi è alcun Dio (“Siamo tutti orfani, io e voi, senza
Padre”), non è solo l’affilato ateismo dei filosofi analitici oxoniensi degli
anni ’50 (cosa fa un padre umano se vede un figlio ammalato di cancro alla gola
e potrebbe guarirlo? lo fa, altrimenti non è padre; dunque dire che Dio è padre
non ha alcun senso, e se lo si dice si condanna la parola <i>padre</i> a non avere alcun significato, con buona pace dell’analogia),
non è solo la confessione della moglie del missionario interplanetario del
romanzo di Faber (“Non c’è nessun Dio che agisce in modi misteriosi, nessun Dio
che persegue chissà quale sublime obiettivo… Mi sono illusa”). Non solo questo.
Siamo noi che lo viviamo, il venerdì santo senza Pasqua. Davanti al puzzo della
morte, di ogni morte, e davanti all’orrore del silenzio perdurante di un Dio
che non può avere scuse se non perché Egli stesso morto.<o:p></o:p></div>
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<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
E allora ci saranno le riflessioni dello stesso Wiesel, di
Hans Jonas (<i>Des Gottesbregriff nach
Auschwitz</i>), di tanta parte della teologia del novecento. La teologia dopo
la morte di Dio: ma essa non basta a uscire dal terribile venerdì del pensiero.
Dio è morto, va bene, ma non risorge affatto “in ciò che noi vogliamo e
crediamo”, come cantavano Guccini e i Nomadi negli anni ’60. Anzi, c’è – in tutto
il suo immenso, prepotente ingombrare – il suo cadaverone disteso sul mondo e
sulla storia. Che ne faremo? Articoleremo un’azione sociale, un’attitudine
misericordiosa, rizzeremo un ospedale da campo per i feriti del cuore e dell’anima,
e tutto questo <i>etsi deus non </i>daretur?
Intanto – come ha detto recentemente il cardinale guineano Robert Sarah – i fedeli
disertano le Chiese sopraffatti dal fetore del Dio morto (io non credo che mai
un’espressione più drammatica e significativa sia stata pronunciata da un’autorità
religiosa cristiana dell’epoca moderna).<o:p></o:p></div>
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Una notte, nella prigione, Rodriguez sente gemere e russare.
“Come fa questa guardia a russare mentre il prigioniero soffre!” si indigna. Ma
nessuno russa. Sono quattro cristiani condannati alla ‘fossa’, ossia avvolti in
un sacco e appesi a testa in giù in un buco, con una ferita sul collo che
impedisce che il sangue alla testa li faccia svenire e in attesa di una morte
lentissima e dolorosa. “Se lei abiura”, dice il carceriere giapponese “saranno
immediatamente liberati”. Viene posta davanti a lui l’immagine del Cristo da
calpestare. “Cosa farebbe Cristo se fosse al suo posto?”. Ferreira è al suo
fianco, lo incoraggia: “Ora compirai l’atto d’amore più doloroso che sia mai
stato fatto…” E – finalmente – Gesù stesso, il Gesù di El Greco, parla:”Calpesta!
Calpesta! Io più di ogni altro so quale dolore prova il tuo piede. Io sono
venuto al mondo per essere calpestato dagli uomini!”. E Rodriguez calpesta, in
uno straordinario gesto che è anche assieme capovolgimento, prostrazione e
bacio. Si crocifigge alla sua abiura nel nome della misericordia: che –
compiutasi finalmente la trasformazione – siede sul trono del bene supremo,
prima occupato dalla verità.<o:p></o:p></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhMjjhFCAb0HqlaQSeeznUiCiJYyiW9mxSnueiA6lxG88cUxb02vGihhs9UvJjrfgMndxrgK5NKkGzywS4jC5KfbTYfUsKB8PBMLB4o227lMhyphenhyphen0qL3xFnsfAZadm09NPYAGh5zeDI0XPyUi/s1600/fossa.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhMjjhFCAb0HqlaQSeeznUiCiJYyiW9mxSnueiA6lxG88cUxb02vGihhs9UvJjrfgMndxrgK5NKkGzywS4jC5KfbTYfUsKB8PBMLB4o227lMhyphenhyphen0qL3xFnsfAZadm09NPYAGh5zeDI0XPyUi/s1600/fossa.jpg"></a></div>
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Diventato un secondo Ferreira, con nome giapponese, moglie e
figli, abiurerà ancora molte volte con meno drammaticità e più scioltezza.
Verrà utilizzato dai giapponesi per evitare che le navi europee introducano in
Giappone oggetti cristiani. E, dopo la morte, sarà cremato da buddista, anche
se la moglie farà segretamente scivolare fra le sue mani un crocifissino di
legno intagliato e a lui donato dai primi – superstiziosi – contadini cristiani.<o:p></o:p></div>
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Ci sarebbe anche da dire della figura niente affatto
secondaria del debole Kichijiro, a tutti gli effetti un Giuda seriale che
tradisce e poi chiede perdono e poi tradisce e poi chiede perdono e poi ancora
e ancora. Chissà, forse è la vera soluzione del tragico enigma del film.<o:p></o:p></div>
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<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Ah, comunque, il gesuita Hubert Cieslik, in <i>Monumenta Nipponica </i>(1974) sostiene che
il personaggio ‘vero’ della storia, padre Cristovao Ferreira, abbia alla fine
della sua vita ritrovato la fede, l’abbia confessata pubblicamente e sia morto
martire. A Nagasaki. Dove, 312 anni dopo, per una questione meteo che impediva
la visibilità della città di Kokura, fu dirottato (in qualità di obiettivo
secondario) il B29 americano che vi sganciò sopra <i>The Fat Man</i>, il grassone, nome dato alla bomba contenente 6,4 chili
di plutonio-239, e che sterminò quasi centomila persone – tra cui alcuni
sopravvissuti al bombardamento di Hiroshima. E anche in quel caso non sembra
che gli dèi (d’oriente e d’occidente) abbiano alzato la loro voce.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
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<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Sono andato a vedere Silence non appena il film è uscito
nelle sale, ossia il venerdì 13 alle 14.50 al cinema Odeon di Milano. Pensavo
ci fosse folla, invece eravamo una ventina. Tutti solitari, tutti senza un
compagno o una compagna di visione. Accanto a me: a sinistra era seduta una
signora che riceve una telefonata prima che inizino le anteprime e sussurra
concitata di essere al lavoro e di non avere tempo per parlare, e che alla fine
mi ha chiesto <i>Le è piaciuto il film?</i>
e io le ho detto <i>Non tanto</i>; a destra
una ragazza bruna con i capelli lisci e lunghi, che succhiava un <i>chupa chups</i>, e che non ha mai cessato –
durante tutto il film – di guardare il suo Iphone, nascondendone la luce rosata
sotto il cardigan bianco di pizzo e creando un effetto niente affatto
spiacevole da paralume liberty. Uscito all’aria aperta mi accolgono da un
negozio di Corso Vittorio Emanuele le parole di una canzone dell’ultimo album
dei Baustelle:<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
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<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<i>Betty / ha provato di
morire / sulla circonvallazione / prima ancora di soffrire / era già in
putrefazione / un bellissimo mattino / senza alcun dolore / senza più dolore.<o:p></o:p></i></div>
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<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Un bellissimo mattino senza più dolore.<o:p></o:p></div>
leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-86748016203227533152016-01-30T01:04:00.000-08:002016-01-30T01:04:20.119-08:00Aniconostasi. Storia di cartongesso e di sguardi divini.<div class="MsoNormal">
Detesto l’indignazione.
E’ un sentimento che io non conosco, e che negli altri mi irrita. Presuppone
forse l’avere una dignità da difendere, e io non credo di disporne: ma anche
negli indignati – mi si perdoni – questa è spesso presunta, auto conferita, se-dicente,
se-urlante.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Detesto l’indignazione:
quanto più è collettiva, condivisa, più la detesto. Mi indigna l’indignazione.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Ora, in questi giorni
un’indignazione sta mettendo d’accordo tutti: dal Manifesto al Foglio, dai
Radicali ai Fratelli d’Italia, e in mezzo tutto il benpensare, il benstampare,
il benpostare, il benparlare, il
bentwittare, il bengridare. Hanno coperto con grigi pannelli di cartongesso le
statue nude del Museo Capitolino in occasione della visita del Presidente della
Repubblica Islamica dell’Iran Hassan Rohani. I mondi reali e virtuali
sogghignano, e in Italia si scarica il barile, ci si libera della patata
bollente, si scarta la Peppa tencia, si passa l’uomo nero: Il Presidente del
Consiglio, il Ministro dei Beni Culturali, i responsabili del protocollo italiani
e iraniani; si smarca con eleganza lo stesso Rohani. Cadrà alla fine una testa
di chissà chi, ecco che cade, è già caduta, a soddisfazione di coloro che hanno
visto in questo gesto un inizio di <i>soumission</i>,
di coloro che hanno subodorato il subordinare la cultura agli affari, di coloro
che comunque così non si fa, che <i>sourtout
pas trop de zéle.</i> <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Chissà cosa rappresenta
per voi l’Iran, la favolosa Persia. A me viene in mente una scaturigine di
luce, uno sprigionarsi di vita e di avventure umane. Sospetto che quasi tutto
quel che sono venga da lì, con lo spargersi nel mondo degli arii, i nomadi
guerrieri bianchi recanti nell’anima l’idea del Sacrificio, del Sole, del
Fuoco. Non perdonerò mai a un caro amico di avere visitato l’Iran prima e senza
di me; gli perdono invece, perché mi portò tanti bei racconti, compreso quello
della sua interiore adesione al Mazdeismo, che lo conquistò – mentre il sole gli
faceva fiammeggiare attorno l’aria - ai piedi delle Torri del Silenzio: dove i
corpi dei fedeli venivano esposti al cielo e agli avvoltoi, non potendo gettare
la morte nel Fuoco, che è vita e purezza. Questo è l’Iran: una sorgente da cui in
tempi immemorabili, sotto un cielo limpido e astratto, è sgorgata la goccia che
sono. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Aryamehr</i>, Luce degli Ariani, era uno dei titoli di cui si fregiava il Re di Persia,
<i>shah an shah</i>, il Re dei Re. Contro di
lui si levò il Segno di Dio (<i>Ayat Allah</i>)
Ruhollāh Mostafāvī Mōsavī Khomeynī, il
terribile, e terribile era: ma il popolo seguì quel segno. Fu la grande Rivoluzione
iraniana. Qui da noi accadeva un’altra rivoluzione, fatta di giovinezza, di
languidi sogni, di rovesciamento di regole, di fantasia al potere, di libero amore,
di esilio delle verità, anche se non mancarono certo il piombo e la morte. Ma
in Iran il vecchio imam dagli occhi incredibili divenne voce di un dio giovane
e sanguigno che, da lui evocato, piombò sulla Persia, fece impazzire le menti e
incendiò i cuori. Si lasciò dietro una lunga scia di sangue: le anime belle e
bellissime possono anche protestare, ma questo accade sempre quando le giovani
divinità si scaraventano nel mondo degli uomini. Chiedetelo al cananeo, quando
si vide venire contro l’Arca dell’Alleanza circondata dall’ululato degli
shofarim. Chiedetelo al sassone, quando vide levarsi la spada lampeggiante e
cristiana di Carlo il franco. Beninteso, il dio, di queste cose, non sa nulla:
cosa vuoi che conti una vita umana per colui che gioca con le galassie. Lui è
come un puledro, fresco di sudore sui muscoli guizzanti, al galoppo nei prati:
non si cura certo dell’insetto che finisce calpestato sotto i suoi zoccoli. Gli
dicessero: “Sei malvagio!” si stupirebbe, morte e vita per lui pari son, come
piacere e dolore, luce e tenebra, bene e male: sono i passi della sua danza. Ma
ciò che è ilare e giocondo per il dio si muta in tetra follia nell’uomo: il
vecchio imam tradusse con parole morte un vortice di vita, trasformò in leggi
costrittive e spietate un richiamo di libertà. E tuttavia la folla follemente
amò il feroce mediatore: quando morì tale fu l’impeto della devozione che la
bara cadde cinque volte, tante quanti sono i tempi della preghiera, e
altrettante volte fu sbalzato cadavere dalla bara lui, che la sua gente non
voleva lasciare involarsi nel <i>firdaws</i>.
<o:p></o:p></div>
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<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Fatto è che da quei
giorni, in Persia, cessò di sfolgorare più il Sole degli arii, ma scintillò la
lama lunare del Profeta e del giovane dio, Il-Dio.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Nel frattempo – e da
tanto tempo – i nostri vecchi dèi già prendevano congedo. E fra loro metto
anche il Dio-Uomo, il Cristo, che veniva chiamato dai poeti “la troppo umana
favola”. HaShem se ne era andato da un
bel pezzo. Come gli elfi di Tolkien, essi passavano il mare occidentale,
silenziosi, sorridenti appena, malinconici forse, per andare dove non-si-sa.
Lasciarono una terra disseminata di immagini, di architetture, di canti a loro
dedicati, commoventi e bellissimi. Lasciarono una civiltà ben compaginata, come
si produce quando gli dèi incanutiscono e ingentiliscono. Lasciarono una
multicolore tavolozza di valori. Lasciarono talmente tanti doni che noi non ci
accorgemmo che loro – i donatori – se ne erano ormai andati. Non credemmo più.
Anche quelli che credevano, non cedettero, e quelli che oggi credono, non
credono in effetti: tutto fu e rimane solo <i>storytelling</i>.
Jean Paul il sognatore ci narrò in gotico romantico di come il Cristo stesso,
dopo aver errato per i cieli e visitato tutti i mondi, dichiarò gli uomini
costitutivamente orfani, che non c’era alcun Padre, che la sete di infinito non
sarebbe mai stata saziata. E la morte di Dio ce l’annunciò proprio l’iranico
Zoroastro, Zarathustra, per il tramite del tragico pensatore teutone che lo
incontrò sul lago di Silvaplana. Ah, è rimasta certo la bontà, la saggezza, la
giustizia. E’ così sempre: quando il dio Nilo è vivo, collerico, giovane e
presente, egli distrugge le case, devasta i campi, annega gli uomini; ma
quando, stanco, si ritira nel suo letto lascia una terra nera e fertile, pronta
ad essere coltivata. E questa terra fragrante di valori noi la coltivammo,
seppure – ingegnosi– ci inventammo utensili e aratri meccanici che la
sfruttarono fino a violarla forse, tanto da farci pensare che forse la tecnica
ci stava prendendo la mano e ci interrogammo (ci interroghiamo) sul da farsi.
Essendo il cielo vuoto, però, non sappiamo a chi chiedere, e ci arrangiamo da
soli. Facciamo del nostro meglio. Fuori <i>the
night is dark and full of terrors</i> e noi due orfani ci stringiamo nel letto
e facciamo ipotesi sui misteriosi rumori («Io sento rodere, appena... » «Sarà
forse un tarlo... » «Fratello, l'hai sentito ora un lamento lungo, nel buio?»
«Sarà forse un cane... » «C'è gente all'uscio... » «Sarà forse il vento... »);
rimpiangiamo la luce rassicurante della stanza materna, anche se «noi siamo ora
più buoni... » «ora che non c'è più chi si compiace di noi... » «che non c'è
più chi ci perdoni». Scriviamo la Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo, proteggiamo le minoranze, istituiamo il welfare, la sanità malgrado
tutto è buona e l’attesa di vita aumenta. Ma il rodere interiore che sentiamo,
sarà forse un tarlo?, noi non lo sappiamo. Non lo sapremo più. E comunque
meglio stare in pace, non essendoci più chi possa perdonarci.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Ci piace, e ci consola,
la bellezza. Ascoltiamo i Vespri della Beata Vergine di Monteverdi sulle
poltrone rosso-vellutate dei teatri, ammirandone la polifonia arditissima, le
acrobazie vocali dei sette solisti, ma non pensando certo alla Beata Vergine. Ci
delizia la raccolta, languida e tonica assieme, rotondità delle forme della
Venere Capitolina di Prassitele, ma non offriamo libagioni alla terribile dea,
né certo fremiamo di indignazione nello spirito alla vista dell’idolo, come san
Paolo in Atene, tantomeno lo sfidiamo ordalicamente come avrebbe fatto il
profeta Elia. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
La Venere Capitolina,
appunto. Avevo cominciato con l’indignazione. Dunque: uno dei successori
dell’imam terribile arriva a Roma in visita ufficiale, accolto dal Papa in una
sala bellissima piena di affreschi di nudo, poi dalle Autorità civili. Tra i
mille modi possibili per evitare imbarazzi all’ospite – che, a torto o a
ragione, ma probabilmente a torto, qualcuno ritenne insofferente all’esibizione
della nudità dei corpi umani - lo si fa transitare in corridoi piene di statue nude.
Chissà chi ha deciso di impedirne la vista all’ospite con dei pannelli grigi.
Non si sa. E’ come se si fossero materializzati da soli <i>a miracol velare</i>. Le vesti si stracciano – senza però arrivare alla
nudità – e tutti gridano alla piaggeria, allo scandalo, al ridicolo, alla fobia
del corpo e ai valori supremi dell’Occidente, svenduti per un pugno di
contratti con l’Iran disincagliato, disincanaglito da Obama.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Io vedo in questo
avvenimento un gioco d’eros e di cortesia divino, e forse quei pannelli davanti
alla Venere li ha piazzati davvero l’anima di Prassitele, inviata allo scopo da
Afrodite tessitrice di inganni. Perché noi siamo la gente del tramonto, <i>die Aberland </i>(spenglerianamente)<i> untergeht</i>, e spinti da pulsioni
faustiane cambiamo il mondo con frenesia: ma sono gli spasmi disarmonici del
moribondo. Cosa abbiamo a che fare, noi, con quell’Occidente che scolpì la
Venere? Nulla di più che l’aver calcato la medesima parte del pianeta. Ho la
sventura di essere nato e di aver vissuto in una città d’arte, soprattutto
rinascimentale. Davanti alla Galleria dell’Accademia, dove è custodito il David
di Michelangelo, lì, in via Ricasoli – quella che va da san Marco al Duomo – le
bancarelle vendono ai turisti grembiuli da cucina, spillette, cartoline e altri
gadget, tutti col pisello della statua in brutta vista, diventato ben più del
giglio il logo lubrico della città, e effettivamente sua perfetta e completa
espressione. Questa è dunque la qualità del nostro sguardo, l’esito grottesco
della nostra civiltà. E quindi trovo assolutamente spiegabile che,
avvicinandosi il rappresentante del Padre senza-forma e anti-forma, la dea
abbia voluto coprirsi. Svillaneggiata in mille modi, percorsa da sguardi
indifferenti alla sua natura divina, Afrodite di certo non si coprirebbe più
per il turista o per il politico. Ma non appena ha sentito approssimarsi uno
sguardo vero (ostile, certo, ma vero e capace di riconoscerla, come san Paolo,
come Elia) ha sentito il bisogno di proteggersi: come una prostituta nuda,
esposta sempre allo sguardo bavoso della marmaglia, che però arrossirebbe, afferrerebbe
i suoi stracci e si rivestirebbe se d’improvviso, inaspettatamente, il cliente
le confessasse di amarla. In questo senso il suo coprirsi è anche un appello: a
noi, che ogni giorno la vediamo senza vederla; un appello senza speranza alla
qualità di sguardo che non possederemo più.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<br />
<div class="MsoNormal">
Ecco dunque apparire
l’aniconostasi di cartongesso. Come – nelle chiese orientali – un pannello
cosparso di icone (quindi di forme divine) protegge l’indescrivibile,
l’ineffabile, l’incircoscrivibile, l’inosservabile, l’irrappresentabile dagli
sguardi che presumerebbero di contenerlo, così - in questo caso - una
superficie totalmente aniconica vela di senza-forma la forma bellissima di Lei
agli occhi del Padre solo spirito e odiatore di forme. Se fossimo degni di
custodirla, l’Afrodite di Prassitele, ce lo lasceremmo, quel pannello, e
entreremmo nel santuario della dea solo dopo esserci preparati e purificati. Ma
siamo solo dei nani lussuriosi. Per questo un giorno, stanca di questi sguardi,
la dea chiamerà dall’Alba un portatore ancor più terribile e rude di follia
paterna: a lui chinerà docilmente il suo marmoreo collo di cigno, e si lascerà
fare a pezzi. In ognuno di questi frammenti, forse, ci riconosceremo.<o:p></o:p></div>
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<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgdy2KbRj-OGBqLOj-BohB6rIZOaGo7KQtXo2myV0PLGl4OekuH0Xr3VIc-WMLPETsz9XUAklxZkruJJrsv408gjMwWBWmxSMhOewYqBYq3JGWGXd9EV-ebtcGdpe0yZaPk9rLjn8GDCnKK/s1600/Venere-nascosta-2016-Musei-capitolini-.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgdy2KbRj-OGBqLOj-BohB6rIZOaGo7KQtXo2myV0PLGl4OekuH0Xr3VIc-WMLPETsz9XUAklxZkruJJrsv408gjMwWBWmxSMhOewYqBYq3JGWGXd9EV-ebtcGdpe0yZaPk9rLjn8GDCnKK/s320/Venere-nascosta-2016-Musei-capitolini-.jpg" width="285" /></a></div>
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leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-78786779437783890672016-01-18T05:29:00.001-08:002016-01-18T05:35:39.596-08:00Pesci in faccia. Note sulla Settimana per l'Unità dei Cristiani<div class="MsoNormal">
<i>Venuto da molto lontano<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>a convertire bestie e gente<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>non si può dire non sia servito a niente<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>perché prese la terra per mano<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>vestito di sabbia e di bianco<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>alcuni lo dissero santo<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>per altri ebbe meno virtù…<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Nel Concilio di
Gerusalemme 0 (Lc 24), tenutosi nel Cenacolo e presieduto dal Cristo risorto
medesimo, con gli Undici e altri padri o madri conciliari (vi si trovavano
infatti <i>congregatos undecim et eos qui
cum ipsis erant</i>)<i> </i>il problema
dell’unità dei cristiani non era all’ordine del giorno. Non che non ci fossero
discussioni, anzi: <i>dum haec autem
loquuntur</i>, mentre parlavano, è scritto: e l’argomento pare fosse la <i>sparizione</i> di Gesù nei pressi di Emmaus.
Non che non vi fossero dubbi, anzi: apparso il Cristo in mezzo a loro (non si
capisce come ma certo non sembra che sia entrato dalla porta) <i>conturbati vero et conterriti existimabant
se spiritum videre</i>, quindi ragionavano, e il paradosso era che la
spiegazione parapsicologica della loro esperienza sembrava quella più
convincente, essendone l’alternativa una vertigine senza fine. Il Cristo li
libera dai dubbi <i>spiritici</i> in modo
piuttosto terra-terra, mostrando i piedi e le mani (<i>palpate et videte, quia spiritus carnem et ossa non habet, sicut me
videtis habere</i> e a me questo <i>palpate
et videte</i> piace molto), poi si fa portare una porzione di pesce arrostito,
apparentemente il cibo prediletto dal Risorto, tanto che se lo prepara anche da
solo sulla riva del lago in Gv 21,9. C’erano discussioni e c’erano dubbi, come
in tutti i Concili che si rispettano, ma di <i>unità
dei cristiani</i> non si parlò, così come non si parlò di divisione, visto che
non risultano agli atti delle proposizioni solennemente condannate,
anatemizzate, tacciate di eresia. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
A me l’unità/uniformità
dei cristiani – lo dico - non piacerebbe: e, almeno per una volta, credo che la
storia andrà d’accordo con la mia preferenza mantenendoli disuniti: certamente
fino alla fine della mia vita, ma sperabilmente anche fino alla fine del mondo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
E così il Rabbi girava
per le strade di Palestina, trascinando l’ombra cruciforme del proprio mistero.
Sapeva di sé, non sapeva di sé, <i>intra</i>sapeva
probabilmente, comunque chiedeva agli altri chi fosse, e non credo fosse
soltanto un espediente per estorcere da tali altri confessioni di fede (<i>vos autem quem me esse dicitis? </i>Mt 16,15
e //). Era un’anfibolia errante. La gente lo guardava, lo ascoltava, ne era
intimorita, affascinata, talora guarita, alcuni lo seguivano. Formulavano delle
ipotesi a suo riguardo. Da quella familiar-castrante: “Ma sì, <u>lo conosciamo
benissimo quello lì</u>” degli abitanti di Nazareth (<i>nonne hic est fabri filius? nonne mater eius dicitur Maria, et fratres
eius Iacobus et Ioseph et Simon et Iudas?</i> Mt 13) a quella solenne e
densissima “Oddio <u>tu sei proprio quello lì</u>” (tu es Christus Filius Dei
vivi! Mt 16) – che a ben vedere sono due forme di conoscenza dagli esiti
opposti, perché non sempre sapere è un vantaggio – tutte le ipotesi sono state
proposte. A ognuno egli riservò uno sguardo, una parola, un gesto. Chi ebbe il
suo rimproverò e si sentì chiamare sepolcro imbiancato o vipera; chi fu
afferrato dal regno dei morti in cui abitava da quattro giorni; chi si
arrampicò su un albero per vederlo e invece fu visto lui; chi prima senti l’umido del
suo sputo sugli occhi e poi vide per la prima volta; chi provò la forza della sua
frusta sulle spalle mentre metteva in salvo le carabattole nel Tempio, chi
invece fu lui a fustigarlo con la benedizione del procuratore romano; chi fu
mondato dalla lebbra e non seppe trattenersi dal cantarlo; chi ricevette pane
in abbondanza tratto da minuscole ceste; chi reclinò il capo sul suo petto; chi
flirtò con lui al pozzo quando lo vide stanco e assetato; chi lo vide accendersi
di maestà divina su un monte; chi fu preso mentre andava a casa per portargli
il patibolo fino al luogo dell’esecuzione; chi lo vide fresco di resurrezione
nel giardino, e lo scambiò per l’ortolano, poi lo riconobbe e danzò con lui la
danza del <i>noli me </i>tangere; chi lo
tradì per trenta denari di sconforto; chi fu strappato al padre e alla barca;
chi unse i suoi piedi con unguento prezioso, li bagnò con le lacrime e li
asciugò coi capelli; chi lo ebbe ospite grato e misterioso alle proprie nozze;
chi depose doni regali alla sua culla e poi scomparve per sempre in Oriente; chi
ne ebbe paura e gli fu ostile; chi fu liberato dai demoni; chi fu preso dal
sonno mentre lui schiumava sangue d’agonia; chi fu rialzata con tocco gentile e
come una giovane gazzella appena ritta sulle gambe fu da lui portata a
nutrirsi; chi, scaltra, approfittò della folla per rubargli una potenza
guaritrice; chi lo mise al mondo senza aver conosciuto uomo; chi – l’uomo che
avrebbe dovuto presto conoscerla – straziato, prestò fede ai sogni, chi lo
rinnegò presso un fuoco, tradito dal proprio accento provinciale, chi gli
piantò <i>den den den</i> i chiodi nei
polsi; e chi, infine chi, unico in tutto il racconto, lui guardandolo <i>amò</i> – e mai si dice di nessun’altro in
modo così diretto, puntuale e definito, <i>Iesus
autem intuitus eum dilexit eum</i>. <o:p></o:p></div>
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<br /></div>
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Che fine hanno fatto
queste parole, questi sguardi, questi gesti, raccolti della narrazione
quadrimorfa e in cento altre più segrete e maliziose? Che fine hanno fatto
quelli che non sono stati raccolti e che – ove scritti – il mondo stesso con
tutte le sue librerie e i suoi server non basterebbe a contenere (<i>Sunt autem et alia multa, quae fecit Iesus,
quae - si scribantur per singula - nec ipsum arbitror mundum capere eos qui
scribendi sunt libros</i>)? Eppure un giorno lui si spogliò della forma del suo
corpo – che nascose in una nube – e portò l’essenza del suo corpo fin nel
profondo di ogni atomo dell’universo, rendendo questo “umano” fin nelle più
devastanti esplosioni stellari, fin nei più vorticosi buchi neri. Prigionieri
dei sensi esterni, siamo rimasti soli. Nell’antico rito latino, nel giorno dell’Ascensione,
il cero pasquale viene malinconicamente tolto dallo spazio sacro: non spento,
ma occultato. <o:p></o:p></div>
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<br /></div>
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Rimasti soli, desiderammo
che tornasse presto, più che presto: subito. Ma ci accorgemmo che non tornava
e, sempre più soli, cominciammo a pensare. Come morì e risorse, prima. Cosa
fece, poi. Che cosa disse, infine, e fin qui. Ma poi cominciò l’indagine,
quella che <i>devasta i cuori</i>, come dice
Gozzano in un canto che celebra un mistico analfabeta. Prima bastava andare da
lui, cercarlo, guardarlo. La sua divinità, la sua natura, il suo volere, non se
ne discuteva: il pensiero inizia dove cessa la vita. Uno sguardo <i>sguarda</i>, non chiede consenso. Su una
definizione si può essere o meno d’accordo. Ovviamente i disaccordi
scoppiarono: prima la condanna delle grandi eresie docetismo, cerintianesimo, modalismo,
adozionismo, marcionismo, montanismo, manicheismo, novazianismo, donatismo, arianesimo,
apollinarismo, priscillianesimo, pelagianesimo, monofisismo, nestorianesimo, monotelismo,
abelianismo, adelofagismo, macedonianismo, ma ci furono anche gli artioriti
(che offrivano a Dio pane e formaggio), gli Ofiti (che veneravano il serpente
dell’Eden, inviato secondo loro da Sophia per iniziare l’umanità ai livelli
profondi e divini), i circoncellioni (che giravano attorno alle tombe,
bastonavano di santa ragione chi in loro si imbatteva, e si suicidavano, spesso
dicendo al povero passante: ‘se non mi ammazzi, ti ammazzo io’) e si potrebbe
andare avanti all’infinito, poi il grande scisma ovest / est (con la
separazione dei latini), poi il grande scisma sud / nord (con la riforma
protestante) e poi ancora divisioni e lotte e scismi più o meno sommersi. Ora, leggendo
nomi che ci sembrano strampalati (ma per cui qualcuno ha dato la vita), proviamo
a pensare a quel suo sguardo al cospetto del quale riposava ogni domanda,
rimanendo domanda, tuttavia, e mai venendo uccisa da una definizione.<o:p></o:p></div>
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<br /></div>
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Pace sulle Chiese. Chi è
in pace è anche unito. Ma mi rattristerebbe l’uniformità. Se ci fosse un artiorita
in giro lo proteggerei meglio di un panda, altro che otto per mille.
Figuriamoci un circoncellione, e dovrei anche affrettarmi prima che si suicidi.
Penso che gli sguardi di Gesù siano stati raccolti e mai dimenticati, e che
ogni dottrina su Cristo abbia la sua radice ultima – ritorta, contorta,
distorta che sia - nell’esperienza di uno di quegli sguardi. Se tale dottrina
venisse meno, perderemmo quel frammento, saremmo più poveri e più soli ancora.
In reti aride di parole e di concetti, infatti, abbiamo raccolto i pesci vivi e
guizzanti dei suoi sguardi, e li abbiamo tratti a riva. Per potercene nutrire i
pesci sono morti di asfissia, e poi sono stati arrostiti alla rossa brace delle
nostre filosofie. Forse è stato necessario. Meglio che niente: però sarei per
la teodiversità, non per la dieta a base di una sola specie ittica. Pace sulle
Chiese, ma che le nostre reti peschino nel subbuglio iridescente e multiforme
del mare dei tropici (senza escludere le prede dalle stranissime e buffe forme)
non nelle tetre vasche in cui vengono allevati pesci del color del cemento.
Fino al momento delizioso in cui, lo speriamo, i pesci morti salteranno vivi di
nuovo del mare profondissimo dei suoi occhi, fino a che le nostre definizioni
si muteranno di nuovo in domande, vive, (in)saziabili presso l’abisso della sua
Presenza.<o:p></o:p></div>
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<br /></div>
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Anche in quella Chiesa
che custodisce trepidando uno sguardo profondissimo di lui, uno sguardo
sfolgorante, estatico, pieno di bellezza e di verità, in questa Chiesa – dico –
che si chiama Ortodossa, ho spesso, direi sempre, a che fare con ortodossisti
(è un espressione del grandissimo teologo Christos Yannaras). Gli ortodossisti,
per me, possono essere anche patriarchi o metropoliti, vescovi, preti, monaci o
anche martiri: ma non sono ortodossi. Tutti ricordiamo il celebre appunto di
Dostoevskij (<i>Se mi si dimostrasse che
Cristo non è nella verità, e se fosse dimostrato matematicamente che la verità
non è in Cristo, preferirei comunque restare in Cristo che con la verità</i>).
Gli ortodossisti preferiscono sempre e comunque la verità a Cristo. In generale
sospettano del pesce vivo: uno morto è più controllabile. E poi deve trattarsi
di quella specie di pesce che hanno in mente, e solo di quella, altrimenti è peggio
che veleno: e quel pesce corrisponde alla verità dogmatica. Io vorrei
abbracciare Dostoevskij, e dirgli che certamente Cristo non è nella verità
(come può la verità contenere il suo Creatore?), mentre la verità è sì in
Cristo, come anche l’errore, come ogni cosa, come tutte le parallele che all’infinito
si incontrano – visto che parla di matematica – e Cristo è proprio l’infinito.
E’ di lui che parla il profeta Eraclito (<i>gli
uomini ritengono giusta una cosa, ingiusta l’altra: per il dio tutto è bello,
buono e giusto</i>). Mentre idolatrare la verità – come fanno gli ortodossisti –
è, a propria volta (grazie a Dio) un errore.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<i>E morì come tutti si muore<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Come tutti cambiando colore<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>non si può dire sia servito a molto<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>perché il male dalla terra non fu tolto<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Ebbe forse un po' troppe virtù,<o:p></o:p></i></div>
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<i>ebbe un volto ed un nome: Gesù.<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Di Maria dicono fosse il figlio<o:p></o:p></i></div>
<br />
<div class="MsoNormal">
<i>sulla croce sbiancò come un giglio. (Fabrizio De
André)<o:p></o:p></i></div>
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<i><br /></i></div>
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leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-1230847252664384082015-09-07T01:15:00.001-07:002015-09-07T06:12:10.139-07:00La morte della Sposa<div class="MsoNormal">
Cosa mi prende? <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Eppure anch’io ho incontrato
la Sposa del Deserto, in una sera di velluto che addolciva il bianco dei suoi
marmi e li volgeva in rosa e in sogno. Fu tanto tempo fa: la vita, gli occhi,
il cuore, tutto era proteso alle mille notti che adesso ho consumato senza
goderne, e me ne rimane soltanto una, e quanto fonda, e quanto fitta, e come
interminabile.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Il mio Maestro possedeva
una macchina fotografica che già allora era antiquata – forse una vecchia
Hasselblad medio formato – e durante i viaggi faceva con essa un ritratto 6x6 a
ciascuno dei viaggiatori: nel mio caso la fotografia è stata scattata a Palmyra,
mentre guardo, oltre una rovina di cinta muraria, lo splendore di un cielo
luminoso e barocco. Quel giorno il Maestro aveva l’età che ora pesa su di me.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Anch’io ho amato Palmyra,
la Sposa del Deserto, che ruba il cuore ad ognuno che la guarda, anche per
pochi istanti. E allora che cos’è che mi prende?<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Perché questo mio cuore, allora
giovane, non si stringe adesso che è vecchio all’udire e al vedere i templi
sventrati, le mura divelte, i decori sfregiati. Beninteso, un po’ di
indignazione è di rigore: e certo mi addoloro quando leggo di lei, e di cosa le
sta capitando. Ma perché qualcosa dentro subisce il fascino dei devastatori e
si allea immediatamente con la cupa, la spaventosa armata che distrugge la
Sposa nel nome di Colui che abita il Deserto? <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Zenobia, il dattero più
profumato e saporito che la Palma ha donato alla storia, Zenobia la Regina
Guerriera che si inventò un regno sterminato, e conquistò l’Arabia, e conquistò
l’Egitto, e conquistò la Palestina, e a nord la Cappadocia fin quasi al Bosforo,
e conquistò tutto il vicino Oriente sottraendolo ai Romani e proclamandosi sua
Imperatrice e discendente di Cleopatra, Zenobia che poi perse tutto, e che
fuggì da Palmyra in sella al suo dromedario più veloce – proprio come in una
fiaba – ma venne catturata sulle rive del grande fiume Eufrate, Zenobia forse
ora non troverà il suo Tempio ove venerare Baal, Yahribol, Aglibol – che poi
sono il Sole e la Luna – e Bel, e Nemesis, e Malakbel, e Arsu, e Abgal, e
Astarte (che poi è Afrodite ed è la Stella del Mattino). Com’è che non ne sento
il grido? Com’è che non sento il fremito delle migliaia e migliaia di
invisibili anime di coloro che hanno costruito, abitato, inghirlandato di
marmi, di statue, di rilievi Palmyra: l’oasi incantata nel cuore della Siria,
posta sulle strade di sabbia e di vento che da Roma giungevano all’India, e più
in là alla Cina, e più in là all’Oriente favoloso, dove, in un palazzo
bianco fiorito di fontane, siede, sul trono di Agartha, il Re del Mondo?<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
E’ che da molto tempo
ormai quelle anime hanno lasciato Palmyra. Si aggirano meste tra le petrose
dune solitarie, poggiano i loro piedi lievi sui sentieri disertati. Più probabile
che le si trovi nella confusione polverosa delle tende dei Bedu; più verosimile
che se ne stiano fra le lamiere ondulate di una locanda dove, alla luce di una
lampada a gas, vengono poste davanti al commensale qualche ciotolina di <i>maze</i> e un piatto di <i>yabraq</i>; più facile sentirne la presenza nella bottega del
villaggio, piena di fumo, di buio e di grasso e di motociclette da riparare,
stanche e rotte di sabbia e di sassi. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Fatto è che le anime vive hanno
in orrore le anime morte, quelle che arrivavano dentro grandi pullman, dentro
equipaggiamenti tecnici, traspiranti, colorati, dentro corpi bianchi e molli
cosparsi di creme resistenti al sole (che poi è Yahribol) e di creme repellenti
gli insetti. Non sopportano i loro sguardi vuoti dietro gli occhiali da sole e
dietro i mirini o gli schermi delle macchine fotografiche. I passi pesanti
delle anime morte consumavano le pietre di Palmyra più degli zoccoli dei
cavalieri di Ardashir il Sassanide. Qualche ragazzo dagli occhi neri e dalla
faccia triste, giunto da chissadove, vendeva loro <i>kaffyeh</i>, cartoline dai colori smorti, bevande fredde e cammellini
di legno. Le anime morte compulsavano guide intitolate a un pianeta niente
affatto solitario, poi smettevano perché c’era troppo sole (che poi è
Yahribol), perché avevano sete, perché avevano caldo. Stufe assai presto delle
spiegazioni della guida, risalivano nei grandi pullman con il condizionatore
spinto a tutta forza, bevevano acqua e sali minerali in bottigliette dal gusto
effervescente e dolciastro, e tornavano al Grande Hotel & Spa. Il Grande
Hotel & Spa: che ha la facciata che imita il tempio di Baal e dove si serve
la cena sotto una finta tenda beduina, che ha 64 camere,e 6 Royal suites, e una
iperlussuosa Presidential suite, che ha un hammam e una sauna e un luogo per i
massaggi, che ha una superba piscina che drena quasi tutta l’acqua dell’oasi,
togliendola alle palme e alle anime vive. Facevano il bagno, bevevano il vino
che viene dalla valle di Oronte, e guardavano la luna (che poi è Aglibol)
crogiolandosi nel loro oriente confortevole eppur così romantico. Sotto la
finta tenda beduina, infatti, un suonatore in costume traeva dal suo <i>oud</i> accordi pieni di sentimento. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
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<div class="MsoNormal">
Così che un giorno
Palmyra decise di scomparire e di rifugiarsi nella memoria di Dio, dove tutta
la bellezza è custodita dagli angeli e preservata intatta fino a un nuovo Satya
Yuga. Avrebbe potuto andarsene così, levandosi prima dell’alba all’insaputa di
tutti e dileguandosi silenziosamente nello stellato: al mattino gli occhi
assonnati del portiere di notte del Grande Hotel & Spa avrebbero visto
spazi vuoti al posto del Tempio di Bel, della via colonnata, del santuario di
Nabu, della cinta di mura, del teatro, della necropoli. Ma le anime di Palmyra,
piene di compassione, hanno scelto la via del dolore, del martirio, della
testimonianza: e dal deserto hanno convocato un’armata terribile e implacabile.
I guerrieri dalle lunghe barbe hanno la pelle e gli abiti del colore della
sabbia del deserto, innalzano vessilli neri con iscritta la professione di fede
che inizia con una negazione (non c’è altro dio se non Id-dio, non c’è altro,
non c’è altro), odiano ogni forma nel nome di Colui che non ha forma. Come
stracci portati via dal vento, le anime morte vestite di colori sono scomparse.
Rimasto solo, il vero amante della Sposa, che non l’ha mai abbandonata, colui
che ne sapeva ogni pietra, ogni odore, ogni trascolorare di ore e di stagioni,
Khaled (bisogna pure se ne dica il nome, perché significa <i>eterno</i>, perché significa <i>immortale</i>)
ha offerto la gola alle lame dei soldati. Uscita che fu l’anima dal corpo,
Zenobia stessa la accolse nella radunata delle anime vive. Al sicuro, per ora
al sicuro nelle loro città, le anime morte subito hanno innalzato a Khaled
lapidi di carta e di pixel, i giornali di tutto il mondo lo han celebrato,
sulle televisioni e sui monitor è stata mostrata la sua fotografia, il suo
volto mite, la sua stempiatura grigia, i suoi grandi occhiali fuori moda. Le
anime morte ci sanno fare con le parole. Ma le anime morte, più di tutto, e proprio
perché già morte, hanno paura della morte: e non una di loro è rimasta a
Palmyra, non una di loro ha combattuto per lei. Sono pronti altri mille facili
Orienti per soddisfarle.<o:p></o:p></div>
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<div class="MsoNormal">
Ora Palmyra vuol morire,
e offre il suo corpo bellissimo ai barbuti guerrieri, alle loro piccozze, agli
scalpelli, alle bombe. Cadono una a una le colonne che il tramonto inrosava,
crollano le celle segrete dove i sacerdoti compivano il culto solenne della
Corte degli astri. In immenso, muto, costernato, invisibile anfiteatro, le
anime vive chinano il capo come di fronte a ciò che è atroce e necessario. Mentre i
satelliti, a milioni di metri dalla superficie terrestre, fotografano grigie
spianate al posto di monumenti, mentre i sordidi mercanti d’arte, nei
retrobottega delle gallerie di Londra o di Parigi, quotano milioni di euro i
poveri frammenti della carne di lei, muore Palmyra per la mano - orrenda, ma
almeno non ipocrita - di chi dichiara esplicitamente di volerla uccidere, di
chi non teme di attirare su di sé la collera del mondo cosiddetto civile, di
chi sente la sua visibile bellezza come un supremo insulto all’Invisibile.
Muore così, violentata ma non banalizzata.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
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<div class="MsoNormal">
Una leggenda, di quelle
che sono più vere del vero, vuole che Zanobi, santo vescovo all’origine della
Firenze cristiana, discendesse proprio dalla regina Zenobia. Spiritualmente,
dunque, i fiorentini sono tutti figli di Palmyra. Sarà per questo che – visto
che l’uomo è l’immagine del mondo e il mondo l'immagine dell'uomo, in un divino gioco di rispecchiamenti – sento dentro di me arrivare i soldati di
sabbia e di sangue. Vengano dunque, vengano e distruggano. Devastino le
architetture della memoria, sventrino i santuari dove si servono dèi troppo
vecchi e stanchi, spezzino le statue dei re, delle regine, delle madri e dei
padri e dei saggi, confondano l’ordine delle vie colonnate della mente, e
soprattutto polverizzino col tritolo il teatro dove recitano i miei personaggi.
Vengono, vengono, ecco sull’orizzonte dell’anima la polvere alzata dai loro
cavalli.<o:p></o:p></div>
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leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-55549686096833386202015-07-31T07:02:00.000-07:002015-07-31T11:25:37.906-07:00Cecil il leone, Palmer il dentista, e la savana simbolica<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">Tira più un pelo di
criniera di leone che milardi di capelli di uomini, di donne e di bimbi. Tira
più a galla le nostre emozioni, buone e meno buone. Farsi un giro in Twitter
con l’hashtag #cecilthelion può essere utile per averne un’idea. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Ci sono i furenti, e il
loro nome è legione: quelli che vorrebbero prendere il dentista Walter Palmer,
uccisore del grande leone dalla nera criniera, icona dello Zimbabwe, e
linciarlo, squartarlo, impiccarlo, mandarlo all’inferno in cui pare ci sia una ‘cavity’
profondissima scavata apposta per lui dove i demòni lo attendono per torturarlo
in eterno; ci sono quelli che dicono – più realisticamente – che Palmer è un
imbecille che disonora il Minnesota, l’America, l’Occidente; ci sono quelli –
oh gran bontà di tali twittatori – che scrivono che Cecil non vorrebbe l’odio e
invitano a pensare positivo. Anch’io ho contribuito all’hashtag con un
riferimento alla canzoncina tratta da <i>The
Little Shop of Horror</i>, in cui un figlioletto che dà precoci
segni di sadismo sugli animali viene saggiamente indirizzato dai genitori alla professione del
dentista.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Poi c’è la schiera dei
moralisti indignati che hanno ben chiara in testa la ‘differenza ontologica’
che passa tra un animale e un essere umano. E’ composta quasi esclusivamente da
cristiani austeri, personalisti severi. E gli aborti? E i profughi? E i bimbi
che muoiono di fame malattia guerra? Tutto questo casino per un leone, che sì,
sarà bello ma vuoi mettere?<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Poi ci sono gli
animalisti pignoli, che criticano la furia antipalmeriana con argomenti che
invece hanno a che fare con la ‘somiglianza ontologica’ tra Cecil il leone e i
suoi colleghi animali dotati di minor maestà ma di identica capacità di
soffrire che vengono quotidianamente massacrati negli allevamenti intensivi a
maggior gloria di <i>Kentucky Fried Chicken</i>, dai cui millanta ristoranti l’antipalmeriano
magari twitta procecil mangiucchiando cestelli di ali di pollo fritte. Insomma
i democratici del regno animale, che segretamente godono che sia stato
scaraventato giù dal trono il Re della foresta, e che va bene, Cecil-Luigi XVI
sarà pur stato ghigliottinato dal boia Palmer, <i>fils de saint Louis montez au ciel</i>, ma il popolo senza nome, avicolo,
ovino, cunicolo, caprino, bovino e suino chi lo difende ogni giorno? Dov’è l’hasthtag
#ovesetbovesetuniversapecora?<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Sarà, ma non credo che
nessuno di tali partiti colga nel segno rispetto a quanto è avvenuto e sta
avvenendo. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
C stamattina diceva che
ormai si ha pietà solo per gli animali, e fin qui ero d’accordo. Poi aggiungeva
che la radice di detta pietà è l’alterità radicale dell’animale rispetto all’uomo.
L’animale sarebbe il <i>vero altro</i>
levinasiano, laddove il volto umano non sa più esserlo. Qui ho condiviso meno. Infine
ha concluso che l’animale è involontariamente filosofo: o meglio – il suo
sguardo silenzioso, misterioso, vertiginoso incessantemente ci pone la domanda
fatale: <i>chi siamo?</i> E sono tornato a
condividere pienamente.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
In una delle narrazioni –
o <i>flash sideways</i> – dell’umanizzazione
o ominizzazione, Adamo il Protoplasto riceve da Dio il comando di dare il nome
agli animali. Un filo diretto lega il mitico progenitore al romanzesco Caïn
Marchenoir, alter ego di Bloy nella <i>Femme
Pauvre</i>, che parla con la dolcissima Clotilde davanti a una gigantesca tigre
incerrata e incatenata nello zoo di Parigi. Marchenoir si reca spesso a
visitarla, e certamente egli si sente rispecchiato nella ferocia e nella
nobiltà dell’animale catturato nella lussureggiante foresta indiana e portato
lì, infreddolito e spaesato alla mercè della canaglia che gli getta bucce di frutta:
lei, la Grande Tigre, che ove dislegata avrebbe potuto divorarli tutti, e
dinanzi alla quale le loro ginocchia si sarebbero piegate dal terrore. Ma c’è
qualcosa di più di questo riconoscimento psicologico, che in fondo non è tanto
differente da Baudelaire che si ritrova nell’albatro volatore elegante e
instancabile, ma imbelle al suolo, schernito dai marinai. Nominando le bestie Adamo
compie un atto sacerdotale, coinvolgendole nel suo destino umano: e quindi
trascinandole nella caduta e nell’allontanamento da Dio e nel dolore e nella
morte: loro, gli incolpevoli. Nella condizione decaduta, gli animali innocenti
hanno il compito di portare – senza saperlo – il peso della sofferenza umana
derivata dalla condanna. E anche chi la assumerà in maniera redentiva – il Cristo
– vorrà adornarsi del titolo di <i>Agnello</i>.
Dunque gli animali sofferenti sono <i>agnelli
di Dio </i>inconsapevoli, come Gesù lo è in modo superconsapevole: ma <i>sotto</i> e <i>sopra</i> il livello umano c’è comunque qualcuno che incessantemente si
immola per la salvezza dell’uomo.<o:p></o:p></div>
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<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Nell’altra narrazione,
quella scientifica, la soglia dell’ominizzazione si ritiene varcata laddove l’ominide
si mostra capace di dar forma a un <i>chopper</i>,
ossia a una pietra scheggiata con uso polivalente. Queste pietre – e io le ho
fisicamente vedute nelle gole di Olduvai, in Tanzania – non hanno l’eleganza e
la perfezione del favo dell’ape o della diga del castoro. L’ape e il castoro
sono strumenti della Natura o del Creatore, sono come dei pennelli a cui la
bellezza del dipinto non può seriamente venire attribuita. Nel rozzo <i>chopper</i>, invece, è all’opera la
creatività umana. Il <i>chopper</i> è
orribile, ma inventato dall’uomo per diversi usi. Siamo all’alba della libertà.
Ma, ahimé, anche all’alba dell’esodo-esilio dal mondo naturale. Ma, ahimé,
anche all’alba della tecnica la quale – ben lo sappiamo – neutrale non è. La
tecnica in qualche modo <i>esige</i> di
essere utilizzata, costringe il suo artefice, lo manipola e lo <i>de-natura</i>. Ancora una volta un filo
diretto lega il <i>chopper</i> al fucilone
da caccia grossa impugnato da Palmer per impallinare<o:p></o:p></div>
il grande leone. <br>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
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<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Siamo tutti dalla parte
del leone Cecil – io pro-palmeriani non ne ho visti, non so neppure se Camillo
Langone oserebbe (forse sì, ma mica convinto davvero): e i cristianoni non sono
pro-Palmer, ma, fastidiosamente, a difesa della differenza specifica umana,
come si è visto – non perché Cecil sia l’<i>altro</i>:
ma perché Cecil è più <i>uomo</i> di Palmer.
Non soltanto rappresenta le virtù umane del coraggio, della nobiltà, del
vigore, della fortezza – per cui tante volte è rampante come elemento araldico
sugli stemmi dei nobili, delle città e degli stati – ma evoca immediatamente il
Leone che abita la nostra fantasia, di più: il nostro inconscio – al modo delle
fiere di Ligabue o di Rousseau le Douanier. Quel Leone che forse abitava la
mente di mio padre quando Leone voleva chiamarmi, e ringrazio mia madre che lo
moderò e lo rese più comune mutandolo in Leonardo, ma lui continuò sempre a
chiamarmi Leone.<o:p></o:p></div>
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<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Siamo tutti contro
Palmer, perché Palmer sarà anche – dal punto di vista ontologico – una persona
umana, ma più profondamente lo si percepisce come un insetto, che è la cosa
naturale in assoluto più simile a un meccanismo. Karl Rahner, nel <i>Corso fondamentale sulla fede</i>, diceva
che come è accaduta l’ominizzazione, potrebbe accadere la dis-ominizzazione, ad
opera precisamente della tecnica. Aerei, telefoni, computer continuerebbero a
funzionare, ma non ci sarebbero più Leoni interiori, e senza Leoni interiori
non c’è più uomo. In questo senso Palmer è la primizia degli ingegnosi insetti
antropomorfi che verranno. Ancor meglio: Palmer è la protesi biologica che
(ancora: ma per quanto?) serve al fucilone per funzionare e per distruggere il
mondo naturale. Forse accadrà ai fuciloni del futuro di liberarsi della molle
appendice palmeriana e a sparare per conto proprio. Chissà. In ogni caso la
tecnica ha reso schiavo il povero Palmer che – se contingentemente ha ucciso
Cecil – nei nostri cuori ha assassinato Aslan, il Leone (<i>misericordioso, ma non mansueto</i>) di Narnia. Non è quindi solo
omicida, ma anche deicida. Perché – che prenda forma nelle parole di CS Lewis o
nei quadri di Rousseau, nella mitologia greca o nella Bibbia (<i>Ecce vicit Leo de tribu Iuda</i>, Ap 5,5),
nele terribili statue poste a guardia dell’Imperatore nella Città Proibita o
nel peluche che custodisce il sonno dei nostri bimbi – il Leone dentro di noi è
la soglia di un Oltre a cui (<i>misericordioso,
ma non mansueto</i>) ci convoca col suo ruggito potente. Essere uomini,
infatti, è definito dall’accettare coraggiosamente il richiamo di quest’Oltre,
e dall’aver vinto e dal continuo vincere il Palmer interiore che tale richiamo
vorrebbe sopprimere, ammutolire, uccidere.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<br></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Sono noiosi entrambi. Sia
il cristianone alla Adinolfi che, avendo trasformato in ideologia la danza
dello Spirito, è subito preoccupato di marcare le differenze di valore tra sé e
<i>tutto-il-resto</i> (un cristianone in
servizio permanente effettivo, che – al figlioletto che si commuove alla morte
della mamma di Bambi – subito ammonirebbe di ricordarsi che la morte di una cerva
non è niente in confronto agli innumerevoli bambini a cui muore la mamma). Sia
l’animalista rigoroso che non sopporta il rilievo dato a Cecil dalla Nera
Criniera e negato ai milioni di maiali che vengono sterminati nei macelli dell’Emilia
Romagna. In realtà tutti e due i tipi sono dei Palmer in potenza, perché non
hanno familiarità con la giungla interiore, foresta intricata e simbolica, dove
appunto <i>sunt Leones</i>. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
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<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
Tra cristianoni
ideologici e animalisti ideologici, io sto con Leon (<i>et pour cause!</i>) Bloy. Lo sguardo animale è un fatto serio.
Bisognerebbe prendere l’occasione e rileggersi Derrida <i>(L’animal que donc je suis)</i>. O Rilke, tutta l’Ottava Elegia di
Duino (…<i>il libero animale/ ha sempre il
suo tramonto dietro a sé / e dinanzi ha Iddio; e quando va, va / in eterno come
fanno le fonti…</i>.)<o:p></o:p></div>
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<br></div>
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<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEig0Wr1-rswhabKcQhmzaZi8bqrSPIctiVrx33qd48Iw8B8XkEIeDwGg60cFd6cilixYFcFCxAq4Lxnprc-8kK6bytJUdaTjJrxI_ZAMdz8XXamdowPTWk2P5f62vw_HszXakgjxpeOz14x/s1600/tete+de+lion+rousseau.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEig0Wr1-rswhabKcQhmzaZi8bqrSPIctiVrx33qd48Iw8B8XkEIeDwGg60cFd6cilixYFcFCxAq4Lxnprc-8kK6bytJUdaTjJrxI_ZAMdz8XXamdowPTWk2P5f62vw_HszXakgjxpeOz14x/s400/tete+de+lion+rousseau.jpg" width="400"></a>Bisognerebbe discendere
nella savana dell’anima, seguire le tracce del Leone fino al posto segreto dove
non serve l’inglese (come direbbe Battiato) né il pensiero chiaro e distinto, e neppure la teologia.
Al cospetto del Sacro. Numinosum. Tremendum. Fascinans.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
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<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;">
[Immagine: <span style="background-color: white; font-family: Georgia, serif; font-size: 12px; line-height: 18px;">Henri 'Le Douanier' Rousseau (1844-1910)</span><span style="background-color: white; font-family: Georgia, serif; font-size: 12px; line-height: 18px;"> - </span><span style="background-color: white; font-family: Georgia, serif; font-size: 12px; line-height: 18px;">Tête de lion]</span></div>
leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-76394041166049648712015-06-08T03:30:00.001-07:002015-06-09T09:18:48.429-07:00Bolle di sapone: note postmoderne su un rito premodernoLa chiesa russa di Firenze appartiene di diritto a quelle strane incongruenze e bizzarrie orientali di cui la città, fra le mille altre cose, si adorna: come il monumento funebre del tenerissimo principe ventenne di Kolhapur, che passò qui di ritorno da Londra, dove si era recato per salutare la Regina, e morì in un Grand Hotel del centro. La sua pira fu eretta nel parco delle Cascine e le sue ceneri furono disperse - come il rito prevede - alla confluenza di due fiumi. E la confluenza che accolse il residuo materiale che aveva manifestato l'atman nella forma del principe non fu quella fra i sacri e imponenti Gange e Yamuna, due fiumi himalaiani, nonché due potenti dèe, se ci fosse bisogno di specificarlo. No. Furono il mitissimo Arno e il timidissimo Mugnone. Ora <i>l'Indiano</i> è il nome di un quartiere e di un ponte brutto e moderno. <div><br></div><div>La chiesa russa, a guardarla, è russa come i restauri di Viollet-le-Duc son<span style="font-family: 'Helvetica Neue Light', HelveticaNeue-Light, helvetica, arial, sans-serif;">o gotici. E' un sogno di Russia, un desiderio, una speranza, una nostalgia, come potevano provarli i Demidoff o i Nelidoff. Una voglia di Russia, situata anch'essa lungo il Mugnone, fra sobri edifici ottocento, che se ne sta lì con le sue cinque colorate cupolette a bulbo, chiusa fra cancelli di ferro battuto come una palazzina borghese qualunque: lei, questa chiesetta, dalle linee, dalle torsioni, dalle geometrie concepite per sfidare la geografia sconfinata dell'est e quella ancora più sconfinata dell'anima russa. </span></div><div><span style="font-family: 'Helvetica Neue Light', HelveticaNeue-Light, helvetica, arial, sans-serif;"><br></span></div><div><span style="font-family: 'Helvetica Neue Light', HelveticaNeue-Light, helvetica, arial, sans-serif;">Presente al rito della domenica, così lungo da poter includere nella preghiera incisi e extra-vaganze, c'è un piccolo gruppo di bimbi i quali - toltisi rigorosamente le scarpe - se ne stanno seduti sul tappeto di fronte all'icona più importante sull'analogion, in cerchio, e si passano un piccolo cilindro e un'asticella per fare le bolle di sapone che infatti si levano numerose e spensierate di mezzo all'assemblea dritta in piedi, velata, ferma, incurante, orante. Se c'è Dio, e se Dio è degno di quel che si pensa di lui, allora io credo che se ne stesse lì incantato a godersi la scena delle bolle, e che non si preoccupasse molto dei solenni barbuti celebranti che dietro la marmorea iconostasi intonano con voce profonda i versi della Sacra e Divina Tragedia. Oh, lo so, lo so che potrebbe essere scambiato per un sentimentalismo facile e felice. Però io felice non lo sono di sicuro, tutto il contrario, e se mi aggrappavo io a quelle bolle evanescenti, se erano esse che mi rappacificavano, ben più di quanto potessero i neumi e le flessioni del canto, le parole altissime e terribili, ecco io penso che Dio dovesse ben averci qualcosa a che fare. Non parliamo dei concetti a cui le parole alludono: a ciò non penso più da tempo, avendoci pensato troppo in anni che avrebbero potuto esser spesi molto meglio. Insomma sì, io immagino che Dio fosse lì a guardare. Che ne sappiamo. In fondo i suoi pensieri non sono i nostri. Potrebbe aver creato tutto: le stelle, i buchi neri, la quattro forze, i pianeti, la vita, l'in-ominarsi del bipede dalla stazione eretta e dal pollice opponibile, l'evoluzione, la storia, gli imperi, l'incarnazione del Figlio, la sua morte, la sua resurrezione, la Chiesa, i martiri, i santi, la liturgia, la Russia, Firenze, la granduchessa Marija Nikolajevna, tutto, pur di godersi lo spettacolo di queste bolle di sapone. Sarebbe da lui. </span></div><div><span style="font-family: 'Helvetica Neue Light', HelveticaNeue-Light, helvetica, arial, sans-serif;"><br></span></div><div><font face="Helvetica Neue Light, HelveticaNeue-Light, helvetica, arial, sans-serif">E dire che il rito è molto bello. Composto, intento, armonico. La donna che dirige il coro è di una bellezza sovrannaturale (un Padre ed amico la direbbe <i>sofianica</i>). Ha occhi dal taglio orientale, come si trovano dipinti sugli stupa nepalesi o tibetani: la parte superiore dell'occhio è una linea piatta, quella inferiore una goccia che si assottiglia all'esterno. La pelle del volto gareggia in candore col velo che lo incornicia. Dirige con le due mani, rivolta come gli altri coristi verso l'altare, nella destra tiene un piccolo diapason. E' in continuo movimento pur rimanendo immobile e verticale: così, credo, con questa stessa distorsione percettiva, apparirebbe un angelo allo sguardo umano. Della voce non dico neppure. Però, se anche Dio non guardasse le bolle di sapone, sono io a preferirle a tutto quanto il resto, perfino alla cherubica corista. </font></div><div><font face="Helvetica Neue Light, HelveticaNeue-Light, helvetica, arial, sans-serif"><br></font></div><div><font face="Helvetica Neue Light, HelveticaNeue-Light, helvetica, arial, sans-serif">Poi avvengono due fatti che mi distraggono dalla mia bullicante meditazione. </font></div><div><font face="Helvetica Neue Light, HelveticaNeue-Light, helvetica, arial, sans-serif"><br></font></div><div><font face="Helvetica Neue Light, HelveticaNeue-Light, helvetica, arial, sans-serif">Il primo. C'è una mamma, al centro della chiesa, che si fa avanti tenendo in braccio un bimbo di circa due anni che - all'istante - si mette a piangere in modo sonoro. Non si può negare che ciò confligga un poco con i dodici toni del canto <i>znamenny</i>, e se - come dice Eraclito - <i>per il dio tutto è buono, giusto e bello</i>, non è certo così per l'orecchio umano, creato per distinguere ciò che è bello da ciò che è brutto e per private piacere e fastidio. Fatto è che il bambino sta per affrontare un certo qual spavento, e lo pre-sente. Nel rito dell'iniziazione sacramentale ortodossa, infatti, il bimbo maschio viene introdotto nel santuario, ossia oltre l'iconostasi, dal sacerdote, viene ivi benedetto e poi restituito alla madre. In tal modo egli viene abilitato a servire liturgicamente dentro il santuario medesimo. Già. Ma il piccolo in questione non è così teologo, o forse lo è già troppo, e ci dà dentro come può con un toccante ululato di protesta. Ecco che il sacerdote discende dai gradini dell'altare, si avvicina, ah non è rassicurante, neanche un po', e il poverino cerca rifugio nella concavità del corpo materno situata fra omero e clavicola. Ma il sacerdote non si scompone affatto. Afferra per la vita il bimbo - che a quel punto esige dai suoi piccoli ma efficientissimi mantici polmonari uno sforzo supplementare per raggiungere uno strepitoso <i>fortissimo</i> - si volta, e rapidamente risale i gradini. Questi grida, ha la maglietta sollevata all'altezza delle ascelle, e le gambette svolazzanti come bandiere di qui e di là. Il prete entra nella porta di destra dell'inconostasi, che si chiude dietro di lui. Ora che non si vede più nulla, il grido del pargoletto disperato fa venire i brividi. Io invoco mentalmente tre santi a me cari: san Sigismondo (Freud), san Carlo Gustavo (Jung) e san Giacomo (Lacan). Mi chiedo come si depositerà nella memoria incoscia questa esperienza. Se tornerà come un vissuto d'angoscia nella sua relazione col padre, o con Dio. Se contribuirà, come un mattoncino, a costruire quella diga di odio che lo separerà dall'uno e dall'Altro. O seppure invece avrà un effetto sanamente iniziatico, in fondo così dicono che debba fare il padre, sottrarre il figlio al mondo fintamente edenico, in realtà tenebroso, indifferenziato e mortifero, del materno, e spingerlo a individuarsi. E anche spiritualmente, chissà. Dio ci ghermisce, effettivamente. Non ci chiede tante autorizzazioni, e lo Spirito Santo sarà pure disceso sul Figlio <i>sicut columba</i>, ma su di noi cala spesso piuttosto</font><span style="font-family: 'Helvetica Neue Light', HelveticaNeue-Light, helvetica, arial, sans-serif;"> come un astore scagliato dal pugno di uno spietato falconiere, cacciatore inesausto d'anime e di corpi. Quando riesce dalla porta sinistra, il bimbo ha la faccia color rosso cupo come una mela Annurca, né, comprensibilmente, il conforto materno lo placherà. </span></div><div><span style="font-family: 'Helvetica Neue Light', HelveticaNeue-Light, helvetica, arial, sans-serif;"><br></span></div><div><span style="font-family: 'Helvetica Neue Light', HelveticaNeue-Light, helvetica, arial, sans-serif;">Il secondo. Al momento della comunione si forma, a destra dell'iconostasi, una lunga fila. A cenni le donne russe mi fanno segno di passare avanti: e vabbè, è la loro tradizione, ho rinunciato a contestarla. Gli uomini prima: solo qui, naturalmente, basta una conoscenza minima della letteratura per sapere che fuori dalla chiesa in Russia le cose vanno ben diversamente. Dopo aver creato innumerevoli ingorghi davanti al Sacramento, ho - come si dice - abbozzato. Eh, ma a Firenze il disagio si ripresenta, difficilissimo convincere un fiorentino, intriso di dolcestilnovo ben prima di sapere cosa significhi, nutrito di esso dalle forme stesse della natura e della cultura, permeato da esso per ogni senso, a passare avanti così a una donna. In questo senso la chiesetta russa tiene duro, non si assimila, non cede alla terra dei Fedeli d'Amore. Bene, ecco il fatto. Terminata la fila di uomini e di donne si forma un piccolo vuoto davanti all'altare, e in esso lentissimamente avanza una possente matrona, le braccia costrette in stampelle, il passo quasi totalmente impedito, assistita dai due lati da altrettante signore che la sorreggono con visibile sforzo. Che ti aspetteresti? Ovvio: che il prete discendesse immediatamente e premurosamente dai gradini recandole il calice. Invece no. Col volto impassibile il sacerdote resta fermo sui due piedi. E la donna si trascina. Si avvicina. Comincia a inerpicarsi sui pochi scalini con una caparbietà triste e paziente degna di un portatore nepalese. E ci arriva, al calice, e si comunica, e retrocede. Ecco: anche qui c'è come una sottilissima linea, non più grande di un capello, fra orrore e splendore, fra palese crudeltà e indecifrabile sapienza. Il pensiero si confonde, l'anima cade da una parte e poi dall'altra, solo lo spirito talora funambolicamente riesce a fare qualche passo. </span></div><div><span style="font-family: 'Helvetica Neue Light', HelveticaNeue-Light, helvetica, arial, sans-serif;"><br></span></div><div><span style="font-family: 'Helvetica Neue Light', HelveticaNeue-Light, helvetica, arial, sans-serif;">Perché, con buona pace della pecorella smarrita, che fa lasciare al buon pastore le novantanove pur di poterla ritrovare, non è così che van le cose. Tu sei un nodo di sofferenza, un'inadeguatezza, una tribolazione, una menomazione, uno spasimo, una ferita, un politrauma, un incessante incespicare. Tu pateticamente strisci, e Dio non se ne accorge neppure. Tanti poi sono i gradini che nemmeno sai se ti aspetti ancora davvero là sopra, forse solo lo speri, appena appena quello. E sei lì, nel terribile spazio di libertà di avanzare o rinunciare, di benedirlo o maledirlo, di amarlo o odiarlo. Sei come la povera donna, e già puoi dirti beato se hai qualcuno che ti regga dai due lati. Quel punto tragico e incandescente, quel punto di scelta in cui forse ti stai giocando tutta la partita. Basta, basta. Dio non può abitare in questo tormento, ti vien da dire. Basta così, e subito accorreranno tutte le ragioni del mondo a confortarti. Basta così, e il welfare spirituale si occuperà di rimuovere ogni barriera architettonica tra te e un divino pacioso e domestico, che ti verrà a far le fusa in grembo come un simpatico gattone. Basta così. Ma la donna nella chiesetta russa ha invece salito il suo piccolo atroce monte Calvario. Fede e Carità, forti sorelle - come avrebbe detto Péguy - le sostenevano le braccia. E la bimba Speranza soffiava le bolle di sapone davanti all'icona, e sembrava che non facesse nulla, invece era lei, era lei che faceva tutto. </span></div><div><span style="font-family: 'Helvetica Neue Light', HelveticaNeue-Light, helvetica, arial, sans-serif;"><br></span></div><div><span style="font-family: 'Helvetica Neue Light', HelveticaNeue-Light, helvetica, arial, sans-serif;"><div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiYrPWQwH-SFfxtI6jT9IOAKUvRP7ioj-LlYOIuWj-XSTOU14KXk9RtQTiIKbAAhhBwQ47G3xS6JYUwy49elzNQbSrSm722j1fXaTacRTbMaHJzxb7UtMLkXzpaqHlN7ZCHXLPcPEGiZnAS/s640/blogger-image--423138633.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiYrPWQwH-SFfxtI6jT9IOAKUvRP7ioj-LlYOIuWj-XSTOU14KXk9RtQTiIKbAAhhBwQ47G3xS6JYUwy49elzNQbSrSm722j1fXaTacRTbMaHJzxb7UtMLkXzpaqHlN7ZCHXLPcPEGiZnAS/s640/blogger-image--423138633.jpg"></a></div><br></span></div><div><span style="font-family: 'Helvetica Neue Light', HelveticaNeue-Light, helvetica, arial, sans-serif;"><br></span></div><div><div><br></div></div>leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-53513496040011959492015-04-17T03:15:00.003-07:002015-04-17T03:19:24.536-07:00Elfi, fate, gnomi e il Dolce Desiderio<div style="text-align: justify;">
Sembra oramai passato un secolo, tanto cattiva nuova segue a cattiva nuova, ma il volo Germanwings 9535 è sempre lì, sì, l’Airbus che è partito da Barcellona per Colonia e invece plana rapidamente, però anche lentamente, fino a schiantarsi nei pressi guardacaso di <i>Barcelonette</i>, nelle alpi francesi, proprio nei territori in cui Hugo immaginò la diocesi del vescovo Bienvenu dei <i>Miserables</i>. Quel volo – almeno nel mio <i>dentro, </i>ma forse anche in quello di molti – non ha ancora finito di precipitare nei luoghi più remoti e irraggiungibili (dai soccorsi razionali) del mio immaginario, non ha ancora finito di polverizzarsi. Eppure la vicenda è stata esaminata a fondo, i lacerti delle vittime – e anche del folle suicida, Lubitz, <i>Lubitz</i>, ossia figlio (-itz, come –sen o –son) del <i>lub</i>, cioè del love, lieb, libido, insomma, del <i>desiderio</i> – sono stati recuperati, e i genomi dei <i>de cuius</i> sono in via di identificazione. I parenti e gli amici hanno versato le lacrime che avevano e quelle che non avevano, come sempre succede. I capi della Lufthansa hanno annullato le feste dell’anniversario. La notizia, dopo una graduale retrocessione di pagina in pagina, di schermata in schermata, è alla fine scomparsa. Ma quell’aereo ancora sta girando ed ecco, un tizio come tanti, uno normalissimo, voglio dire: non un deviante, gli piglia un<i> amok</i> che anche un malese se lo sogna, entra nel Tribunale di Milano e spara al giudice, all’avvocato (il suo), al coimputato, e poi esce e se ne va in moto a Vimercate, dove viene arrestato: meglio così, essere arrestati a Vimercate non deve fare così male. Stiamo dando addio anche a lui, e speriamo che ora si prendano tutto lo spazio le futilità note della frammentazione della destra e della sinistra. Ma anche il tizio che spara ce l’ho dentro, è lì proprio dentro di me, e l’Airbus vola sopra Vimercate e lui lo guarda, assorto, perché <i>dentro</i> il tempo e lo spazio vanno diversamente, si confondono, si intrecciano, e già per esempio si sente il rumoreggiare dell’esplosione che presto verrà. </div>
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Per fortuna, nei momenti bui, vi sono anche notizie diverse, marginali certo, ma non tanto che internet non faccio girare qualche foto. ADN Kronos riporta che il Ministero per le Politiche Agricole e Forestali, da cui dipende il Corpo Forestale dello Stato, tiene da quindici anni un fascicolo su strani avvistamenti: e te la vedi lì fotografata, una cartellina d’un verduzzo burocratico che vien quasi da piangere, buttata su un tavolo, gonfia e aperta, mica un faldone tipo quelli americani con scritto <i>classified</i>, o <i>top secret</i>, o <i>confidential</i>, o <i>for your eyes only</i> che sembra quasi – tanto da esserlo davvero – il titolo di un film di 007, no no, una cartellina ministeriale con sopra scritto a penna <i>Gnomi e Fate del Bosco</i>.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiiKrqX3U0qwAbGW-O8Tbly4wtcSpjTs3tmIGgPFOgA_NQwn9KuFTFhItgMGvcvAuy_kwCo25ilSKQfgjcGL5rKCxuP117p-utkZVaHiIwZhWRGZi8t6UWKWSXBxKK-W3pTLfu03NVGSrDt/s1600/fascicolo+forestale+elfi+fate.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiiKrqX3U0qwAbGW-O8Tbly4wtcSpjTs3tmIGgPFOgA_NQwn9KuFTFhItgMGvcvAuy_kwCo25ilSKQfgjcGL5rKCxuP117p-utkZVaHiIwZhWRGZi8t6UWKWSXBxKK-W3pTLfu03NVGSrDt/s1600/fascicolo+forestale+elfi+fate.jpg" /></a></div>
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Non poteva certo Gianluca Nicoletti, giornalista e creatore di<i> Golem</i> e di <i>Melog</i>, e frequentatore delle zone anche più eterodosse e bizzarre della contemporaneità – astenersi dall’esercitare il suo affilato e a tratti perfido rotacismo proprio su questa notizia che affiorava in mezzo alle tragedie. E lo ha fatto con una mezz’oretta godibilissima di radio. C’era pure il collegamento telefonico con l’Esperto (esiste ovviamente anche l’Esperto di folletti). Si raccolgono testimonianze, e immediatamente – come dice Nicoletti: nell’ora del soffritto, ossia tra le dodici e mezza e il tocco – millanta telefonate ingorgano il centralino. Raccontano di fate bellissime che seducono nelle notti di luna i giovanotti danzando con loro, tradite però dai loro zoccoli caprini; di coboldi che si introducono in pensioncine di Francoforte e terrorizzano brianzoli impegnati ad elaborare una cena pesante; di streghe buone che accompagnano i pellegrini sul Cammino di Santiago; di monoliti neri e terribili che balzan fuori dall’inconscio collettivo, o da dimensioni liminali, con intenti omicidi; di viscide ombre che ti toccano nella torrida controra siciliana; di un Bigfoot avvistato in val Grande, e che poi non era un Bigfoot, ma in effetti un ex autista di autobus di Gallarate, impazzito per una delusione d’amore e inselvatichitosi fra i dirupi (e questo è ben più prodigioso di un Bigfoot, un autista di Gallarate che diventa erede del Chisciotte e dell’Orlando). E non può mancare alla fine il dottore, che dice che c’è una sindrome chiamata “di Bonnet” che genera allucinazioni antropomorfe. Come questo accada non si è capito, sembra abbia a che fare con la retina, ma certamente è piuttosto rassicurante chiamare le visioni <i>sindrome di Bonnet</i>. </div>
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Mi ricordo l’episodio delle fate di Cottingley. Allora. In un paesino del West Yorkshire, in Inghilterra, nel 1917 (sarà il caso di ricordare che nel medesimo anno, a Fatima, la Vergine appare in Portogallo ai tre pastorelli Francisco, Giacinta e Lucia? Fatima c’entra con tutto) ci sono due ragazzine – Frances e Elsie, di dieci e sedici anni – molto sveglie anche se dai volti sognanti. I loro cromosomi si sono formati nell’abbraccio di quelli appartenenti a un ingegnere con quelli appartenenti a una teosofa: il che credo spieghi molto. Fatto sta che un giorno le ragazzie prendono la macchina fotografica a lastre del padre, vanno nei pressi del Cottingley Beck, il torrente che scorre vicino, e realizzano alcuni scatti in cui compaiono – chiarissimamente – delle fate, fate di quelle inglesi, per intenderci, piccole, con i capelli lunghi e le alucce di farfalla o di libellula, che danzano e suonano il flauto. Ovvio che il padre pensi che siano false, e che la madre sia invece assolutamente certa della loro autenticità, e le diffonda. Ne vien fuori un dibattito che non ha precedenti nella storia, pur infinita, dei tentativi umani di fornire ‘prove’ dell’esistenza del <i>sopra-</i>, del <i>preter-</i>, del <i>para</i>naturale. Studiosi e intellettuali si schierano – anche attraverso articoli su riviste che oggi definiremmo ‘censite’ – a favore o contro. Progressivamente le ragazzine ammettono che insomma, non sanno bene, poi che certo, l’immaginazione e il volerla veder realizzata ha avuto la sua parte, poi che alcune erano false ed altre no. Fotografi e scienziati ne discutono fino agli anni settanta. A metà degli anni ’80 Frances ed Elsie sono morte: ma Frances, fino alla morte, affermò la piena autenticità almeno della quinta fotografia.</div>
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E’ interessante sapere che il paladino più insigne dell’autenticità delle foto di Frances ed Elsie sia stato il superpositivista sir Arthur Conan Doyle, ossia il celebre autore di Sherlock Holmes. Vi scrisse anche un libro: <i>The Coming of the Fairies</i>, nel 1922. Nell’introduzione al suo straordinario <i>Pilgrim’s Regress</i>, anche lo scrittore cristiano CS Lewis prende posizione su questa vicenda. Nella sua accurata fenomenologia del desiderio – che egli identifica come componente strutturante dell’esistenza umana, e accesso privilegiato all’esperienza spirituale – esso viene descritto come qualcosa di acutissimo e in sé stesso desiderabile. Questo lo distingue dalle altre voglie: la fame può essere qualcosa di gradevole solo in previsione di un buon pranzo, altrimenti è solo spaventosa: ma il desiderio no, esso è ritenuto prezioso anche se non vi è in vista alcuna possibilità di soddisfazione. Inoltre, pur essendo certamente volto verso un oggetto, esso è impreciso e mutevole: un luogo lontano, o forse la persona amata, o magari no, forse la magia, o magari la conoscenza intellettuale delle cose. Insomma – direi – l’esotico, oppure l’erotico, oppure l’estetico, oppure la conoscenza scientifica, ma in realtà niente di tutto questo, in realtà di Chi si manifesta attraverso questi aspetti, che sono sue soglie, ma che è molto molto di più. <i>Quando sir Arthur Conan Doyle pretese di aver fotografato una fata, io – in effetti – non gli credetti: ma il semplice fatto di averlo affermato (…) mi ha fatto realizzare che se il fatto fosse stato accertato avrebbe ‘paralizzato’ – piuttosto che soddisfatto – il desiderio che le fate avevano fino ad allora risvegliato. Una volta acclarato che il tuo mondo fatato, la tua foresta incantata, i tuoi fauni, i tuoi satiri, le tue ninfe del bosco e la tua sorgente dell’immortalità sono ‘reali’ – con tutte le conseguenze che vi sarebbero sul piano scientifico, sociale – il Dolce Desiderio sarebbe scomparso da quel mondo e ci starebbe chiamando da un luogo ancor più lontano</i>, scrive Lewis. Se posso fotografare una fata, questo significa che fa parte dell’aldiqua, che quindi potrei catturarla, classificarla, tassonomizzarla, cercare di comprenderne il comportamento, magari sezionarla per descriverne l’anatomia. Non solo potrei: dovrei. Ma - così facendo – il desiderio prenderebbe dimora Altrove, perché non è nell’aldiqua che lui abita. </div>
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Credo che questo sia l’errore della Randi Foundation, che promette un milione di dollari a chiunque sia in grado di dimostrare una qualunque facoltà paranormale o soprannaturale in condizioni di adeguato controllo. Chi lo facesse avrebbe soltanto dimostrato che qualcosa ritenuto soprannaturale è in effetti assolutamente naturale, solo che fino ad allora non era stato osservato correttamente. Le sedute spiritiche avvengono in luoghi bui: mi sembra chiaro. Come è evidente che non ti leggo i pensieri e non ti piego le posate a comando, per di più mentre sono dentro una macchina per risonanza magnetica. Domanderei volentieri a uno del CICAP di far l’amore con la sua morosa sotto le luci di una sala operatoria, con osservatori e valutatori da ogni lato, con i corpi di lui e di lei cosparsi di sensori e con le loro teste strette nei caschetti pieni di fili di un EEG. Se ci riesce è di sicuro bravo, ma se non ci riesce – come è probabile – non penso che la sua conclusione sarebbe che andare a letto con la sua morosa è impossibile. Sosterrebbe che le condizioni non erano adatte. Presumibilmente, perché vai poi a vedere come si comportano a letto quelli del CICAP.</div>
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Quindi non so cosa pensare del fascicolo verdolino della Forestale, delle foto e dei racconti che ci sono dentro. Però mi chiedo che esperienza mai sarebbe incontrare una persona che tenesse nelle sue mani, nei suoi occhi, nel suo cuore, nel suo corpo il quotidiano e lo straordinario, il reale e il magico, il naturale e il soprannaturale, l’effimero e l’eterno. Il divino e l’umano. Cosa sarebbe guardare questa persona. Mi immagino che all’inizio la sensazione sarebbe di disagio, forse anche un po’ di nausea, perché il Dolce Desiderio, allenato com’è a scartare le zeppe consolatorie di falsi compimenti, proverebbe con tutte le sue forze a scartare anche il Vero Compimento. Chiuderemmo gli occhi, no, no. Ma riaprendoli, eccola ancora lì. Il Dolce Desiderio la avvolge adesso come un mantello: eppure ecco, la puoi toccare, satura i sensi ma non li distrugge. <i>Hai mai conosciuto persona che fosse molte cose in una, le portasse con sé, che ogni suo gesto, ogni pensiero che tu fai di lei racchiudesse infinite cose della tua terra e del tuo cielo, e parole, ricordi, giorni andati che non saprai mai, giorni futuri, certezze, e un’altra terra e un altro cielo che non ti è dato possedere</i>? dice Endimione al dio straniero nei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese. </div>
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Forse qualcosa del genere è accaduto ad alcune donne e ad alcuni pescatori, forse dico, a Gerusalemme, in una sera di Pasqua come queste. Noi continuiamo solo ad aver dentro il Dolce Desiderio, come abbiamo dentro il volo Germanwings, e il tizio che spara, e l’esplosione che verrà.</div>
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L’ormai noto antefatto: Papa Francesco visita Napoli. Il duomo immenso, la navata sinistra transennata per restauri. Sul presbiterio si trovano le claustrali, che per l'occasione sono state dispensate dalla loro severa disciplina di reclusione. Gran sorrisi monastici e battimani. A un certo punto alcune di loro, in un improvviso svolazzar nero di veli, in un subitaneo lampeggiar bianco di soggoli, in un imprevisto scintillar metallico di croci e di cuordigesù, si fanno attorno al Pontefice, recando una scatola che a me sembra possa contenere una torta. Di che ordine siano non si può dire, bisognerebbe avere sottomano almeno un’edizione della <i>Monacologia</i> di Joannes Physiophilus, caustico settecentesco classificatore delle specie e delle sottospecie monastiche secondo lo stile della filosofia naturale del tempo. Io, che della scienza sono solo dilettante, mi azzarderei a dire che siano Passioniste. In piedi, il Cardinal Crescenzio Sepe – che si era già distinto poco prima nel meraviglioso<i> Anche i ciechi volevano vedere il Papa</i>, frase su cui si è abbattuta e ancora si sta abbattendo l’ironia di Spinoza.it. - le ammonisce bonariamente in vernacolo: “Oh oh oh, dopo, uè! Guard’ accà! Sorelle dopo, ja, sorelle, dopo! E cchiste so’ di clausura, figuriamoci quelle di non clausura! Aé-eh: e chille se lu mangiano n’atru poco eh! Sorelle ja, mannaggia a chille!”</div>
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Nel salottino buono della TV, più tardi, fra Fazio, il chierichetto del benpensar borghese, parla come al solito con la giullarina ufficiale Luciana Littizzetto seduta sulla sua scrivania. Lei dice: “Non si capisce se erano tutte attorno al Papa perché non avevano mai visto un Papa o perché non avevano mai visto un uomo”. Che ridere. Ma il problema viene fuori adesso.</div>
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Le Trentatre. Sissignori, proprio le Trentatre, che trentatre più non sono, eh, ma insomma, loro, che indipendentemente dal loro numero sono e rimarranno le Trentatre. Le allodole sacre che da cinquecento anni cantano dalla colombaia del Protomonastero di Santa Maria in Gerusalemme di Napoli. Le Trentatre, proprio loro, figlie di una riforma francescana caratterizzata da un rigore folle e da un ancor più folle amore, le Trentatre Clarisse Cappuccine. Ebbene, le Trentatre pare guardassero Fazio. Già questa sola notizia basterebbe a far vacillare le fondamenta del cosmo, a sciogliere i legami fra i pianeti, altro che eclisse. Le nobili Trentatre guardavano <i>Che tempo che fa</i>. E hanno sentito la Littizzetto. E, siccome anche loro erano nel duomo, le Trentatre, e avevano visto la scena, pur non essendo loro le frullanti e un po’ appiccicose pasticcere, le sventurate Trentatre rispondono. Alla Littizzetto. E dove: su Facebook. Perché le Trentatre hanno un account Facebook. E anche un website, un dominio che sa un po’ di medicale, cappuccine33. Avete capito bene: le Trentatre rispondono alla Littizzetto sul loro profilo Facebook.</div>
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E cosa rispondono, le Trentatre? Ah, la risposta va riportata integralmente. <i>“Ci dispiace che la signora Littizzetto, che abbiamo apprezzato in altre occasioni, abbia pensato che le "represse" monache di clausura stessero aspettando il papa per abbracciare un uomo... probabilmente per fare questo avremmo scelto un altro luogo e ben altri uomini... se avessimo voluto... Non sarebbe forse il caso, cara Luciana, di aggiornare il tuo manzoniano immaginario delle monache di vita contemplativa????”</i>. Quattro punti interrogativi, a questo punto metti anche un emoticon con la linguaccia, hai fatto trentatre fai trentaquattro, No: niente faccine. Peccato.</div>
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Dunque: gli errori delle sventurate Trentatre.</div>
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Primo, aver visto <i>Che tempo che f</i>a. Fossi papa Francesco, solo questo particolare mi basterebbe per esclaustrarle tutte con ignominia. </div>
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Secondo errore: rispondere alla Littizzetto. Nel mio mondo ideale le cose sarebbero andate così. Una pia donna si reca alla ruota del Monastero per comprare della marmellata e dice alla portinaia: “Vulite sapé? La Littizzetto parlò di voi alla televisione” “Chi, brava donna?” “La Littizzetto! L’attrice!” “Qui non entrano le cose del mondo, brava donna. Ma dal momento che me lo state dicendo, offrirò in Quaresima preghiere e dolori per quest’anima da Dio amata e cercata: e possano le intercessioni di me, indegna e povera serva, ottenere per lei grazie dall’Altissimo”</div>
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Terzo errore, il più grave. Il contenuto della risposta. Quello proprio non va. </div>
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Dicono le Trentatre che – se avessero voluto abbracciare un uomo (scrivono "abbracciare", ma la Littizzetto aveva detto "vedere", e questo freudian slip è la parte più bella del messaggio) - avrebbero scelto un altro luogo. Si intende: rispetto a una chiesa. E quale, di grazia? Un motel con lenzuola rosse e specchi sul soffitto? Nessun posto come una chiesa è adatta a ospitare l’amore peccaminoso, perché vuoi mettere il gusto di farlo proprio lì, davanti al Padre Eterno che freme di sdegno per la sua figlia, davanti allo Sposo Eterno che muore di gelosia per la sua sposa? Vuoi mettere il gusto di farlo proprio lì, e poi affidare l’ignaro amante alla spaventosa vendetta di Dio? </div>
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Dicono le Trentatre che – se avessero voluto abbracciare un uomo – avrebbero scelto un ben altro uomo. <i>Hombre!</i> E chi? Qui mi s’offende il fascinoso papa della pampa. Cioè loro avrebbero preferito veramente un <i>quisque de tronistibus</i> al Romano Pontefice dal soave accento spagnolesco? Una qualunque delle <i>milf</i> di youporn le ritererrebbe con ragione prive di gusto.</div>
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Dicono le Trentatre che si deve aggiornare? Brutto giorno quando si aggiorna, almeno nei monasteri, fortiapache non solo di Dio, ma anche del Tempo e dell'Immutabile. Immaginario manzoniano? Magari. L’immaginario manzoniano è strepitosamente sexy, e ancor di più lo è quello verghiano di Storia di una Capinera. Leggessero, le Trentatre (magari anche su un lettore ebook), anziché guardare Fabio Fazio alla TV, media obsoleto, come donnicciole qualunque nello squallore tiepido dei loro tinelli.</div>
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Se proprio volevano. E non dovevano, no, non dovevano. Se proprio volevano rispondere, le Trentatre, potevano magari fare così. Si prendeva un calamaio vuoto e ognuna delle Trentatre vi versava un po’ di sangue vivo fatto sgorgare dal proprio polso. Poi una di esse vi intingeva il pennino e cominciava a scrivere. </div>
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<i>Tu non conosci il nostro Sposo, di cui noi siamo l’harem doloroso ed esultante, tu non sai come lo amiamo e quanto ci fa morire con la Sua assenza. Figlie di altissimo lignaggio, Noi Trentatre offriamo notte e giorno i nostri corpi, le nostre anime e i nostri spiriti alla sua torturante passione. La Santa del nostro Ordine – Veronica Giuliani – fin da piccola riconosceva il suo Promesso dall’odore. Soffrire per Lui era la sua via d’amore, come oggi è la nostra. Da bimba metteva le mani sulle fiamme, si coronava di spine, si pungeva fra i rovi, si caricava di pesantissime croci di legno, e altre ne disegnava sui pavimenti con la lingua. E – quando fu monaca – il suo ardore per la sofferenza amantissima si moltiplicò. Nessuna ripugnanza le rimase ignota, espose il suo corpo a ogni genere di tormento. Ricevette le stimmate, e la ‘lancia d’oro tutta infuocata’ di Gesù ‘le passò il cuore da banda a banda’. Costruiva macchine per infliggersi dolore. Dopo la morte il suo cuore venne aperto, e si riscontrarono nella sua parte interna le cicatrici fatte a forma di croce e di lancia. Noi non siam sante, ma siam sue sorelle, e la nostra via è la stessa, come pure il nostro Uomo. Lo vuoi conoscere? Vieni da noi, vieni con noi, non che non siamo gelose, anzi, siamo gelosissime, ma che possiamo farci, Lui vuole anche te, e vuole abbracciarti nel dolore. Vieni da noi, vieni, prova, vieni con noi nelle trentatre sfumature di fuoco.</i></div>
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Invece no. Le Trentatre hanno risposto così, su Facebook.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiefTtrap0WEwK5Y-Ye_Im-i9Zd_bnkv5JUxDjIVeQW4nuzWu8C2gmzXrAG0zhvGrf1oufCJmMMS1RawZ2LhzLJ9MzWqERGp7f1fShi10OAMiUSDDnJTAGux0K0wr_Cg61G68qrNX4Xw5dO/s1600/albertoni+bernini.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiefTtrap0WEwK5Y-Ye_Im-i9Zd_bnkv5JUxDjIVeQW4nuzWu8C2gmzXrAG0zhvGrf1oufCJmMMS1RawZ2LhzLJ9MzWqERGp7f1fShi10OAMiUSDDnJTAGux0K0wr_Cg61G68qrNX4Xw5dO/s1600/albertoni+bernini.jpg" height="246" width="320" /></a></div>
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leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-20702049000783735172015-02-13T14:45:00.001-08:002015-02-14T13:03:50.214-08:00Mmmh. Turner e i borborigmi dell'anima<div><br></div><div>Che anche se Turner fosse un <i>biopic</i>, e non lo è, batterebbe alla grande almeno gli altri biopic che ho visto in questo periodo. In particolare il <i>vecchio malmostoso</i> di Leigh e Spall annullerebbe il <i>giovane favoloso</i>, il Leopardi di Martone e Germano, mostrandogli come si fa a vivere, ad amare, a creare, a soffrire e a morire senza tanti contorcimenti concupiscenti su piedini affusolati di nobildonna avvolti in scarpine di raso e senza tanto latinorum, graecorum et hebreorum assorbito nella austera Recanati. Ah no, no, qui c'è il formicaio londinese di poveracci e gentiluomini sulle sponde del Tamigi, e l'inglese lo si parla strascicato. <span class="Apple-tab-span" style="white-space:pre"> </span></div><div><br></div><div>Eppure appunto biopic non è. Quella è solo una maschera. Non è un film su William Turner il pittore della luce e del mare. All’uscita dal cinema ci dicevamo: <i>ti è piaciuto? Non so. Ci devo pensare. C’è qualcosa che non torna. Però belle le inquadrature di albe e tramonti. Un po’ lungo, un po’ pesante, eh. La luce bianca dava un senso di struggimento. Luce bianca? ma dove l’hai vista, io ho visto solo colori contraddittori! Mi ha lasciato tristezza, strano</i>. E effettivamente fuori la sera era fredda e bella, con un gran vento che veniva dai Balcani – o dalla Scandinavia, non so – e c’erano tante stelle e una luna calante tutta distesa all’orizzonte, ma il filo della serenità interiore lo avevamo perduto.</div><div><br></div><div>La bellezza è sparsa e trabocca nel cosmo – velo di Maya o rivelazione di Dio nessuno lo capirà mai - e il corpaccione di Turner/Spall, fatto per trasportare il suo occhio bovino (esaminato dal dottore, che individua i segni del male proprio lì, nell’occhio del Maestro), sì, quell’occhio tondo, per trasportarlo arrancando asimmetrico su e giù per le campagne e le scogliere purché possa vedere, altri non è che l’uomo, materia grossolana, eppure fatta per riconoscerla ed amarla. L’uomo-Turner, quello che si fa legare come Odisseo all’albero di un veliero pur di fissare l’occhio nella danza stessa di Shiva, fatta di neve, di pioggia, di schiuma, di ebbrezza, di caos. E che prova a restituirli su tele sette per tre, gettandoci sopra biacca, sputi, torli d’uovo, unghiate, rosso scarlatto e blu oltremare che viene dall’Afghanistan fin nella bottega piena di topi di un furbo droghiere che lo vende carissimo, e rabbia, e stupore, e costernazione, e angoscia, e soprattutto <i>mmmh</i>. </div><div><br></div><div>Per il resto non c’è quasi niente: ovverosia, c’è tutto, ma è un tutto che è quasi niente. <i>Mmmh</i>. C’è un padre affettuoso con le sue manie, che si traduce e s'invera nel figlio, e che muore maledicendo, rispettando, ringraziando e ridendo (tutto insieme) della baldracca di sua moglie. <i>Mmmh</i>. C’è una donna arcigna e antica amante che periodicamente lo raggiunge al fine di rinfacciargli la sua trascuratezza, accompagnata dal corteggio di figlie illegittime e malate. <i>Mmmh</i>. C’è una serva (<i>damsel</i>) che fa la tragica vestale dei suoi quadri, una donna dallo sguardo vacuo e triste e buffo, perseguitata da un esantema che progressivamente le ridurrà la pelle a una piaga, come se fosse un crocefisso barocco, una che lo ama tanto con quel poco d’anima che ha, e sulla quale lui ogni tanto sfoga le sue voglie senza – come scrive Mariarosa Mancuso – <i>sentirsi in dovere di fare conversazione</i>. Anzi: <i>Mmmh</i>. Ci sono i colleghi artisti dell’Accademia: e l’Accademia – per chi un po’ la conosce oggi – non è davvero mai cambiata, misto com’era ed ancora è di grandezza e di miseria. <i>Mmmh</i>. Ci sono le damerine e i damerini, c’è un John Ruskin protofighetto prodigio che fa il giocoliere delle parole, c’è una giovane regina Vittoria che passa sprezzante lasciando cadere un regale ferale giudizio sui suoi quadri e così condannandoli all’esilio, presto sostituiti da smorti preraffaelliti. <i>Mmmh</i>. Ci sono i pescivendoli e i marinai, uno dei quali recante il peso del servizio sulle navi negriere. <i>Mmmh</i>. C’è la Signora Booth, sorridente e accudente, che offre, a lui che la inganna, una camera serena sul mare, un tè, la pulizia delle scarpe, e il suo corpo di vedova solida e matura, pieno di rughe ma con gli occhi accesi. <i>Mmmh</i>. Sì. Perché - se, come dicono neurofilosofi come John Searle - il cervello sta alla coscienza come l'intestino sta alla digestione, allora potrà anche emettere dei borborigmi. E altroché se Turner ne produce, in uno staccato che accompagna tutto il film. </div><div><br></div><div>Come si rappresenta Dio? Come si scrive l'icona di Dio? Con la luce, evidentemente. <i>Deus lux est et in eo tenebrae non sunt ullae</i>. I sapienti bizantini lo sapevano bene però che questo nesso - ove reso assoluto - nascondeva una trappola filosofica, la stessa che celerebbe, ove sempre assolutizzato, il pensarlo come tenebra, come è stato fatto - dopo i grandi apofatici antichi e medievali - dai grandi mistici carmelitani (<i>En una noche oscura, con ansias en amores enflamada, ¡o dichosa ventura!</i>) fino ai tedeschi Silesio e Eckart. Allora essi avvolgevano la veste del Trasfigurato e del Risorto in una veste dal candore sovrannaturale, ma lo sfondo derivava gradualmente verso un nucleo di blu impenetrabile. Turner cerca di dipingere Dio strappando il colore alla forma, e poi la luce al colore medesimo. Divorziando dalla forma, come viene detto anche nel film, e anticipando di molti anni <i>l'Impression</i> di Monet. Sul suo volto di bulldog si spalanca l'occhio a cercarla cercarla cercarla questa luce inesprimibile. </div><div><br></div><div>Rimane la questione aperta della forma. <i>Il sole è Dio</i> dice Turner sul letto di morte. <i>O Lux ave spes unica</i> ? E quando - poco prima - gli viene detto dal medico che ne avrá per poco, esclama: Vuol dire, dottore, che sto per trasformarmi in una <i>nullità</i>? Il dottore replica: Faccio fatica a pensarla come una nullità, Maestro. Ma Turner ha ragione. Se la luce è Dio, cosa rimarrà di noi quando l'occhio definitivamente si chiude? Quella luce che per svelarsi tale ha bisogno di un ostacolo opaco?</div><div>In un film allo stesso tempo somigliantissimo e diverso (Ebbro di donne e di pittura del regista coreano Kwon-taek Im) il pittore Jang Sung-eop, contemporaneo di Turner sull'altra parte del pianeta, vive la stessa lacerazione tra materia e spirito, tra volgarità e raffinatezza (<i>Dovevo prendere i miei colori!</i> protesta contro quelli che lo vengono a prelevare in un rozzo bordello per riportarlo alla rarefatta corte imperiale), ma non abbandonerà mai la forma. Al contrario, la inseguirà fino alla sua purezza quintessenziale. </div><div><br></div><div>Il genio del cristianesimo è la scoperta che non soltanto la forma non si oppone alla rappresentazione della luce, ma ne è la sola possibilità di manifestazione. La luce taborica avvolge il corpo del Cristo, non lo sostituisce. Una volta, tanto tempo fa, ho visto un presepe non cristiano. Mi trovavo all'eremo di Camaldoli, fra la neve delle foreste casentinesi, e un giovane novizio camaldolese - scultore - aveva realizzato quell'anno il presepe, i cui personaggi ricordavano un po' le morbide figure di Henry Moore. Sorprendentemente il Bambino non c'era, rappresentato da una candela accesa. San Giuseppe e la Madonna avevano un frammento di specchio sul petto, in cui tale luce si rifletteva. L'idea era bella e suggestiva: ma, appunto, non cristiana. E sembrava piuttosto strano che i santi monaci dalle bianche e luminose cocolle cantassero, attorno a quel presepe, il misterioso prender forma di Dio nel Natale sulle belle melodie composte del monaco californiano Thomas Matus. </div><div><br></div><div>Il film, questo, lo fa capire benissimo, e sempre attraverso le prostitute, categoria che non per niente nel Vangelo riscuote da parte del Signore una speciale e singolare predilezione. Una prima volta Turner va in un bordello - per dipingere - e davanti alla ragazzina nuova che gli mandano (Elisa o Lisa, che importa in effetti il nome) così bella, così docile, così rassegnata, così abbandonata, ecco, rompe in un pianto terribile e devastato, uno dei più bei pianti che io ricordi di aver visto al cinema. E una seconda volta quando la risacca porta sugli scogli il cadavere, bianco come un giglio, di un'altra ragazza, e lui malatissimo afferra carta e carboncino ed esce in camicia e a piedi nudi, attonito, cercando di disegnare quando dovrebbe forse invece adorare la bellezza della forma umana che in quanto tale (e non in virtù di una particolare qualità o resistenza ontologica) mai la morte potrà ridurre a nullità. Anche se cosa diventi dopo non sappiamo, e chissà se sapremo mai. </div><div><br></div><div>Non si compie - almeno nel film - il mistero pasquale della forma o quello taborico della trasfigurazione. La luce non viene drappeggiata attorno al corpo umano, immagine-e-somiglianza e suprema icona. Turner continua a cercarla nel cosmo, nella natura, soprattutto nel mare e nelle marine. Eppure nella prima scena lo vediamo tornare dall'Olanda dove ha visto Vermeer e Rembrandt - che della luce e dell'uomo, qualunque cosa possa dirne Florenskij ne <i>Le Porte Regali</i>, certo sapeva molto. E il cosmo gli va incontro, ci prova a parlargli, e il mare geme e soffre per sciogliere il segreto, depositandogli davanti all'occhio - come ho detto - il più tragico e incantevole dei relitti. Ma la trasformazione non si compie. </div><div><br></div><div>Così la luce estenua a colpi di pennellate d'incanto la sagoma della valorosa <i>Temeraire</i>, mentre un fumigante rimorchiatore la trascina (e Turner, e noi con lei) verso un futuro non di <i>Nulla</i> (che sarebbe Nirvana, Vacuità, la forma è vuoto e il vuoto e forma del Sutra della Prajnaparamita, ogni giorno recitato nei monasteri zen), ma di nullificazione. <i>Mmmh</i>. </div><div><br></div><div><br></div><div><br></div><div><br></div><div><br></div><div><br></div><br><div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhUmJwCilIoZ5R5PfsAubGDYHpVgoucDN4HvEsXxfM1uO9Wgk0Fl-_E2JOqfHF2SlM-xbsJvr2CAaBLxjiPizTLI5ISoYt5WOPFb9S8vdNGliosJwCWkB0hG-G2DPQ27DAOM5YCUp1YGVCM/s640/blogger-image-1524304787.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhUmJwCilIoZ5R5PfsAubGDYHpVgoucDN4HvEsXxfM1uO9Wgk0Fl-_E2JOqfHF2SlM-xbsJvr2CAaBLxjiPizTLI5ISoYt5WOPFb9S8vdNGliosJwCWkB0hG-G2DPQ27DAOM5YCUp1YGVCM/s640/blogger-image-1524304787.jpg"></a></div>leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-5100779330225822852015-01-09T05:21:00.000-08:002015-01-30T23:17:39.277-08:00Fratres in Nihilo - Rue Nicolas Appert, 7 dicembre 2015Bisognerebbe tornare a quando eravamo bambini.<br>
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Perché da bambini abbiamo vissuto tutto, il cielo e la terra, il paradiso, sì, ma anche l’inferno: che non sono luoghi – o condizioni – verso cui andiamo, piuttosto sono luoghi – o condizioni – da cui proveniamo. E quando, chissà, essi si manifesteranno al termine della nostra avventura umana, li riconosceremo, perché ci siamo già stati: in quel guazzabuglio misterioso di estasi e strazio chiamato infanzia.<br>
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Bisognerebbe tornare a quando siamo stati bambini, e rintracciare un’esperienza in cui siamo stati derisi, oppure in cui altri hanno deriso ciò che per noi era caro. Non faremo fatica a trovarla, in qualche anfratto dei ricordi c’è sempre. Bisognerebbe far risalire l’urlo delle emozioni, riprovare la faccia che avvampa, e illividisce, e ancora avvampa, lasciare che lacrime d’odio, d’amore e di dolore scavino brucianti le nostre guance, sentire i pugnetti che si chiudono a martello e i muscoli tesi.<br>
<br>
E’ allora che – auguriamocelo – qualcuno, uno più grande, un padre per esempio, si è seduto con noi, ci ha guardato, ci ha ascoltato, ci ha parlato, ci ha tenuto e contenuto, consentendoci di capire come le cose veramente importanti e sacre siano collocate in un luogo invulnerabile ai botoli ringhianti dell’irrisione. Rendersene conto ci ha permesso di vederli quali erano. Come nell'affresco dell’Angelico, la canaglia è già in pezzi: facce, sputi, canne, mani, tutto sospeso nel niente: mentre la maestà del Cristo rimane inviolata e inviolabile, e san Domenico può sedere in pace ai suoi piedi, studiando la Scrittura con intelligente fervore.<br>
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Auguriamoci che sia andata così. Altrimenti, forse, in quel momento abbiamo rischiato grosso. Se non ci fosse stato nessuno a darci la misura della invulnerabilità del sacro, e se la cosa a noi più cara, più cara della vita nostra e di quella degli altri, fosse rimasta in balìa dell’insulto, se addirittura ci fossimo resi conto che quella cosa cara non esisteva affatto, allora il pugnetto chiuso, diventato adulto, avrebbe potuto inserire il caricatore caratteristicamente ricurvo, pieno di munizioni calibro 7,62, nel corpo dell’<i>Avtomat Kalašnikova 47</i>, e poi spingere una porta e uscire nel mattino invernale di Parigi per recarsi ad un tragico appuntamento<br>
<br>
Il rapporto tra Dio e la risata è interessante, complicato, controverso. A diciotto anni lessi Il nome della rosa. Ero sedotto e intrigato dal medioevo, e dall’ambientazione monastica. Se pure ero consapevole che quel libro racchiudesse fra le pagine un’idea inquietante, non ci facevo tanto caso: tifavo per i politicamente scorretti: il terribile inquisitore domenicano Bernardo Gui e il mistico Ubertino da Casale; mi identificavo col giovane Adso ingenuo e innamorato, mentre non amavo tanto l’eroe, lo Sherlock Holmes in saio francescano Guglielmo da Baskerville. Dunque: il dolce e conturbante Adelmo da Otranto, eccellente miniatore, lavora sulle decorazioni marginali e lascia sbizzarrire la sua fantasia creando cose ridicole, sotto il pretesto che Dio si rivela nel contrario e nel difforme, secondo la dottrina dell’Aeropagita e dell’Aquinate. Come non capirlo, lo dico da sempre che Dio predilige il cattivo gusto, il kitsch anche estremo (sulla mia scrivania, in questo momento, una statuetta di papa Francesco con testa snodabile annuisce compunta). Ma il cupo vegliardo Jorge da Burgos lo detesta, non tollerando di vedere <i>l’asino che suona la lira, l’allocco che ara con lo scudo, i buoi che si attaccano da soli all’aratro, i fiumi che risalgono le correnti, il mare che s’incendia, il lupo che si fa eremita</i>, non sopportando di <i>cacciare la lepre col bue, di farsi insegnar grammatica dalle civette</i> e che<i> i cani morsichino le pulci, gli orbi guardino i muti e i muti domandino pane, la formica partorisca un vitello, volino i polli arrosto, le focacce crescano sui tetti, i pappagalli tengano lezione di retorica, le galline fecondino i gall</i>i, eccetera. Morirà, Adelmo, e dopo di lui un corteo di monaci, tutti quanti accomunati dall’interesse per l’ultima copia di un libro pericoloso, seppellito prima nel labirinto della Biblioteca e poi nello stomaco di Jorge: il secondo libro della Poetica di Aristotele, che tratta della commedia e del riso. Il nome della rosa parla della satira, e in particolare della satira applicata alle grandi idee umane, e ancora più specificamente a Dio.<br>
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Ah, qui nessuno vuol fare l’apologia di Jorge e della sua tetraggine. Tuttavia – bisogna ammetterlo – ridere di Dio e su Dio non è affatto scontato. Provoca sempre un brividino lungo la schiena. Qualcosa dentro di noi ci ammonisce di scherzar coi fanti e – i santi – di lasciarli stare. Ridere di Dio, irridere Dio, implica sempre una connessione con lui, e ci mette a disagio. La bestemmia rimane tale anche se si è placidamente agnostici.<br>
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Sfolgorava la Triade-Monade divina presso Mamre, recando ad Abram la promessa di una discendenza innumerevole. Ma Sara, pensando con pratico realismo al coito fra centenari e alla sua buffa improbabilità, scoppiò a ridere, provocando l’immediato corrucciarsi del Signore. Chi ride manca di fede? Forse, e nondimeno la risposta è il bimbo Yitzhaq, Isacco, <i>risata di Dio</i>. Eppure ci manca l’icona evangelica di Gesù sorridente, quando – almeno una volta – ce l’aspetteremmo. Ma non c’è. L’uomo-Dio piange, e spesso: ma del suo ridere nessuno ci ha raccontato. E Giovanni Crisostomo sosterrà che non lo fece mai.<br>
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Si potrebbe fare un lungo e dotto discorso sul senso antropologico e sociologico del riso. Rimando a Georges Minois e alla sua monumentale H<i>istoire du rire e de la dérisio</i>n. Io – che amo il pop – richiamerò soltanto il tenero e patetico desiderio di sorriso divino di Massimo Troisi in Scusate il ritardo. Il prete gli propone di andare a vedere una statua della Madonna che piange. Troisi/Vincenzo risponde che no, è deprimente vedere gente che piange, ma che se la Madonna ridesse lui ci andrebbe. Il buon prete si indigna, ma lui replica: <i>Sempre miracolo è!</i><br>
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Insomma, non si può negare una certa tensione fra Dio e quella particolare modificazione del respiro, quelle scosse della laringe, quella contrazione tipica dei muscoli del viso. quello scoprirsi delle arcate dentarie, e nei casi più estremi quelle lacrime, quello – cioè – che viene chiamato ridere. Non a caso Freud scorge, dietro la maschera della risata, il volto tremendo delle pulsioni sessuali nel loro acrobatico tentativo di rendersi presentabile in società (<i>Der Witz und seine Beziehung zum Unbewußten</i>). Tensione, non assenza. Con rispetto per il Crisostomo e per il monaco Jorge, infatti, un filo ridente percorre tutta la storia cristiana: dall’usanza del <i>risus paschalis</i>, per cui tutti erano chiamati a ridere, anche se tristi, per l’evento della Resurrezione – e per ottenere questo i predicatori erano autorizzati anche a raccontare barzellette sconce – alle messe goliardiche, licenziose e avvinazzate solennemente celebrate dai clerici vagantes in osteria, a san Francesco, a san Filippo Neri. Non parliamo dell’ebraismo, un ebreo che non sa ridere è una mostruosità quasi inconcepibile. Ma anche il Profeta Mohammed rideva e incoraggiava a ridere, e Allah, nel Corano, fra le centinaia di nomi meravigliosi di cui si orna, ha anche Colui che assicura il riso e il pianto.<br>
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Io credo che il fondamento e la radice di tutto questo, la ragione per cui i figli di Abramo possono ridere, sia l’ottenuta familiarità con Dio. In fondo il coraggio di Abramo è questo: accettare la familiarità col Dio dei deserti, degli spazi infiniti, delle stelle e delle schiere angeliche. E’ grazie a questa familiarità che l’h<i>aredì</i> può abbracciare il rotolo della Torah come fosse la sua sposa, più che se fosse la sua sposa, è grazie ad essa che il derviscio vortica in estatica danza, è grazie ad essa che si imbandisce pane nutriente e vino inebriante sulla mensa eucaristica.<br>
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Fuori da tale familiarità non c’è spazio per ridere. Non c’è nulla da ridere. Nulla. Il nichilismo non fa ridere affatto. E effettivamente come possiamo ridere, noi, a cui questa intimità è stata tolta per sempre<br>
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I simpatici vignettisti di C<i>harlie Hebdo</i>– con le loro belle facce tonde e i maglioncini girocollo color pastello - non sono dei nuovi miniatori medioevali [come Adelmo da Otranto,che poteva disegnare quel che voleva nei suoi marginalia, poteva essere l’amante del vice bibliotecario Berengario, poteva perfino gettarsi dal torrione dell’Edificio, perché allora si viveva comunque tutto dentro quella familiarità] Charb, Cabu, Wolinski, Tignous e Honoré si mettevano al lavoro sulle loro sciagurate, orribili, disgustose vignette a maggior gloria del Nulla. Erano il ghigno sterile, feroce, corrosivo più che irridente, erano la smorfia spaventosa di quel gatto del Cheshire che è oggi l’Europa stanca, esausta: solo la derisione senza niente intorno. L’ebreo bisunto, la trinità che s’inchiappetta, il profeta a culo di fuori: questo usciva dalle loro matite e dai loro colori. Sapevano solo sporcare tutto. Quel che non sapevano è che, se con Dio se ne può ridere, col Nulla – di cui pure erano figli – non si può scherzare<br>
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E fu così che altri figli del Nulla, altri servi del Nulla, altri forse inconsapevoli devoti del Nulla chiusero i pugni offesi, derisi, indignati sui caricatori ricurvi dei loro Kalashnikov, coprirono le loro facce avvampanti d’odio con le lane di passamontagna neri, e andarono al numero 10 di rue Nicolas Appert, XI Arondissement, quello della Bastiglia. E entrarono.<br>
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(<i>nader noster qui es in coelis, nadallahu akbar, shemà nadonai elohenu</i>)<br>
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Chissà se in quel momento si sono guardati, chissà se hanno realizzato – assassini e morituri– di avere lo stesso Padre, di condividere la spaventosa vuota radice. Chissà se in un momento hanno intuito che a tenere la matita e a premere il grilletto erano mani guidate dalla violenza dell’Assente.<br>
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Mentre ovunque si leva, fastidiosa, la lagna e il compianto dei c<i>harlieri</i>, chierichetti del Nulla, che si affrettano a canonizzare di santità civica i morti coi cadaveri ancora caldi, e plaudono alle vignette come se fossero il frutto più alto del libero pensiero - io penso al Patriarca Abramo. <br>
Che ebbe anche lui la sua tentazione nichilistica. Fu quando, mascherandosi da Nulla, Iddio gli richiese il sacrificio del figlio. E Abramo andò sul monte Moria, come si andrebbe al numero 10 di rue Nicolas Appert. Finché le mani dell’angelo non si chiusero sulla sua armata di coltello, confermandolo e confortandolo nella familiarità divina, e rendendogli impossibile calare la lama su Yitzhaq, risata di Dio.<br>
<br>
Fu sulla pietra, su quella pietra, che ora è chiusa in un ottagono di maioliche splendenti dei mille colori della coda del pavone, e coperta da una cupola d’oro puro che il sole accende la sera e al mattino, tra i canti e le campane e le preghiere della Città santa. Una pietra che non ho mai potuto toccare, essendo prigioniera di altri figli del Nulla, miei simili, miei fratelli.<br>
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<br>leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-41109949365710830882014-11-01T07:42:00.000-07:002014-11-01T08:09:28.774-07:00Le Moire - Dedicato a Brittany Maynard<div class="MsoNormal">Questa pagina era
dedicata a Brittany Maynard, e voleva essere come un suo epitaffio, prima che
la vita – e, chissà, forse la Vita – bussasse alla porta del suo giovane cuore
e le facesse intendere che ci sono ancora carezze, sguardi, baci, parole,
lacrime che attendono di giocare con lei, fin quando sarà sarà. Certo: con la
possibilità di uscire dal mondo in ogni momento, perché così si può fare
nell’Oregon / ouragan / huracàn / Huracan, dio Maya delle tempeste.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
La pubblico ugualmente, felice
di dedicarla invece alla sua <i>ancora-imperterrita-vita</i>,
e non dimenticandomi però degli ignoti che, nello stato dedicato al dio Huracan
e altrove, hanno varcato il confine. In questa sera: la vigilia, dolce e mesta,
dei morti.<o:p></o:p></div>
<div style="border-bottom: dotted windowtext 3.0pt; border: none; mso-element: para-border-div; padding: 0cm 0cm 1.0pt 0cm;">
<div class="MsoNormal" style="border: none; mso-border-bottom-alt: dotted windowtext 3.0pt; mso-padding-alt: 0cm 0cm 1.0pt 0cm; padding: 0cm;">
<br></div>
</div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Che le Moire (le Parche, le Norme, le Fatae) siano
tre è noto a tutti, e molti conoscono i loro nomi, Cloto, Lachesi e Atropo: sono
esse le divine tricoteuses che siedono presso la ghigliottina della umana
sorte, figlie di Zeus e di Temi, oppure della Notte, oppure della Necessità. Ma
chi scrive aveva pochi anni quando le vide per la prima volta, e ne vide
quattro, dipinte sul vaso François, davanti al quale era stato condotto insieme
agli altri scolari. Rimane da capire cosa vide Klitias l’ateniese quando
appunto quattro le dipinse sul cratere, dove il vino avrebbe dovuto essere
mescolato con l’acqua (per hujus aquae et vini mysterium…)<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Che questo scritto sia un pallido e meschino
tentativo di imitare quel grande che veramente dialogò con gli Dèi, non è
neppure da segnalare, se non per la vergogna.<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Non lo avrei mai
immaginato, sorella. Da giorni il farmaco è nella sua casa. Accanto alle
vitamine, accanto alla crema per il contorno degli occhi. Sì, proprio nell’armadietto
del bagno. Questo è ciò che più mi strazia. Se lo avessi saputo, Lachesi, forse
non avrei neppure cominciato a filarle la vita.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Non è una novità. E’
sempre successo. Cesare, che parlò di noi, e che scrisse le sue ultime parole
sul bianco delle pagine in cui dialogava con Bianca, e col nero dell’inchiostro
disse che la morte sarebbe venuta e avrebbe avuto i suoi occhi, Cesare dico – e
com’è strano questo nome da vincitore su una vita sconfitta – aveva da tempo in
tasca le dodici bustine, ben prima di registrarsi all’albergo Roma in quella
fine d’agosto. D’altra parte Roma in qualche modo doveva essere presente, alla
morte di un Cesare.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Cesare, dici. Ricordo quando
iniziai a filare la sua sorte, mi sgorgava così viva e tagliente tra le dita, e
fosti tu che la tingesti di scarlatto d’amore. Cesare: ma di lui sapevamo tutte
come sarebbe andata. Morire così non fu un vero morire: e appunto, quando
Atropo tagliò, lui previde e poi vide gli occhi verdi di Constance. Ma lei.
Lei, quali occhi vedrà?<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Accade continuamente, e
lo sai. Accade nelle stanze pulite e anonime in riva al lago, dopo aver
salutato i cari e gli amici con un abbraccio triste e stanco. Accade
silenziosamente e forse più ferocemente negli ospedali di ognidove. E non da
adesso, da sempre. Si gettavano sulle spade. E quando Lucio si tagliò le vene
dei polsi, e poi delle caviglie, perché era così vecchio e il sangue viscoso
non sprizzava, nessuno si stupì: <i>Non enim
vivere bonum est, sed bene vivere</i>: fu lui a dirlo. Accade ovunque. Ovunque
si spezza il filo ben prima che sia nostra sorella a tagliarlo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Accade continuamente,
Lachesi, e lo so. Ti dispiace però se parlo ancora un poco di lei?<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Non mi distrae. Mi aiuta,
anzi, perché filare i suoi ultimi momenti non è facile, occorre trovare colori adeguati
da intrecciare.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
E’ che ne parlano prima.
Questa è una differenza. Lei si affaccia alle finestre di tutto il mondo, di
tutte le case, così, col suo volto sorridente e meraviglioso. Si affaccia e parla
con loro, e loro ne parlano, ne discutono. E ci sono le medicine – si possono
chiamare così? – nell’armadietto del bagno. La sua bellezza è un oltraggio alla
morte, questa è una delle ragioni. In generale sono tutti pieni di ammirazione
per il suo coraggio, come se invece adagiarsi fra le braccia del mondo,
riempire le lenzuola di sudore, di lacrime, di dolore e d’amore, accettare di
perdere tutto fuorché la pena, attendere il fato, come se questo non fosse
coraggioso.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Non avrei filato molto
per lei ancora, in ogni caso: ma in effetti quei colori, quelli che tu dici, ce
li avrei messi. Però coraggiosa lo è davvero. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Ci vuol cuore per rubare
le forbici ad Atropo, riporle nel bagno, e sfidare il mondo. Rifiutare il dono
del figlio di Giapeto.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Parli di Prometeo il
Filantropo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Di lui parlo, che suscitò
l’ira di Zeus. Non fu tanto il fuoco il vero dono, no, ma quella benda che
pietosamente stese sugli occhi degli uomini – come disse il poeta - a impedire
loro di vedere quanto filo resta sul nostro aspo. Lei si è strappata quel velo.
Conosce l’ora, il minuto.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Furono i medici a
strapparlo, sorella. Ormai hanno modo di conoscere. Che importa l’ora, il
minuto. Quando ti vien detto che non vedrai la prossima primavera, che per te
questo sarà il vero autunno, quello di cui ogni altro è stato figura, ecco, è
tutto, è già tutto.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
No, non è tutto. Sei mesi
è pur sempre un chissà. Certo, la sua sorte le fu dischiusa, ma rimaneva comunque
custodita in altre mani, nelle nostre, Cloto. Ora invece è un segno sul
calendario. Anche ai criminali vien nascosta la data, se non quando il patibolo
è ormai rizzato sulla piazza, o quando nel penitenziario è già illuminata la
stanza gelida, con la bianca croce di cuscini e gli aghi pronti. E anche lì, mordono
voraci fino all’ultimo la speranza della grazia. Lei no. Lei lo ha deciso. E’
insieme colei che dà la morte, e colei che la riceve, e colei che decide il
quando, il dove, il come. Non vi sarà grazia possibile per chi è il re, il
giudice, il boia, il suppliziato assieme.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Ne parli come se fosse
una di noi. Come se fosse una dèa. Ma è una mortale. Vedi: il suo filo è fra le
mie dita, solo è difficile trovare le tinte giuste. E Atropo potrebbe ancora
sorprenderla, compiendo subito la sua opera. I farmaci rimarrebbero nel piccolo
armadio bianco.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
So bene che non è una
dèa. Il fato pesa su di lei con una mano di ferro. Non che il fato non ci
riguardi, ma per noi tutto è un gioco, non può essere che un gioco. Talvolta
invidiamo il loro affondare pesanti nella sorte.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Anche questa non sarebbe
una novità: tanti mortali si son sognati dèi, tanti dèi si son sognati mortali.
Quando ciò accade, sempre ne deriva il male.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Non è una dèa, no. Ma è
al servizio di una divinità molto potente, Lachesi.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Più potente di noi, che
filiamo i destini degli uomini?<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Sì, sorella.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Più potente degli Olimpi?
Di Zeus celeste padre?<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Più potente anche di lui.
Del celeste padre, e di tutti i nomi che essi gli danno. Quella Libertà che
serra loro il collo più fortemente di quanto mai fece Necessità. Quella Libertà
che impedisce loro di seguire le voci divine, le nostre, che pur li chiamiamo,
che fa loro chiudere gli occhi e avanzare soli nel mondo terribile, e varcare
soglie oltre le quali non vi è ritorno. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Dunque c’è questa dèa
dalla voce potente, mentre i nostri richiami sono sussurri nell’ombra, nella
nebbia, sono come echi, sono come vertigini. Invece lei grida. Guai a noi,
sorella, se è così. Ecco, vedi, sono giunta alla fine, poche fibre rimangono
sulla conocchia, poche fibre, poche ore. Tutto è compiuto: vedi, le medicine
sono state tolte dall’armadietto. Sua madre è andata a prenderle, con gli occhi
lucidi, e gliele porta, ed è giusto che sia lei che le portò anche la vita.
Facciamo silenzio adesso, se vuoi. Io devo tingere gli ultimi momenti con i
colori della nuova dèa. Eppure…<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Non dire niente, sorella.
Facciamo silenzio, come tu hai detto. Io il mio compito l’ho terminato. No, non
dire più nulla, mi fa paura fin quel che pensi.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<i>(lungo silenzio)</i><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Devo parlare ancora. Non
andartene, Cloto.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Ho fra le mani la sua
rocca vuota. Non dar voce ai tuoi pensieri, non farlo. Ti scongiuro.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Devo, sorella. Il mio
compito non è ancora concluso. Tra le dèe, noi siamo le più vicine all’avventura
dei mortali. A furia di filare, abbiamo un’idea del loro tempo, noi che nel
tempo non viviamo. Ma come alcuni di loro sono stati capaci di avvicinarsi a
noi, di conoscerci, di amarci, perfino di sedurci, e hanno così ottenuto in
qualche modo l’idea di com’è vivere nell’eterno, noi sappiamo nelle dita il
tempo cosa sia per loro.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Sorella. Non me lo
domandare, non farlo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Devo. Il mio compito non
è ancora concluso. Da quanto tempo non udiamo la voce di Atropo, nostra
sorella? Intendo il tempo dei mortali. Lo chiedo, a bassa voce lo chiedo:
quando fu l’ultima volta?<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Nondimeno i mortali
seguono docili la loro sorte. Della maggior parte di loro è ancora Atropo che
decide quando tagliare il filo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Rispondimi. Il mio
compito non è ancora concluso. Ho trovato il colore denso e violento della
Libertà, ma restano ancora alcuni pollici di filato non tinto. E lei ha ora
preso le sue medicine. Qualcuno piange nella stanza, altri si abbracciano, c’è
musica dolce e un bastoncino d’incenso fiorisce di fumo sul comodino. Fuori
dalla casa la gente canta e prega. Rispondimi.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Sorella, l’ultima volta
che Atropo parlò stava recidendo la vita di due ladri. E aveva in mano un altro
filo, che… Ma non è cosa per noi, Lachesi. Ora basta. Non ne parliamo. Non
alzare la testa, il nostro compito è tenerla china sul destino che scorre fra
le nostre mani.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Atropo: la sto guardando.
E’ lei e non è lei. No: è lei, ma c’è un’altra con lei.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Abbassa lo sguardo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Non posso più. Ora la
riconosco, è proprio lei, eppure no, adesso il suo volto mi sembra un mistero, sembra
perfino che non sia sola, che le sia accanto una che le assomiglia, o uno, non
so, perché ecco, egli appare come nel vigore di una fresca e quasi rude
virilità.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Abbassa lo sguardo. Non è
per noi quel che immagini di vedere.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Sorella! Egli rompe il
filo con tenerezza, come se spezzasse del pane per i suoi figli. E lei – perché
a volte sembra lei - lo raccoglie nel suo grembo. E i suoi, i loro occhi,
Cloto. Sono come l’oro del mezzogiorno e il rosso del mare risonante: ma così
scuri che nessuna notturna civetta potrebbe penetrarli. E’ il colore con cui
tingerò con le mie dita queste ultime dita del filo. <i>Avrà i suoi occhi</i>. Cesare aveva visto ancora di più di quanto
pensassimo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Hai visto troppo,
Lachesi. Noi siamo solo dèe. Tessiamo le sorti dei mortali, null’altro. A noi
non è dato di levare lo sguardo su ciò che ci sovrasta. Siamo rimaste sole, lo
sai. Gli Olimpi sono andati via da tempo, solo noi restiamo. Hai visto troppo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Ma ho visto, sorella.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Non hai visto niente.
Tutto è pieno di sogni, a forza di filarli li sogniamo anche noi. Scorderai
tutto. Torna al tuo lavoro, Lachesi.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Lachesi</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Non potrà essere come
prima.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-variant: small-caps; mso-ansi-language: IT;">Cloto</span><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Non c’è nessun prima,
nessun dopo, lo sai. Torna al tuo lavoro.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<br>
<div class="MsoNormal">
[Nell’immagine le Moire –
quattro – effigiate sul cratere detto <i>vaso
François</i>, custodito al Museo Archeologico di Firenze, attribuito al
ceramografo Kleitias]<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgxiRvp1CDBPvt3jG60PibgdTzEQAYEWvVfeF5zgoHa7fr1tWbmWpkACZSMqNeUayqNQU7RrqbA92EI0U5DIYJeF8WAsIhHKqbp4cpASpDkREwWnOSr5b_WjYq1eZjX8mPQeLkwkq1H9urD/s1600/Moire+Francois.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgxiRvp1CDBPvt3jG60PibgdTzEQAYEWvVfeF5zgoHa7fr1tWbmWpkACZSMqNeUayqNQU7RrqbA92EI0U5DIYJeF8WAsIhHKqbp4cpASpDkREwWnOSr5b_WjYq1eZjX8mPQeLkwkq1H9urD/s1600/Moire+Francois.jpg" height="320" width="250"></a></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-68875831998668834172014-10-06T07:28:00.000-07:002014-10-06T10:54:43.654-07:00Non sta in piedi. Critica interna alle Sentinelle<div style="text-align: justify;">
<i>La coscienza di un uomo talvolta suole avvertire / più che sette sentinelle collocate in alto per spiare (Siracide 37,14)</i></div>
<div style="text-align: justify;">
<br></div>
<div style="text-align: justify;">
Per quel che mi riguarda, io sto con i corsari, e aspetto soltanto la consumazione dei tempi e – se ci sarà– la rivelazione che ne seguirà. </div>
<div style="text-align: justify;">
<br></div>
<div style="text-align: justify;">
Non che speri più di assistere al Grande Botto, quello Universale, ora che anche i Maya mi hanno deluso e neppure mi sento di confidare in Socci, che sembra dire - nel suo ultimo libro - che quando due Papi si incontrano si genera una singolarità spazio-temporale che potrebbe far saltare tutto. Magari qualche asteroide potrebbe pure arrivare, ma insomma, non ci faccio affidamento. Per quel che mi riguarda, la consumazione dei tempi però non sarà lontana: supponiamo che l’attesa media di vita per un maschio sia di settantotto anni: ne ho vissuti cinquantadue, me ne restano ventisei. Ventisei anni che sono 9490 giorni, che sono 227760 ore, che sono 13 milioni e 665600 minuti, che sono grossomodo un miliardo e venticinque milioni di battiti cardiaci e 246 milioni di respiri. Nella migliore delle ipotesi, eh, perché su nessuno di questi si può contare davvero. <i>Dum dum dum</i> batte il cuore nel petto la danza cannibale – come dice argutamente Fabrice Hadjadj – <i>dum dum dum</i> e quando il tamburo cesserà di battere sarà il momento del sacrificio, e la vittima sarò io. O, sempre nella migliore delle ipotesi, cesserà il <i>toctoctoc</i> del simandron di carne pulsante e andrò sonnolento alla celeste liturgia, che tuttavia sarà pur sempre e ancora un brancolare nel buio, per quanto gioioso, verso Dio. Un paio di centinaia di milioni di respiri, <i>breathing in, breathing out</i>, e qualcuno sarà emesso correndo, e qualcuno amando, e qualcuno – consapevole – meditando, e qualcuno pregando, e qualcuno baciando scivolerà nella bocca di un’altra, e qualcuno parlando, e qualcuno piangendo, e qualcuno soffrendo, e qualcuno salendo montagne (spero), e qualcuno trattenuto immergendomi sott’acqua (spero), e qualcuno mozzato in gola dalla bellezza (spero), e tanti e tanti sonnando e sognando, e gli ultimi poi saranno quelli dell’agonia. Ne ho visti, di ultimi respiri, proprio di ultimi ne ho visti. So come sono. Come vengono e come vanno via, come si diradano. e ecco non c’è più il respiro, e è tutto. Per quel che mi riguarda, quindi, il grande botto è vicinissimo. </div>
<div style="text-align: justify;">
Per quel che mi riguarda. Il Corsaro Russo di Mar Saba sarebbe d’accordo. “L’Apocalisse? Per me e per te è vicinissima…” mi diceva mentre ci inerpicavamo sui tetti rotondi del monastero, fra le croci di ferro battuto, intelaiature di vele invisibili al vento notturno, mentre <i>le silence éternel de ceux espaces infinis nous nous effrayon</i>s. In tutta la mia vita la galassia avrà ruotato poco più di un decimillesimo di grado. </div>
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Per quel che mi riguarda, e – sono felice o mi dispiace di dirvelo – anche per quel che ‘vi’ riguarda.</div>
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<i>Aber weil Hiersein viel ist, und weil uns scheinbar </i></div>
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<i>alles das Hiesige braucht, dieses Schwindende, das </i></div>
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<i>seltsam uns angeht. Uns, die Schwindendste</i></div>
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Rilke, Neunte Duineser Elegie</div>
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D’altra parte essere qui è molto. Le cose ci sollecitano. Noi, i più effimeri. Non soltanto per sentirle, le cose, ma anche per pensarle, per comprenderle. Nel frattempo, infatti, c’è la vita, c’è l’alzarsi al mattino, <i>le vent se léve, il faut tenter de vivre</i>. Apocalittico, non integrato: ma ciò non mi autorizza alla diserzione.</div>
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<i>Qui si firma per la vita! Qui si firma contro l’aborto!</i> Per i fiorentini certe cose straordinarie sono talmente normali che neppure le notano, e si perdono tutto. Tipo giocare a nascondino sotto la loggia dei Lanzi, intitolata a quelle ghigne luterane (ma devote a Maria, tanto da pregarla in canto – <i>Unser Liebe Fraue</i>, oppure era <i>Unser’ Lieben Frauen</i>, e cioè le donne amate o piuttosto le vivandiere che le seguivano - al fine di avere un po’ di caldo e non morire di gelo, che poi fosse per grazia divina o per la condivisione del pagliericcio non penso abbia poi avuto grande importanza) Lanzi che vi sostarono prima di andare a saccheggiare Roma e chissà che il mio cognome non venga proprio da quelli là. Nascondersi dietro il Ratto delle Sabine del Giambologna e fare bomba sotto il Patroclo e Menelao: a me è accaduto, e a chissà a quanti altri bimbi. Oppure fare politica utilizzando come <i>gazebo</i> (ah…) un’altra loggia, quella gotica del Bigallo, l’eleganza delle cui arcate ispirò forse il Brunelleschi, quella loggia dalla quale il predicatore Pietro da Verona, col segno della santa Croce, mise in fuga il nero cavallo indemoniato che calpestava la folla al mercato, quella loggia sotto cui, avvolto nelle ruvide lane delle Compagnie, il cuore di generazioni e generazioni di fiorentini pulsò di carità e si rese capace di fronteggiare la peste, la morte, l’abbandono: a me anche questo è accaduto. Perché fu sotto quella loggia che nel 1980 mettemmo un tavolino con un cancelliere dietro, o un notaio, non so, e noi giovani distribuivamo volantini che ciclostilavamo a mano e con un grosso megafono bianco invitavamo: <i>Qui si firma per la vita! Qui si firma contro l’aborto!</i> E sotto la loggia ci urlavano contro in tanti, proprio in tanti, e io avevo diciotto anni, e la mia fidanzatina sedici, e fu lei che dovetti accompagnare all’ospedale per essere stata colpita da un sasso in faccia, e immaginate quanto le poche stille di sangue che versò mi mandassero in estasi, coniugando (o meglio cortocircuitando) il desiderio col martirio, e l’etica con l’intimità, e alla fine Dio con l’amore, riproducendo in sedicimiliardesimo l’esperienza di Caterina da Siena e Nicolò di Tuldo (<i>l’anima mia si riposò in tanto odore di sangue, che io non potevo sostenere di levarmi il sangue, che mi era venuto addosso, di lui</i>). Che sembran paroloni, in effetti, ma se non li si pensa a diciotto anni quando li si deve pensare, che ci saranno poi tanti decenni da dedicare alle paroline, alla stipsi del significato. Perché era tanto bello lottare, allora, e militare, e studiare diritto per saper confutare, e andare a sentire Luigi Lombardi Vallauri che ci leggeva i testi di sant’Ireneo di Lione per mostrarci quanto splendore potesse esserci nella vita umana, oh mio Maestro, anche tu, dove sei ora?</div>
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E poi trent’anni dopo ci fu sempre l’aborto a mobilitarmi, per quanto malinconicamente, e m’imbrancai con Giuliano Ferrara a sostegno di una Lista Pazza che raggranellò non lo zero-virgola, ma lo zero-virgola-zero-qualcosa alle elezioni del 2008. E ricordo una serata davanti al Rosetum a Milano, che dentro parlava Ferrara, e io ero fuori e una vecchia orribile mi si parò davanti, infilò la mano adunca in un sacchetto della spesa e mi gettò sul viso un bolo di basilico umidiccio, come a dire: tu sostieni le mammane, vuoi la morte delle donne negli scantinati, trafitte dai ferri da calza, e magari ci credeva veramente, la vecchia, che io lo volessi, e magari ci credeva veramente, la vecchia, che l’aborto fosse una conquista civile.</div>
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Oggi prendo il libro <i>Voglio la mamma</i>, del simpaticissimo giocatore di poker Marione Adinolfi. Guardo l’indice dei ‘falsi miti di progresso’: matrimonio omosessuale, aborto, omogenitorialità, eutanasia, ideologia transgender, etc., con una serie seria di argomenti critici da sinistra. Resta poi ovviamente la parte cattolica, restano le Costanze Miriano, i padri Botta, i Camilli Langone, I Marii Schicchitano. Restano tuttavia anche fior di intellettuali, filosofi, teologi, giuristi, a combattere la buona battaglia nelle sedi accademiche e scientifiche. C’è la <i>Manif pour Tous</i>, ci sono le <i>Sentinelle in Piedi</i>, c’è stato il <i>Family Day</i> e forse ce ne saranno ancora altre edizioni. Insomma c’è gente che lotta, e con gran cuore. E il <i>Foglio</i>, anche se meno frontalmente, continua giorno dopo giorno la sua vigilanza culturale e informativa. Sono soprattutto laici, perché la <i>tendenza Francesco</i> – per quanto rispettosa sui contenuti – tende a privilegiare altri campi di battaglia su cui impiantare l’ospedale da campo della Chiesa, e ormai le gerarchie nicchiano a sentir parlare di valori non negoziabili. Proprio in questi giorni circa duecentocinquanta uomini vestiti di porpora, di claretto, di nero, con sottane e buffi copricapi, e quasi tutti i duecentocinquanta caratterizzati dal non avere – almeno ufficialmente – una famiglia, sono in Vaticano a parlare proprio di famiglia, all’ombra di quel Gesù che la famiglia non sembrava poi amarla tanto: Lui che <i>perché mi cercavate, non sapete che devo occuparmi delle cose del Padre mio</i> (additando il cielo, adolescente), Lui che venne per <i>separare il figlio dalla madre, la figlia dal padre, la nuora dalla suocera</i> (oddio forse non è esattamente così ma è un lapsus da psicoanalisi che mi piace lasciare), Lui che <i>chi ama padre e madre più di me non è degno di me</i>, Lui che <i>chi non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo, </i>Lui che <i>chi è mia madre, chi sono i miei fratelli? chi fa la volontà del Padre mio (che è nei Cieli) è mio fratello, sorella e madre</i>, Lui che <i>seppellire tuo padre? lascia che i morti seppelliscano i loro morti, tu vieni e seguimi</i>, Lui che mai si sposò per restar libero e errante e volle così i suoi strappandoli ai loro focolari e ai loro giacigli caldi di troppa quiete e di meste abitudini, Lui che, perfino mentre moriva, perfino agonizzando sulla croce, vero letto di nozze, volle sbarazzarsi del legame materno e disse a Lei straziata che il vero figlio non era Lui, ma Giovanni, straziandola e straziandola ancora. E i duecentocinquanta usciranno dall’Aula del Sinodo tutti abbastanza contenti, avendo ancora tentato la mediazione tra lo <i>Zeitgeist</i> e lo <i>Heiligegeist</i>, (ma il primo sorride sornione perché sa che ha dalla sua parte il Desiderio: che sfonda le porte di qualunque precetto).</div>
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Ieri, da Aosta a Viterbo, le <i>Sentinelle in piedi</i> hanno manifestato in cento piazze, da Aosta a Viterbo. <i>Ritti, silenti e fermi vegliamo per la libertà d’espressione e per la tutela della famiglia naturale fondata sull'unione tra uomo e donna</i>, recita il loro sito. Io non sono andato, no. Mi sono chiesto perché, dal momento che la mia vita è stata in parte spesa in difesa e a servizio dei medesimi valori.</div>
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1.<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>Per prima cosa, mi sono accorto dell’esistenza del <i>bigottismo 2.0</i>. Apparentemente è molto diverso dal bigottismo tradizionale. Per prima cosa il bigotto 2.0 non si incarna <i>idealtipicamente</i> in una vecchietta nerovestita e velata che si trascina biascicando preghiere da cappella a cappella, toccandone gli altari (<i>ungendoli</i>, come si dice a Firenze) e accendendo candele, non si incarna nella donna sola e triste che passa il tempo seduta nel banco a sentir messe su messe, non si incarna nel prete collo torto e sottanone, dalla vocetta tenue e femminea. No. Il bigotto 2.0 è tecnologicamente <i>up-to-date</i>, unge non gli altari ma le bacheche dei vari <i>opinion makers</i>, di tanti altri non volti-di-santi ma profili-di-scrittori o giornalisti, lasciando non fiori secchi o preghierine, ma commenti: commenti che vi inviterei una volta a leggere perché indescrivibili sono (salvo rare eccezioni) la violenza, l’arroganza, il giudizio in essi contenuti. Frequentano anche la bacheca di sant’Antonio (Socci), ma io credo che quest’ultimo, per singolare segno di predilezione, il Signore lo abbia lasciato fuggire nella follia, nell’allucinazione e nel delirio (tutte cose che io amo da <i>pazzi:</i> e credo che in certi casi <i>quos vult Deus salvare dementat prius</i>). Il bigotto 2.0 veste trendy, fa la maratona sotto le tre ore e venti, se è prete ha il volto aperto, l’occhio arguto, il collo fiero e largo nel colletto romano, se è donna pubblica in rete foto delle sue mani affusolate con unghie smaltate di un colore che fa perfetto pendant a quello del rosario che le si avvolge al polso. Il bigotto 2.0 è talvolta anche sexy, o almeno così vuole apparire. In genere è prolifico ma anche no, talvolta è perfino un sedicente <i>tombeur de femmes</i>. Il bigotto 2.0 è trasversale: ce ne sono di pro F, di pro BXVI, di pro CVII, di anti CVII, perfino di sedevacantisti. Il bigotto 2.0 non compulsa libricini piccoli, logori, bisunti e neri con sbiadito taglio dorato, preferisce definirsi cintura nera di novene, i libri non so se li legge ma certo li scrive, li pubblica e li vende benissimo. Il bigotto 2.0 semplifica e detesta chi – ostaggio volontario della complessità – ammette di non saper che dire e che fare. Non ci sarò, purtroppo, ma vorrei esserci quando Costanza Miriano incontrerà san Paolo in paradiso, e lui dirà a lei – nel suo stile abbastanza acceso – cosa ne pensa della riduzione in <i>folk psychology</i> (per quanto moralmente ineccepibile) della sua teologia sul matrimonio. Insomma il bigotto 2.0 è un aggiornamento, ma la radice orribile rimane: quella di chi ultimamente non sopporta che san Giovanni abbia detto che Dio è amore senza aver specificato che è il <i>veeeero</i> amore, e che lo stesso san Giovanni non abbia specificato la direzione di provenienza e di destinazione dello Spirito sulla rosa dei venti, ma abbia detto che soffia dove vuole e non si sa dove venga e dove vada. Ora, tra le Sentinelle in piedi non vi sono certo solo neobigotti: ma credo sia indiscutibile che esista una contiguità culturale.</div>
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2.<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>Trovo che i <i>maitres à penser</i> delle Sentinelle compiano un errore anche rispetto alle loro intenzioni. Che nella migliore delle ipotesi interpretino la parte patetica degli <i>ultimi giapponesi</i> che credono ancora che sia in corso la seconda guerra mondiale, nella peggiore sfruttino questa nicchia di retroguardia per esercitare un’influenza, per scavarsi uno spazio di visibilità, per vendere qualche libro. Possibile che non si rendano conto che non c’è più nulla da fare? Che – anche a voler usare solo l’intelligenza calcolante – sarebbe molto più efficace mollare la presa su tutto: famiglia, vita, nascita, morte, educazione, tutto. Lasciar bere al mondo il calice della libertà libertaria fino in fondo. Fino in fondo, però: io voglio che mi sia consentito di fidanzarmi con Siri (come mi si dice che vorrebbe un personaggio di <i>The Big Bang Theory</i>), di adottare un computer, di avere settecento mogli e trecento concubine come il re Salomone (magari di specie differenti, anche infraumane e non organiche), di abolire in molti casi il reato di pedofilia (se un minore può decidere di morire, perché non può decidere di far sesso con chi gli pare e piace) e così via. La libertà è un vino inebriante ma ha un fondo amarissimo che la contemporaneità potrebbe utilmente assaporare. Occorre agire all’orientale, lasciando che lo stesso slancio libertario, portato fino alle sue estreme conseguenze, faccia perdere l’equilibrio all’umanità, le consenta di cadere, farsi male e pensare a come rialzarsi. Il mio antico professore di Metafisica, padre Alberto Boccanegra OP, diceva che solo dopo l’avvento di una onnipervasiva neosofistica sarà possibile veder apparire un nuovo Socrate.</div>
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3.<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>Giudicare, non so più. Non certamente per virtù, forse per stanchezza, o per età. Oppure perché quando vedo una cosa e mi sembra così, subito mi sembra che possa essere anche cosà, come la brutta copia dell’Ulrich di Musil, e finisco sempre per assomigliare di più a quel giudice ebreo che ascoltava una parte e diceva ‘ha ragione!’, poi ascoltava la controparte e diceva ‘ha ragione!’, e, quando un terzo si alzava, obiettando che due proposizioni contraddittorie non possono essere giuste entrambe, ammetteva pensieroso che aveva ragione anche lui. Questa attitudine titubante sulle conclusioni ed eccessivamente analitica nelle premesse non è che il versante freddo, anziano, disincantato, del carattere che si oppone per porsi, tipico dei cromosomi toscani. Giudicare, non so più, non riesco più: e le Sentinelle mi sembrano insopportabili ditini alzati ad ammonire. Poi non saprei cosa leggere. Esiste qualcosa di letterariamente significativo che non includa almeno un po’ di trasgressione? In questo momento sto (ri)leggendo Il Dottor Živago. Avrei potuto leggerlo in piedi, fra le Sentinelle? Perché è tutta una serie di amori che sconvolgono le regole. Scartando titoli tipo Sposalo e sottomettiti, Sposala e muori, Obbedisci che è meglio – perché ridacchiare in piazza non starebbe bene – potrei virare sulla saggistica, sulla teologia, sul documento ecclesiale, sull’enciclica. Ma non sono un quadrupede, e di addormentarmi in piedi non son capace.</div>
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4.<span class="Apple-tab-span" style="white-space: pre;"> </span>Nella mia Chiesa si sta in piedi sempre, e tanto. Dritti in piedi per ore, col freddo e col caldo, nel buio e nella luce, uomini donne e spesso anche vecchi e bambini. Dritti in piedi mentre il prete chiama e chiama l’invisibile realissimo a farsi visibile irrealtà. Quindi tutto sommato la Sentinella la faccio sempre, e per di più a digiuno. E – se avessi la stoffa umana, che invece chiarissimamente non ho – vorrei starci ancor di più, in piedi. Fare come Arsenio, padre del deserto, che quando il sole tramontava si voltava verso est e rimaneva in piedi, immobile, silenzioso, intento, attento, contento, finché il sole non sorgeva dall’altra parte del pianeta. Questa la preghiera, solo questa vorrei che fosse. La stessa idea di Dio caduta a terra delicatamente, e un po’ accartocciata come una foglia secca. Figuriamoci i precetti morali dove li avrebbe già portati il vento.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgjB0g75hdAJrIUsVsJ-T2IGcF-0mpBmJbePQtaXSa81i2qtdHmJNd_EHpU4QYcIHNIy8URCb-DcMmlUVoXER8HFy4aWWDll-MO4a6rgmTSfX06PLP91hiMELS7dmnFmfo0Vzy65wBdrH1l/s1600/new+yorker+chiocciole.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgjB0g75hdAJrIUsVsJ-T2IGcF-0mpBmJbePQtaXSa81i2qtdHmJNd_EHpU4QYcIHNIy8URCb-DcMmlUVoXER8HFy4aWWDll-MO4a6rgmTSfX06PLP91hiMELS7dmnFmfo0Vzy65wBdrH1l/s1600/new+yorker+chiocciole.jpg" height="217" width="320"></a></div>
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leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-34741921709889735662014-09-25T02:38:00.000-07:002014-09-25T08:00:37.713-07:00La Montagna e la Tigre. Non-resoconto da Agion OrosTorno dalla Santa Montagna, accendo il telefono, e guardo il sito del Corriere. C’è il solito Renzi che pasticcia con l’inglese, i problemi strutturali dell’IPhone 6, un arcivescovo polacco arrestato fra le mura leonine, le immagini nere e verdi degli attacchi aerei americani in medio oriente. C’è la foto di una tigre immobile e attenta davanti a un giovane indiano schiacciato contro un muretto e tremante: mi soffermo su questa. Pare che, quando il giovanotto – per motivi fotografici – è caduto nel fossato dello zoo, il bianco, bellissimo felino si sia avvicinato placidamente. In perfetta immobilità, ha quindi contemplato con attenzione l’uomo per oltre un quarto d’ora, prima di sbranarlo. Provo ad immaginare come dev’essere stato il quarto d’ora dell’essere umano, alla presenza di quello sguardo meraviglioso, fatale, indecifrabile.<br />
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Torno dalla Santa Montagna con la memoria e il taccuino giallo pieni di ricordi che mi piacerebbe condividere qui. Momenti intensi, discussioni significative, visioni mozzafiato, incontri importanti, stati di luce e di buio interiori ed esteriori, falesie scoscese su mare virginale color cobalto, pervinca, pavone e fiordaliso, cupole di stelle con le pleiadi gocce d’argento allo zenit, cittadelle monastiche fortificate di una Grecia in odor di Balcani fuori delle quali, la notte, ululano sfalsettando perfino gli sciacalli, canti, baci di rugose mani di vecchi e di icone, brancolar nel buio verso Dio nelle lunghe liturgie, volti volti volti. Ma questa volta il taccuino giallo resterà chiuso, e non ne condividerò il contenuto.<br />
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E’ perché da quando ho messo piede sulla Santa Montagna ho avvertito l’impulso interiore e presuntuoso di essere da Lei guardato. Per un po’ di tempo Lei non ha voluto. Faceva di tutto per iscapolarsene, come Proteo dalle mani di coloro che volevano farlo vaticinare per forza (Promessi Sposi, capitolo VI). E’ stato in effetti come lottare con Proteo (il marino vecchion che mai non mente, come traduce il Pindemonte). Proteo prole di Oceano, uno dei tre grandi vecchi del mare. Pastore del gregge di foche di Poseidone, al meriggio si riposa all’ombra degli scogli: se vuoi sapere il tuo destino devi lottare con lui, che non vorrebbe dirtelo, che quindi può mutar forma per fuggirti – per questa caratteristica è entrato nel linguaggio comune – ma alla fine cede, ridiventa lui stesso, ridiventa il vecchio, e implacabilmente risponde il vero alle tue domande. Proprio così si è comportata la Santa Montagna con me. All’inizio non cedeva e mutava forma e luogo e ragioni. I miei amici, più saggi, mi sconsigliavano con delicatezza. Lascia perdere, dicevano. Ma io no, testardo, orgoglioso, ho lottato con tutte le mie forze.<br />
<br />
E alla fine la Vecchia, Santa Montagna ha ceduto. Ha aperto i Suoi occhi antichissimi su di me. Mi ha guardato, mi ha visto, mi ha giudicato, nel modo che solo Lei conosce.<br />
<br />
Dopo essere stati visti da Lei, vi giuro, non si ha più voglia di scrivere di mare, di cielo, di notti, di giorni, di bellezza, di silenzio, di canto, o di come profumavano e splendevano di rosso e oro i pomodori nei poveri piatti di ferro. Non si ha più voglia, non si può più. Il temerario giovanotto indiano non pensa più a fotografare, ora che è davanti allo sguardo silenzioso della tigre bianca.<br />
<br />
I monaci dell’Athos vengono chiamati alla preghiera, alla mensa, agli atti comuni, con il simandron, uno strumento antico, una grossa asse di legno dalle estremità arrotondate che viene percossa da un martello secondo un ritmo che quando lo senti non lo dimentichi più. TOCtactactac TOCtactactac TOCtac TOCtac TOCtactactac. La tradizione dice che fosse il richiamo con cui Noè attirava gli animali nell’Arca, prima del Grande Diluvio. TOCtactactac TOCtactactac TOCtac TOCtac TOCtactactac. Ho scoperto che il cuore è anch’esso un simandron: TOCtactactac TOCtactactac TOCtac TOCtac TOCtactactac. Ecco, sentite: ora chiama. A qualcosa che non so.<br />
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<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjguKY-UbjuUzggOYN33PikyIZEdY2PqLY5R1TkExVgU2d5Zu2qjsG34MfA5NCruV9jRIzDvn1TBd5lsq2lpDDkDF-O8ZEihJI6BmGHKZA95636SELCBh7uSqW5PUMdP0Z9o7L38Ez6UAMa/s1600/tigre+e+giovane+indiano.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjguKY-UbjuUzggOYN33PikyIZEdY2PqLY5R1TkExVgU2d5Zu2qjsG34MfA5NCruV9jRIzDvn1TBd5lsq2lpDDkDF-O8ZEihJI6BmGHKZA95636SELCBh7uSqW5PUMdP0Z9o7L38Ez6UAMa/s1600/tigre+e+giovane+indiano.jpg" height="213" width="320" /></a></div>
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leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-26375513042457205102014-08-29T09:54:00.000-07:002014-08-30T01:34:17.349-07:00Je décalque l'invisible. Ida, film in bianco e nero su una vetrata<div class="MsoNormal">
Pur se il cinema è
centrale, la cassiera – in vestaglia e occhialetti da portinaia <i>vecchia Milano</i> – è assolutamente
marginale. E anche la sala non concede quasi nulla allo spettatore, come si
direbbe in cinelinguaggio. Niente nomi suggestivi, come Urania o Truffaut o
Daphne o Fellini. Fuori: Milano da pre-ferragosto con cielo tra sole e
temporale, adattissimo ai cacciatori di arcobaleni. Dentro: A ed io attendiamo
l’inizio della proiezione di <i>Ida</i>, film di Pawel Pawlikowski. <i>80
minuti di bianco e nero sulla storia di una suora nella Polonia degli anni 60</i>.
Non ho con me le lamette, e per giunta - circostanza assai rara - non ho
neppure sonno. Devo dire che A, mentre ancora le luci della sala sono
debolmente accese, mi consegna il dono da lei preso per me in India: un
meraviglioso set di merchandising di un sedicente asceta jaina <i>digambara</i>
(vestito di vento, quindi nudo) chiamato Acharya Sukumalnandi, consistenti in
n°1 poster adesivo stile Bollywood (capelli scolpiti e denti di un bianco
extraterrestre), n°1 biglietto da visita con fotina della testa retroilluminata
da aureola a dodici meravigliosi raggi, n° 1 microfoto di lui benedicente e
inscritto in un trono a forma di mandorla d’oro e d’argento, n°2 segnalibri
tipo clip di plastica bianca col volto radioso d’amore, e n°1 quaderno di
appunti con l’asceta – questa volta più severo - che benedice con la mano
sinistra due braccia con maniche di giacca e camicia che si stringono la mano,
sullo sfondo una specie di bandiera navale giapponese arancione e rosso. La
vera, verissima. kitschissima India. Da piangere per la commozione. Però,
aprendo il quaderno, vi trovo un’unica frase in inglese – tutto il resto è in
hindi – che l’asceta si attribuisce (le grandi frasi hanno sempre molti padri):
<i>No pains no gains</i>. Effettivamente al plurale non l’avevo mai ancora
letta. Che alluda a ciò che stiamo per vedere?<o:p></o:p></div>
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Gli ottanta minuti
passano – c’è perfino un intervallo ma senza gelataio in giacca bianca e
distintivo illuminato – e riemergo con una strana sensazione. Non mi sembra di
aver visto nulla di straordinario, eccetto dei meravigliosi grigi, caldi e
intensi, e la particolarità dell’<i>aspect ratio</i> (nozione compresa da noi
non cineintenditori solo dopo la visione di Grand Budapest Hotel, ossia il
rapporto tra la larghezza e l’altezza dell’immagine, e che Wes Anderson varia
continuamente facendone una modalità espressiva essenziale del suo magico
racconto) di 4/3, ossia volutamente retrò. La storia non mi ha detto niente.
Suor Anna, una novizia ex orfanella, un gelido convento sotto la neve, la madre
superiora che – proprio alla vigilia dei voti perpetui – anziché tenerla in
ritiro la manda a visitare la sua unica parente, Wanda, una zia per metà
sanguinario magistrato e per metà alcolizzata, fumatrice e sciupa maschi. Senza
l’ombra di un convenevolo la zietta le rivela chi l’orfana è davvero (e cioè
Ida Lebenstein, la figlia di una famiglia ebrea uccisa durante la guerra), qual
è il suo paese e che Dio forse non c’è. Poi le due donne vanno al villaggio, la
novizia prega, la zia inquisisce, beve e si dà da fare con omarelli raccolti al
bar, recuperano assieme i resti dei genitori della novizia, li seppelliscono al
cimitero ebraico di Lublino. Nel frattempo, in albergo, incontrano un
sassofonista che suona in una band <i>Guarda che luna</i> di Fred Buscaglione e
<i>Con ventiquattromilabaci</i> di Celentano, ma in segreto si strugge con John
Coltrane.<i> </i>La monaca torna al convento, la zia alla sua casa: per poco
entrambe. La zia sfratta dalle lenzuola il suo ultimo omino, mette sul
giradischi la sinfonia <i>Jupiter</i> di Mozart (che, per Woody Allen, è una di
quelle cose per cui vale la pena <i>vivere</i>,
e detto da lui…), si accende la sigaretta, gira a piedi nudi per la stanza, poi
spegne la sigaretta, apre la finestra e si getta di sotto. La giovane novizia,
avvisata, lascia nuovamente il monastero – mentre le altre sue consorelle
prendono i sacri voti incoronate di fiori – va a casa della zia, si toglie il
velo e si scioglie i capelli, indossa un tubino sexy nero e le scarpe a tacco
alto della zia, va a trovare il sassofonista belloccio, danza con lui, torna
con lui a casa e ci va a letto. Al mattino si svegliano, lui le dice <i>Andiamo
a Danzica. Vuoi venire?</i>, lei: <i>Perché?</i>, lui: <i>C’è il mare, hai mai
visto il mare?</i>, lei: <i>Non ho visto niente</i>.<i>, </i>lui:<i> Andremo in
spiaggia</i>, lei: <i>E poi?</i>, lui: <i>E poi ci sposiamo, compriamo una
casa, facciamo dei bambini</i>, lei (bellissima, appoggiata sul gomito): <i>E
poi?</i>, lui: <i>E poi cominciano i problemi</i>. Logico che lei aspetti che
lui si riaddormenti, logico che quindi si alzi, indossi nuovamente il suo abito
di novizia e torni in tutta fretta al monastero. Per far cosa non si sa, finale
aperto. Bene. A me come storia non sembra granché. Esco un po’ deluso.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Poi passa una notte
silenziosa e i ricordi maturano nel sonno e nei sogni, così che al risveglio il
mio giudizio si è completamente rovesciato. I personaggi di <i>Ida </i>non
hanno praticamente alcuna psicologia. Il volto della monaca è di slavità
assolutamente indecifrabile, quello della zia è intenso ma fisso come una
maschera tragica. Se l’attesa – e probabilmente era la mia – si collocava al
livello della psicologia, il film non poteva se non risultare deludente. Tanto
da avermi fatto pensare che la storia altro non fosse che un pretesto per
sciorinare bellissimi bianchi, neri accesi e un infinità di gradazioni
perlacee. C'è però chi mi ha fatto notare che in realtà le due protagoniste
sono molto differenti, anche dal punto di vista psicologico. Pur essendo praticamente 'nata' nella gelida
e iperessenziale nudità del monastero, Anna/Ida sa <i>stare</i> nelle
circostanze che le capitano in modo adeguato e fluido. Sa accogliere l'impensabile, sa aprirsi
all'avventura, sa scavare nella terra umida, sa avvolgere - come una tra le
tante Antigoni della storia - il cranio dei genitori in un foulard per dare
loro sepoltura, sa innamorarsi, sa andar via, sa vestirsi da donna, sa svenire
di libertà ruotando come un derviscio dentro una tenda di tulle, sa far l'amore
e sa porre domande radicali. Wanda, pur con la sua età e il suo <i>savoir vivre</i>,
è invece sempre sbilanciata, sghemba, instabile: deve aggrapparsi ogni volta a qualcosa
o a qualcuno, un amante, una sigaretta, una bottiglia. <o:p></o:p></div>
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<br /></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgRmlDkQECQSlIBkxT3no0rzcdrwl6MPiW-jzo8jl1-BWfe1f8shyzTgPK-Ee3VAp1jU5W5ZdA4B4_iiHuK_nbjbiQk0FQ-T79qQHa_t7I3GP9aqFD9DsS6lLAdNt_fC1BjLnbc_S8mw94I/s1600/Ida.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgRmlDkQECQSlIBkxT3no0rzcdrwl6MPiW-jzo8jl1-BWfe1f8shyzTgPK-Ee3VAp1jU5W5ZdA4B4_iiHuK_nbjbiQk0FQ-T79qQHa_t7I3GP9aqFD9DsS6lLAdNt_fC1BjLnbc_S8mw94I/s1600/Ida.jpg" height="250" width="320" /></a></div>
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<br /></div>
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Tuttavia a me pare che le
due donne siano esistenzialmente più simili che diverse. Lo sono nel verificare
lucidamente come la vita, e Dio, tutto fanno fuorché mantenere le promesse di
pienezza, di bellezza e di bene. Lo verifica Wanda rispetto all'ideologia
rivoluzionaria e socialista, alla libertà sessuale, alle zeppe consolatorie di
cui si circonda. Lo verifica Anna/Ida rispetto al Gesù di gesso, al pupazzo
senza vita portato nella neve al centro del chiostro in una scena iniziale
mozzafiato, all'innamoramento, alla giovinezza. Ed entrambe traggono le
conseguenze: darsi la morte, buttandosi da una finestra o tornando in convento.
Perché - evidentemente - sono due suicidi. <o:p></o:p></div>
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<br /></div>
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Eppure, nel profondo di
ogni vita, c’è almeno un momento in cui gratuitamente, graziosamente,
inaspettatamente, il <i>più grande</i> che
attendiamo si rivela, e ti parla, a te, a te, oh proprio a te. Solo un istante
magari. Una ferita sulla trama dell’ovvio. Un varco montaliano, prima che il
frangente ripulluli sulla famosa balza che scoscende. Il film, questo momento,
delicatamente, intensamente, magistralmente, ce lo mostra. Per le due donne
esso passa da un padre o un fratello che – con la dolente e struggente sapienza
dei figli di Israele – aveva allestito, nella tetraggine del paesaggio piatto e
gelato, una vetrata da cattedrale per consolare le mucche nella stalla. E la
zia si domanda: <i>Chissà perché. Tutto
questo lavoro per una stalla, per due mucche</i>. Ora, io ho la fortuna di
avere un amico così tanto caro che le vetrate le fa, e che un po’ mi ha
fatto conoscere l’infinita pazienza che richiede, e la mobilitazione del cuore,
degli occhi, delle mani, e la potenza del calore dei forni, e l’astronomia per l’orientamento,
perché una vetrata è fatta per la luce, per essere mediatrice tra la luce e l’occhio
umano. Wanda rovistando nel suo passato con il suo rammemorare amaro, Anna/Ida entrando
nella stalla ed essendo colpita da un raggio di sole trasfigurato e diffratto
in colori, che il bianco e nero rende più evidenti, perché quella scena è
riempita e saturata dai colori contenuti nei ricordi dello spettatore, entrambe
ricevono da quella vetrata da stalla il dono del rimando all’Oltre. Per la
ragazza è quasi un’Annunciazione, lei che guarda incantata quella fragile
bellezza che si è mantenuta integra, nonostante le guerre, le rivoluzioni, i
tradimenti, gli omicidi, e tutto il dolore e il freddo e il fango della vita.
Poi è vero: la vita, o Dio, non mantengono le promesse e può valer la pena
suicidarsi o farsi suora. Ma tenacemente la fragile vetrata continua ad
alludere al <i>più in là</i>, per citare
ancora Montale.<o:p></o:p></div>
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<br /></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgPJRIBpejvTUQnmKzi0Ka4YAQgaPANFWpkN6FDF-AiQbTAm24Xi083OsoIjRIKbayGye6J0rVm6jbrUq1PjgrS3GYAjJjZOlGr3LUMoILWeiJ9FNrUTjSjyoahMsSgmxMnQ3LvEzC-VMXt/s1600/ida+vetrata.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgPJRIBpejvTUQnmKzi0Ka4YAQgaPANFWpkN6FDF-AiQbTAm24Xi083OsoIjRIKbayGye6J0rVm6jbrUq1PjgrS3GYAjJjZOlGr3LUMoILWeiJ9FNrUTjSjyoahMsSgmxMnQ3LvEzC-VMXt/s1600/ida+vetrata.jpg" height="240" width="320" /></a></div>
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<br /></div>
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<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Questo tema è anche – e profondamente
– rilkiano. E concludo trascrivendo una sua poesia mesta eppure dolcissima.<o:p></o:p></div>
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<i>Nonnen-Klage</i> (Lamento di una monaca)<o:p></o:p></div>
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<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Gesù Signore – piegati /a
una come tante. / Tu sei ricco e possiedi / i più splendidi ammanti / del cielo
su di te.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Le donne che ti sei
scelte / un giorno, a te sono rese: / puoi leggere con loro / e giocare, e a
Teresa / mostrare le tue stanze.</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Tua madre in cielo ora /
è una dama e fiorisce / il suo nome regale /dalle nostre preghiere,</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
qui, da questi giardini /
d'inverno, dove a volte / tu guardi, e strani cespi / trai dalle nostre voci.</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Gesù Signore - hai tutte
/ le donne che tu ami. / Il mio grido che importa / se si perda o ti chiami?</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Si perde in un lamento /
e lo spazio lo strema. / Altre voci tu senti; / non ti ingannare: appena</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
dal mio cuore mi accosto
/ al mio viso che canta. / E vorrei farti male, / Signore, ma mi manca</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
l'animo: se sollevo / verso te la mia pena / subito
ricade mite / e fredda come la neve.</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Fuori fossi rimasta /
dove ho cominciato, / il giorno sarebbe angoscia / e la notte peccato.</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Forse mi avrebbe presa /
un uomo, e sarei sola, / e un altro sarebbe venuto / e la mia bocca ancora</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
soffrirebbe dei baci. / E
un terzo a piedi l'avrei / seguito, ma, Signore, / per averne pietà;</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
e per stanchezza e paura
/ a un quarto mi sarei data / per non giacere più sola / e abbracciare una
creatura.</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Ma se nessuno ha dormito
/ accanto a me, tu mi salvi? / Dov'eri quando cantavo? / Chi chiamo nei nostri
salmi?</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
La mia vita è lontana -/
Gesù, dimmi: è con te? / L'hai tu vista venire? / E sono in te, Signore? / E
sono in te, Gesù?</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Pensa: così finisce / nel
rumore del giorno. / Ciascuno la rinnega, / nessuno più conosce / la mia vita,
Gesù-</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Ed era la mia vita, /
Gesù Signore, sei certo? / Non un'altra in cui pure / nessun morso abbia aperto
/ un suo segno, Gesù?</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
O la mia vita forse / non
è con te, ma langue / spezzata, e intanto piove, / piove e l'acqua la bagna, /
e gela dentro, Gesù.</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
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<br /></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjYDr50O1rtx2pZuYpATAXtQAaWDkr_1x9EUZW1g0pIj9-7KvbYS65Mve-kA2KTftJeLKrkEdorfdXqvEd8OH0nBudM1C_LhNtW0FpaIISmjx7yBBA0M7FOb2XDu_c76IUddFj3HmSsA8Zh/s1600/ida+tenda.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjYDr50O1rtx2pZuYpATAXtQAaWDkr_1x9EUZW1g0pIj9-7KvbYS65Mve-kA2KTftJeLKrkEdorfdXqvEd8OH0nBudM1C_LhNtW0FpaIISmjx7yBBA0M7FOb2XDu_c76IUddFj3HmSsA8Zh/s1600/ida+tenda.jpg" height="180" width="320" /></a></div>
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leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-81519552619400648762014-08-22T14:23:00.000-07:002014-08-23T03:51:36.661-07:005774, 2014, 1435<div class="MsoNormal">
C’è uno slargo, nella cinta della Gerusalemme vecchia, dove ieri – in un unico istante, ossia alle 17.49 - si sono trovati contemporaneamente, e per
caso, tre ragazzi, tutti e tre di dodici anni. Il primo si chiama Moishele, è
uno dei sei figli di una famiglia di Haredim di origine askenazita; indossava
una camicia bianca e dei pantaloni scuri, come sempre, del resto; è biondo, ha
gli occhi azzurro chiaro, e da sotto la <i>kippah</i>
nera spuntano, ai lati della testa, lunghi ciuffi fulvi che quando sarà più
grande arriccerà nei tradizionali i <i>payot</i>;
è un piccolo <i>zaddiq</i>, e camminava velocemente
accanto al padre – il quale a sua volta spingeva un passeggino biposto con a
bordo altri due figlioletti – dirigendosi verso il Muro Occidentale. Il secondo
è Ahmed, un ragazzo arabo dagli occhi neri come perle, che giocava a palla in
strada con alcuni amici; suo padre è un devoto musulmano sunnita, e ha la
funzione di imam, cioè guida gli altri credenti, ponendosi di fronte a loro,
nelle cinque preghiere quotidiane in una piccola moschea. Passava di lì anche
Jean-Jerôme, parigino del quartiere Montparnasse, venuto con i genitori in
pellegrinaggio in Terra Santa, ha il volto simpatico e lentigginoso, e in quel
momento portava una maglietta con il logo dell’<i>Hard Rock Cafè – Jerusalem</i>, che i suoi gli avevano appena regalato
e di cui andava molto fiero; è stato appena cresimato, e – per quanto spesso si
annoi – segue il papà e la mamma a messa la domenica. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Ieri, alle 17.49 orario
locale, i tre ragazzini erano vicinissimi. Nello spazio e – si direbbe – ancor
più nel tempo. Però per Jean-Jerôme era il 21 agosto dell’anno 2014 dalla
Nascita di Gesù, per Ahmed era il 25 Shawwal dell’anno 1435 dall’Egira, per
Moishele il 25 Av del 5774 dalla Creazione del mondo. Jean-Jerôme sa di vivere
all’inizio del terzo millennio, essendoci perfino nato, a differenza della
sorella maggiore che ha 16 anni, è nata <i>au
siecle dernier</i> – di questo lui la
prende in giro ridendo – e si è guardata bene dall’accompagnare la famiglia in
Terra Santa, preferendo di gran lunga andare in tenda col fidanzato a Tarifa
per fare <i>kitesurfing</i>. Moishele,
nonostante tutto, vive in un fantafuturo (5774 sa di <i>science fiction</i> e di navi spaziali alla Star Trek). Ahmed è un
ragazzo tardo medioevale, prima metà del Quattrocento.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Ora, è chiaro che i
piccoli Moishele, Jean-Jerôme e Ahmed stasera giocheranno ad <i>Angry Birds</i> sul medesimo modello di IPad.
La scienza, in generale la conoscenza, ma soprattutto la tecnologia, hanno un
calendario tutto loro a cui prima o poi tutti quanti si adattano. Va bene il
Magen Dawid, la Croce o la Mezzaluna: ma alla fine è la Mela Morsicata che
brilla dai retroschermi dei laptop di Tel Aviv, di Roma o di Medina,
unificandole. E’ovvio che c’è un unico vettore del tempo, e – qualunque sia il
nome che gli diamo – siamo tutti su un unico punto di esso. Non è di questo che
voglio parlare adesso, bensì del fatto che su quel punto unico ci si possono
trovare un ventenne, un cinquantenne e un ottantenne. E, dal punto di vista
della religione, Moishele <i>adesso</i> ha
ottant’anni, Jean-Jerôme cinquanta e Ahmed venti. Non è una differenza che conti
poco.<br>
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
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<div class="MsoNormal">
In una memorabile scena
di <i>Non ci resta che piangere</i> – con
Benigni e Troisi – i due, rimasti in panne con la macchina in campagna, trovano
rifugio in una locanda. E’ tutto un po’ strano, non c’è la luce – sarà il
tempaccio – vengono loro offerti dei pagliericci e una stanza con un potente
russatore già dentro. Ma al mattino sono spettatori della morte di questo
stesso individuo, trafitto da un colpo di lancia scagliato da alcuni cavalieri
attraverso la finestra. Quando scendono dabbasso trovano un gruppo di persone
vestite con cappucci, corsetti, calzamaglie. <i>Ma che scherzo è questo?</i> <i>Come
siete vestiti?</i> dice Benigni; <i>O’vvoi?</i>
replica un tizio riccioluto; <i>Noi! </i>grida
Benigni <i>Noi siam vestiti bene, no come
voi! </i>(<i>…almeno normali </i>soggiunge
Troisi col suo delizioso <i>understatement</i>
partenopeo). <i>Dove siamo? </i>incalza
Benigni. <i>A Frittole</i>, gli rispondono. <i>A Frittole? Cavalli, morti, spade! Ma in che
anni siamo?</i> La risposta lo lascerà senza parole e spaventatissimo: <i>Nel millequattrocento, quasi milleccinque</i>.
Se Ahmed dicesse a Jean-Jerôme che siamo nel <i>millequattrocento </i>lo vedrebbe mettersi a ridere. Ma religiosamente
è proprio così che stanno le cose.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
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<div class="MsoNormal">
Rabbini si lisciano la
loro meravigliosa barba bianca all’ombra delle Yeshivot applicando piamente le
sognanti e rigorosissime regole dell’ermeneutica ebraica alle pagine di <i>Devarìm / Deuteronomio</i>, <i>Wayqrà / Levitico</i> e <i>Yeshua / Giosuè</i> per comprendere cosa significhi mai il precetto di <i>votare allo sterminio (khérem)</i> i cananei,
dal momento che – nella <i>storia-storia </i>- ad essere sterminati sono stati sempre gli ebrei. Ma se vogliamo stare al
dettato biblico, questo Giosuè non era certo una colomba. Dalle città che
conquistava con la spada – oltre che facendone crollare le mura a suon di <i>shofar</i> - non ne scampava uno, fosse uomo
donna o bambino, e ciò per rendere onore a Tetragramma, che a quel tempo era un
Dio che non aveva scordato le sue origini tribali e desertiche, e ancora
ruggiva come un leone, ben lontano dal diventare il mite e silenzioso <i>Antico di Giorni</i>, quel vegliardo simile
a Gandalf che si siede in trono nella profezia del libro di Daniele (anche Dio
ha una biografia, come si ricava leggendo il piacevole libro di Jack Miles: <i>God: a Biography</i>). Insomma, Giosuè aveva
a che fare con un Dio ancora abbastanza giovane e forzuto. In fondo era più o
meno il 2700, son passati tremila anni da allora.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
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Però anche teologi,
esegeti, filologi cristiani, magari tedeschi o francesi dalle lenti spesse due
dita su montatura di tartaruga a proteggere uno sguardo acquoreo, giacca nera
con crocettina d’argento e camicia candida con le punte del collo sopra il
gilè, nelle biblioteche di Tubinga o Lovanio, si affannano a disinnescare quei
medesimi imbarazzanti testi a colpi di <i>Redaktionsgeschichte,
Formgeschichte</i>, di metodi storico-critici e di strutturalismo. Non è facile
armonizzare il feroce cugino dei Baal con il Padre del crocifisso. Ma più
difficile ancora – anche se forse meno cruciale – è il compito dei colleghi del
terzo piano, al dipartimento di Storia della Chiesa. Perché tutti abbiamo in
mente il buon Re Carlo – beatificato e venerato con officiatura propria nella
Cattedrale di Aquisgrana – sotto un pino, presso un roseto, maestosamente
assiso sul trono di oro puro, con la barba bianca, la testa coronata dai fiori,
il bel corpo, il contegno fiero , tutti abbiamo in mente i versi delicati della
<i>Chanson de Roland</i>. Ma il <i>buon</i> Re Carlo convertì i sassoni e gli
àvari ponendo loro di fronte - come alternativa - il fonte battesimale o il
ceppo della decapitazione, e molti dei rudi nordici offersero il collo alla
mannaia. Anche gli ortodossi, con il loro Costantino <i>isoapostolo</i>, non fanno meno fatica. Avrà anche trionfato contro
Massenzio nel segno della Santa Croce, ma proviamo a chiedere a Licinio, al
figlio Crispo, alla moglie Fausta e a un sacco di altra gente da lui assassinata
cosa ne pensano. Si dirà: erano secoli bui. Forse erano solo secoli di un Dio
più giovane e bellicoso. Attorno al 1500, poco più di cinquecento anni fa, di
spada e di croce gli spagnoli dilagarono nelle Americhe, vogliosi di anime,
terre e oro. Francisco Pizarro sterminò migliaia di innocenti a Cajamarca, e il
povero Atahualpa venne destinato misericordiosamente alla garrota e non al rogo
solo perché convertitosi <i>in extremis</i>.
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Sia ben chiaro: io non
voglio dar parole alla scontata antiagiografia ateistica, e suonare la
grancassa al ritmo dell’idea della violenza intrinseca dei monoteismi. Con tali
superficialità non voglio mescolarmi. Tanto nell’antico Israele quanto nella
cristianità antica, medievale e moderna la santità era presente, percepibile,
vibrante. Se le religioni, per dirla con Lucrezio, <i>tantum potuerunt suadere malorum</i>, mille volte tanto hanno generato
in umanità, civiltà, bellezza. Non è sensato inoltre dire che Giosuè non avesse
un rapporto di particolare vicinanza con Tetragramma, né che Carlo Magno non
fosse solidamente cristiano. La questione, se mi si consente, è ben altra:
ossia il significato teologico della violenza. Il ripudio totale di essa da
parte del cristianesimo è abbastanza recente. Il luminoso volto dell’attuale
Patriarca di Costantinopoli, la sua attenzione orante per ogni particella del
creato di Dio, così come la dolce voce paterna e accattivante del Papa di Roma
Francesco e la sua cura per gli ultimi della terra, sono fioriture meravigliose
della contemporaneità cristiana. Se è vero che il cristianesimo ha creato le
condizioni sociologiche e storiche per lo sviluppo della dottrina dei diritti
inviolabili dell’uomo – e di tutto ciò che è chiamato generalgenericamente
‘civiltà occidentale’ – è altrettanto vero che da esse è stato
ri-evangelizzato. Molto bene, si dirà. Sì, ma non è senza aver pagato un prezzo
che questo è accaduto. il Dio cristiano è invecchiato dolcemente, diventando un
nonno saggio e buono, ma quasi privo di forze. Per i cristiani occidentali Dio,
quando non è una favola o un’assenza, è ordinariamente una decorazione
esistenziale. Alcune anime incandescenti di santità sono forse ancora disposte
a morire per Lui (e c’è da dire che ho avuto un brivido lungo la schiena quando
– leggendo un recentissimo pezzo di Luca Doninelli – ho appreso che a suo
avviso sia lui che Antonio Socci si farebbero ammazzare pur di non calpestare
la Croce; mi sono domandato, non riuscendo a rispondere, che cosa farei io, che
mi vengono le ginocchia molli se solo devo andare dal dottore). Ma nessuno – e
forse fortunatamente – sarebbe disposto a <i>uccidere</i>
per Lui. Toccate a un occidentale il suo SUV e lo vedrete impugnare il crick,
bestemmiate davanti a lui e rimarrà indifferente. Interisti e juventini possono
darsela di <i>santa ragione</i>, ma la
questione del <i>filioque</i> non appassiona
più se non qualche vecchio teologo. Chesterton (in <i>The Ball and the Cross</i>) descrive lo stupore della società londinese
dei primi del novecento quando, dopo che un editore ateo pubblica
nell’indifferenza generale una rivista contenente affermazioni insultanti
riguardo alla Vergine Maria, un cattolico scozzese sfonda la vetrina e lo sfida
a duello. L’editore ateo – che paradossalmente condivide col focoso scoto lo
stesso paradigma veritativo <i>forte</i> – è
ben contento di combattere: ma finiranno entrambi in manicomio. Un Dio anziano
ne ha viste tante. E’ diventato saggio. Conosce gli uomini, la loro povertà. Sa
che ce ne sono altri come Lui in cielo, che non è l’unico e non ha più voglia
né forza per giocare al maschio alfa. Certo, può ancora accigliarsi in ambito
di morale, ma ha rinunciato completamente alla violenza. La sera scende al bar
e gioca a tressette con gli altri dèi. Sono suoi amici, e sa che forse presto condivideranno
con lui anche la camera dell’ospizio. Se ha una preoccupazione, essa non
riguarda i colleghi numinosi, ma i terribili idoli rampanti, <i>Usury</i>, <i>Lust</i> and <i>Power</i>, per dirla
con TS Eliot. Il Dio anziano ricorda con nostalgia quando questi idoli – pur
sempre esistiti e sempre stati vigorosi – erano a Lui sottomessi. Ricorda
quando il Suo servitore Ambrogio di Milano rifiutò l’ingresso al Cesare
Teodosio per il crimine compiuto a Tessalonica. O quando Enrico IV attese
scalzo e vestito di sacco per tre giorni nella neve davanti alle porte del
castello di Canossa. Ricordi lontani, di quando era più giovane. Ora Potere, e
le sorelle Usura e Lussuria, gridano forte e dominano menti e cuori in
Occidente. Lui li rimprovera un po’, agita il dito, borbotta, ma in fondo chi è
Lui per giudicare.<o:p></o:p></div>
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E il Dio dell’ISIS? No,
Lui è più giovane. Non sono passati tanti anni da quando si scagliò sul figlio
di mercanti meccani Muhammad presso il monte di Hira, rendendolo <i>Messaggero di Dio </i>e <i>Sigillo dei Profeti</i>. Ha ancora nelle narici l’odore umido delle
carovane e negli orecchi il frastuono delle spade dei suoi che combattono gli
idolatri. E’ ancora padrone della vita e della morte degli uomini. <i>Non c’è Dio se non Proprio-Lui Il-Dio</i> ed
è deciso a prendersi il pianeta. Ai devoti non promette diafane e meste
speranze di un Oltre alla <i>Here After</i>,
ma un sacrosanto Paradiso pieno di palme di acque di ombra di gloria e di
meravigliose fanciulle dalla pelle speziata crepitante di desiderio. Se il
vecchissimo Dio ebraico dimora riposando nel giorno del Sabato, se il maturo
Dio cristiano discende nel panecorpo e nel vinosangue di una cena sacrificale,
Lui, il Dio musulmano, è una freccia, una direzione, un orientamento: una
Qibla: e vedete come ogni comunità musulmana in preghiera si trasforma
inevitabilmente in un esercito allineato e coperto, in una falange pronta alla
battaglia.<o:p></o:p></div>
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Già una volta questo Dio
si incapricciò dell’occidente e tentò di abbracciarlo con la dottrina e con le
armi. Ci riuscì quasi, fermandosi nella Francia meridionale e sotto le porte di
Vienna. Maometto II, la sera del 27 maggio dell’anno 1453 (dalla nascita di
Cristo), osservava dalla sponda asiatica del Bosforo il Corno d’Oro, e lo
vedeva come la profumata vagina dentro la quale sarebbe penetrato il suo Dio di
collera e di passione, fecondando con le spade l’Europa. Ma all’epoca anche il
Dio cristiano era sufficientemente giovane da non farsi rapire così le terre e
le anime. Don Juan d’Austria, bastardo di Carlo V, ventiquattrenne capitano al
comando di una flotta sterminata, rovesciò gli Ottomani a Lepanto. Tanto per
dire, il comandante musulmano, MuezzinZade Pascià, fu decapitato, e la sua
testa appesa all’albero maestro della <i>Real</i>,
la galea ammiraglia spagnola.<o:p></o:p></div>
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Ora Il-Dio soffia e
accende i cuori e le viscere dei suoi devoti del Califfato, rendendoli rossi
d’odio per l’infedele idolatra, soffia e fa sventolare i lugubri neri vessilli
dello Stato della Siria e del Levante, soffia soffia soffia e fa sbattere
schioccando la veste arancione del genuflesso reporter statunitense James Foley
prima di venire decapitato da un guerriero misterioso, nerovestito e anglofono,
nel terribile video che abbiamo tutti nella mente. Forse dovremmo riflettere
sull’età di questo Dio. Quando il nostro aveva la sua età, anche noi
ammazzavamo in Suo nome. Certo, si potrà dire – come alcuni sostengono – che la
violenza è la patologia del cristianesimo e ahimé la fisiologia dell’Islam.
Quando Benedetto XVI, inforcando gli occhiali di professore a Ratisbona, osò
citare un brano del dialogo di Manuele II Paleologo con un dotto persiano che
alludeva a questo concetto (oltre a quello – forse più grave – che il Dio
musulmano è pura volontà di potenza non sottomessa alla ragione) suscito un
vespaio planetario. Non so. Quel che è certo è che di fronte a quel guerriero
nero i nostri droni – per quanto micidiali – risultano patetici. Siamo la società delle badanti, della protezione solare +100, dell'Amuchina, degli allarmi nelle case e degli integratori vitaminici: come possiamo anche solo competere con i guerrieri vestiti del color della sabbia e del vento, che dormono distesi sulle pietre del deserto sotto la fredda volta celeste, o tutt'al più in una tenda buia dopo aver mangiato carne semicruda, e ancor più spesso vegliano abbracciati al kalashnikov, i volti arrossati dai bagliori del fuoco da campo. Consapevoli di
questo, armiamo i fronteggiatori della morte kurdi (<i>pis mergah</i>, fronte alla morte), che almeno son della stessa pasta
umana. Confidiamo nella lotta intestina – e la fomentiamo - tra sottospecie
settarie del Dio sanguigno e sanguinario. Che – non lo dimentichiamo – altri
non è che quello che fa impazzire di poesia Rumi e roteare d’amore e d’incanto
i dervisci. Confidiamo nel sacro simbolo della Mela di Cupertino, che come si è
detto tutti riesce ad accomunare. Forse confidiamo anche in Usura, in Lussuria
e in Potere, che un po’ se la fanno sotto davanti a tali adamantini e feroci
corteggiatori della morte propria e dei nemici, e magari potranno perfino
risultarci utili. Confidiamo in tutto, ma non nel nonno Dio cristiano, troppo
vecchio e troppo buono. <o:p></o:p></div>
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Non abbiamo più il
giovane don Juan d’Austria, ma Mr. Obama <i>Commander
in Chief</i> a guidare la difesa dell’Occidente. Quando è apparso in video mi è
sembrato teso e invecchiato, se penso all’effervescenza pop della sua campagna
elettorale al grido dello <i>yeswecan</i>.
Il Califfato, dice, <i>has no place in 21st
century. </i>No di sicuro: ma forse ha posto nel <i>15th century</i>, che è poi quello in cui veramente lo vuole.<o:p></o:p></div>
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Forse vinceremo. Abbiamo
i satelliti, gli aerei telecomandati, abbiamo il controllo dei mercati, abbiamo
un fortissimo pensiero debole che può inocularsi perfino sotto la corazza
saracena e fare precocemente invecchiare anche il loro Dio. Forse ad essere
sacrificato – come al solito – sarà il popolo espiatorio di sempre, avamposto
tragico e bellissimo nel vicino oriente. Forse, a dispetto di tutto, vinceremo. Ah, gran bella soddisfazione, vincere del segno di <i>Usury,
Lust and Power</i>. Ma forse vinceremo.<o:p></o:p></div>
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O forse no, forse
perderemo. In questo caso io chiederei la grazia di lasciarmi ammazzare pur di
non calpestare la Croce. Ma non per un glorioso senso di martirio, non tanto
per Dio, quanto per me, per conservare fino in fondo una dignità basica, per il
minimo sindacale di lealtà che la mia storia richiede. Se noi dello Stato di Ponente potremo ancora esprimere qualcosa, sarà questa fedeltà fredda, ostinata e rassegnata. Un martirio a bassa intensità. Peraltro meglio sgozzato che cateterizzato, intubato, frastornato e solo. Confido in quel momento di poter rivolgermi a un Tu
paterno, materno, almeno fraterno, ma chissà, posso solo sperarlo. Non ho la
statura umana e spirituale di Padre Christian de Chergé, il cui testamento
tuttavia, proprio in questo momento, proprio dopo questi sgozzamenti, ciascuno
dovrebbe rileggere. Magari potrò soltanto mormorare la preghiera di Hemingway,
la più occidentale di tutte: <i>Our nada who
art in nada, nada be thy name thy kingdom nada thy will be nada in nada as it
is in nada. </i><i><span lang="EN-US">Give us this nada our daily nada and nada us
our nada as we nada our nadas and nada us not into nada but deliver us from
nada; Hail nothing full of nothing, nothing is with thee…</span></i><span lang="EN-US">. </span>Andrà bene lo stesso. Se avrò lo spirito, però, farò l’occhiolino al
giovane Dio furibondo che sostiene la mano del nero guerriero. <i>Ti conosco. invecchierai anche Tu, più
presto di quel che pensi</i>. <i>Guardando
bene, vedo già qualche ruga. E forse sarà proprio il tuo devoto nerovestito a
venire ucciso dal servitore di un Dio più giovane e forte di te. E a dire, nel
disincanto del suo ultimo istante, Non c’è nulla se non Il-Nulla, e Nulla è
messaggero del Nulla. <o:p></o:p></i></div>
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Più urgente di tutto
questo, però, è per me il Califfato che avanza a oriente della mia anima, pieno
di vita e di morte, di luce e di tenebra, di odio e di amore, di distruzione
(tanto ha già distrutto) e forse di creatività, che pretende di conquistarmi,
me ormai così vecchio, di saccheggiare le agende, di stuprare le abitudini, di
imporre una nuova e terribile legge. E quel che resta di me non ha nemmeno i
droni.<o:p></o:p></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiKubpLZkVij4Es8iEMtRWgFM_m7dRdmlNaTtTKYqebJqt33ud5tsiLi_M_sRKN4bXtl8N2TedMj3YJJEavmfQzQTDqU6_DgBdP9A1itmchyQb0pFRx5GMCrv9G4eKGKPfoRv9y1xyfAHtA/s1600/Carlo+Magno+decapita+i+sassoni.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiKubpLZkVij4Es8iEMtRWgFM_m7dRdmlNaTtTKYqebJqt33ud5tsiLi_M_sRKN4bXtl8N2TedMj3YJJEavmfQzQTDqU6_DgBdP9A1itmchyQb0pFRx5GMCrv9G4eKGKPfoRv9y1xyfAHtA/s1600/Carlo+Magno+decapita+i+sassoni.jpg" height="315" width="320"></a></div>
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leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-56810300261548147942014-08-12T05:24:00.002-07:002014-08-12T13:10:15.361-07:00Alla ricerca del Dio Ortonimo - Sanremo il 31 luglio<div class="MsoNormal">
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<i>Io quando vado in
Liguria mi sembra di non riuscire a respirare e mi viene la faccia un po’ così
e l’espressione un po’ così tutto è stretto troppo stretto e le colline avvolte
da nuvolaglia sono come un’onda solida di un’antica mareggiata e
l’autostrada è troppo viadotti e gallerie e ancora viadotti e il blu del cielo
e del mare non consola perché sembra passato attraverso un brutto filtro di Instagram
che lo rende freddo inquietante inospitale insomma fatto è che io in Liguria mi
sembra di non riuscire a respirare.<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
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<div class="MsoNormal">
Tanto più se è il 31 luglio, tanto più se fa tanto caldo, tanto
più se qualcosa di oscuro ti s’è svegliato dentro, e canta - al ritmo un po’
irregolare del cuore - una canzoncina che conosci fin troppo bene.</div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
Arrivando da est, vorrei quindi andare a sud, ma per poco, solo
fino alle spiagge della Versilia, che sono invece larghe e lisce, e la sabbia
fina non ti ferisce, e ci sono le mamme sulle sdraio a strisce, e c’è tutta una
vita calma che fluisce; sì, in Versilia, che è sempre un po’ ferma agli anni
60, e – pensate un po’ – perfino negli anni 60 era già ferma agli anni 60.
Invece no, questa volta mi tocca girare verso nord ovest , e poi ovest, e poi
sud, ma un altro sud, non quello di prima: quindi <i>levante</i> – poi Genova al colmo dell’ansa e dell’ansia – infine <i>ponente,</i> laddove ciò che si <i>leva</i> e che si <i>pone</i> naturalmente è la stella Sole dall’orizzonte marino, ma un po’
innaturale rimane il doversi volgere ad est per guardare o immaginare l’Italia
al di là del Tirreno.</div>
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Arrivo a Sanremo e mi sembra stranissima. Per esempio perché
è dedicata a San Romolo. Ora, uno su questo potrebbe anche passarci sopra, ma
poi indagando su wikipedia scopri che nelle sue origini si chiamava <i>Matutia</i>, e era un villaggio romano
consacrato alla <i>Mater Matuta</i>. E la <i>madre mattutina</i> altra non è che Ino,
figlia di Cadmo e Armonia e quindi nipote di Afrodite (che come tutti sanno ha
un lato tenebroso che Botticelli e Peter Weiss (in <i>Picnic a Hanging Rock</i>) videro benissimo dietro l’apparente radiosa
bionditudine). Altra non è che Ino, l’odiatrice dei propri figli tanto da
volerli uccidere, ma tutta intenerita per il piccolo dio bambino, Dioniso, nato
da adulterina relazione di Zeus (<i>Diàus
Piter – Iùpiter – Deus Pater</i>) con la sorella Semele, così che Era la
legittima furente consorte scaglia la follia su Ino e lo sposo Atamante. Questi
prende un figlio per un cervo e lo assale, lei si suicida col bimbo fra le
braccia gettandosi nel mare, fra gli scogli. Ma nonna Afrodite la trasforma in
Leucotea, la dea bianca, patrona dei marinai, quella stessa Leucò con cui ebbe
modo di dialogare Cesare Pavese, e che a Roma fu chiamata Matuta e messa a
proteggere – oh proprio lei – i parti e le nascite. La Buonanima di Mussolini,
nel suo delirio di restaurazione imperiale, obbligò i poveri abitanti a tornare
a chiamarsi <i>matuziani</i>, appellativo
che dopo il ventennio furono felici di abbandonare, e come non capirli. Adesso
è <i>sanremasco</i> chi nacque da due
(almeno) <i>sanremesi</i>, mentre è soltanto
<i>sanremese</i> chi, nato a Sanremo, ha
almeno un genitore almeno <i>sanremese</i>.
Logica vuole che un <i>sanremese </i>può
avere un figlio <i>sanremasco</i> qualora
impalmi una <i>sanremese</i>, ma che il
figlio di un <i>sanremasco</i> sarà ahimè solo
<i>sanremese</i>, nel caso che per esempio
si unisca a una anche soltanto di Imperia. E chissà come faranno con l'eterologa. E chissà come diavolo il Festival
della Canzone si è venuto a insediare qui, ma che Luigi Tenco si sia suicidato
dopo aver cantato <i>Ciao amore ciao</i> (<i>in un mondo di luci sentirsi nessuno</i>)
questo me lo spiego benissimo. Al centro di Sanremo c’è una vecchia stazione
ferroviaria: coi suoi cartelli bianchi su sfondo blu, i fabbricati fine
ottocento, il giornalaio, il tabaccaio, le latrine, il caffè. Niente binari. Ci
passano ormai solo treni invisibili, di quelli uditi da James Duffy in <i>Gente di Dublino</i>, di quelli dal <i>suono monotono che ripetono le sillabe del
nome di lei</i>. Proprio uno di quelli prese verosimilmente Luigi Tenco il 27
gennaio 1967, dopo aver lasciato il suo bagaglio biologico nella stanza 219
dell’Hotel Savoy.</div>
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La prendo larga, perdonatemi, ma qui è tutto troppo stretto.
A Sanremo c’è il bilinguismo che neanche a Selva di Val Gardena / Wölkenstein.
Solo che l’altra lingua è il russo. <i>Se
non ci fossero i russi</i>... commenta sconsolato l’albergatore al momento del
mio check-in, e mi dà la chiave della camera che – a giudicare dagli ospiti
nella hall – immagino predisposta con letto attrezzato di asta per la flebo e
catetere, nonché di poltrona elettrica che premendo un pulsante ti rimette in
piedi da sola. Almeno ho la soddisfazione – sempre più rara – di abbassare
l’età media di un gruppo. <i>Se non ci
fossero i russi</i>. I russi spopolano sulle spiagge e in Corso Matteotti, bellissime
donne sfolgorano di bikini in riva al mare e scintillano di Swarowsky, a bordo
di tacchi dodici, alla sera nei ristoranti. <i>Se
non ci fossero i russi</i>. E i commercianti liguri mettono sugli stabilimenti
balneari la bandiera rossa bianca e blu e le matrioske nelle vetrine. Ah, ma ci
sono da tempo, i russi, a Sanremo. Da più di centocinquant’anni, Amavano
Parigi. Firenze, anche la Costa Azzurra. A Sanremo andò a scaldarsi dal gelo
moscovita la Zarina Maria Aleksandrovna, moglie dello Zar Alessandro II, e
Tolstoj ci passò il suo ultimo inverno. In particolare ci andavano i tisici a
morire: tossendo, sì, ma confortati dalle palme, dai fiori, intiepiditi dal
sole del sud, e quindi la cittadina risultava una specie di incrocio fra <i>La Montagna incantata</i> e <i>Morte a Venezia</i> espressi in glagolitico.
Quando la rivoluzione bolscevica imminente spinse molti russi a raggiungere
l’Europa occidentale per mettersi in salvo, alcuni vennero qui. E cent’anni fa
costruirono una bellissima chiesa, una chiesa <i>russa-proprio-in-stile-russo</i>, tutta colorata e con le cupole a
cipolla (una di queste è raffigurata nella foto, riflessa nel grande finestrone
del Casinò adiacente). Questa chiesa ne ha passate di tutte, una bomba l’ha
sfondata nel 1940, un paio di anni fa venne giù l’immensa croce centrale a tre
traverse, e gli architetti pronti a dire che fu colpa dell’anima lignea ad aver
ceduto, non essendo ben connessa al supporto di zinco, e altri ad accusare il
vento, ma io penso piuttosto alla gelosia della Mater Matuta. Comunque sia, la
chiesa è ancora ben viva, e ci abita un bel pretone imponente dalla grande
barba e dagli occhi miti. Ora io in questa chiesa avrei passato molto 31 luglio
e molto 1 agosto.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgw4AzHyf2LAvB7dda7-pLrro-23eYZATNVUIKOvRqHH7qbPiGwjmwlGgbeGCzd2jSaGS2r1AmfUT2blIF6GphuKFC-UMkio7TDPiq9blmBq5kDiJezGnmA8zrZotxOt5dcMMLeQXTeg9u6/s1600/IMG_1180.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgw4AzHyf2LAvB7dda7-pLrro-23eYZATNVUIKOvRqHH7qbPiGwjmwlGgbeGCzd2jSaGS2r1AmfUT2blIF6GphuKFC-UMkio7TDPiq9blmBq5kDiJezGnmA8zrZotxOt5dcMMLeQXTeg9u6/s1600/IMG_1180.JPG" height="240" width="320"></a></div>
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La liturgia ortodossa è ogni volta anche un’esperienza
astronomica, nel senso che è sempre lunga a sufficienza da consentirti
apprezzare cambiamenti significativi della luce esterna dovuti alla eterna
danza tra il sole e la terra: non solo i passaggi dal buio alla luce, ma dalla
luce meno intensa alla più intensa, dalla più intensa alla meno intensa, da un
tono freddo a uno pastello o a uno saturo. Si assiste sempre almeno a una
trascolorazione, che l’oro e i diversi colori delle icone riproducono, amplificano
e diffrangono a seconda della posizione, delle dimensioni, della qualità, quasi
le immagini si rendessero strumenti diversi per un’unica melodia luminosa. Poi
c’è la questione del tempo. La liturgia non ha un vero punto di inizio e non ha
una vera e propria fine. Quando un occidentale va a messa si siede
silenziosamente su una panca, a un certo punto entra il prete, magari preceduto
dal <i>dindin</i> di una campanella, e alla
fine benedice, lascia l’altare e torna in sagrestia. Tutto è chiaro. Qui no. Si
comincia e si finisce <i>asintoticamente</i>.
A un certo punto ecco che ti accorgi che alcuni si danno da fare intorno
all’iconostasi, e dal coro una voce parte sommessa con preghiere <i>cantilate</i> secondo il tono così
caratteristico; candele si accendono, chierici indossano i paramenti, le porte
regali si aprono e si chiudono, e infine ti trovi dentro il rito senza sapere
bene da quando. Quanto alla fine, ecco, non finirà mai, è bene che lo sappia,
ad imitazione di ciò che dicono accadere in cielo: per quanto tutto sembri più
e più volte concluso, la voce cantilante riprenderà sempre a pregare, e qualche
barbuto baritono, da dentro il santuario, le risponderà un corposo <i>Blagosloviènno Tsàrtsvo</i>. Lo squisito
padre V, uscendo dalla chiesa nella sera trasparente, alla mia domanda su cosa
stia dicendo la voce in russo risponde <i>Non
è chiaro</i>, con olimpica vaghezza. E c’è Nona, e ci sono i Vespri, e poi il
Mattutino, e poi le Lodi, e poi Prima, e Terza, e Sesta, e la Divina Liturgia,
e ancora Nona, e in certi momenti puoi perfino uscire per bere un po’ di vino
chiaro e per mangiare un po’ di buon pesce allo Yacht Club vicino al porto,
oppure anche dormire, ma sono intervalli. Per il resto del tempo stai in piedi
a veder variare la luce, a lasciarti attraversare dai suoni, dai profumi, e
magari (e certamente) da qualcosa di ben più profondo che visita la tua anima,
e che è una luce e un profumo e un suono, ma anche un Volto e un Nome. Se sei
stanco non devi tener duro, non ce la faresti mai: devi piuttosto dimenticarti.
Inutile fare lo stoico -quando ti vien sonno – inutile stringere i denti e
tirar fuori le palpebre: neppure puoi alzarti perché in piedi ci sei già.
Meglio cercare di assomigliare agli incorporei (che solitamente invisibili
affollano le navate, adoranti e sgomenti per la trasmutazione che si sta
operando, e che darebbero tutto, invece, per essere almeno un istante
materiali).</div>
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Infatti, nel caso specifico di questo 31 luglio c’è che gli
incorporei han deciso di mostrarsi visibilmente. Un gruppo di giovanissime
orfanelle provenienti da Yaroslavl presta la sua voce al coro nella liturgia: poiché
un benefattore russo ha loro finanziato una vacanza in Italia. La più piccola
avrà dieci anni, la più grande diciassette. Sono tutte vestite di abiti lunghi
candidi e un po’ trinati. I loro piedini bianchi sono infilati in sandali bassi
e commoventi (quei piedini che miodio chissà che passi che faranno, che chissà
dove le porteranno, che verso quale sorte le faranno andare, verso quale
destino), sono tutte velate – alcune con uno scialle che passa sotto la gola,
altre solo con un piccolo triangolo che si annoda dietro la nuca. Dai veli
escono lunghissime trecce, alcune di oro giallo, altre di oro rosa e altre di
oro rosso Ciascuna di loro ha un volto da Vermeer o da Rossetti, un volto
talmente limpido da rendersi soglia e passaggio dell’Invisibile. Un volto da
farti venire le lacrime da quanto è bello e triste. Quanto alle voci non so dir
che questo: così spirituali e cristalline da essere quasi inadatte all’orecchio
umano, almeno a quello contemporaneo, che le insegue senza poterle afferrare, e
quindi senza poterle far proprie. Non è facile pregare appoggiandosi a suoni
così puri, e quasi rimpiango la raucedine greca e carnale dei miei corsari di
Mar Saba.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjtcWme0ynmFX0AmqoFZYnx-D51IyNruO2LTtoJXKuA03FYg3monmzbaIYgNlpLF6pMapftJq3eX990DrWzErobz0UvCrgAuH0Z34Lj4V_gZCQXXY0IFpFhEFNS_hLg9uRYdahIzbjduRs3/s1600/IMG_1190.JPG" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjtcWme0ynmFX0AmqoFZYnx-D51IyNruO2LTtoJXKuA03FYg3monmzbaIYgNlpLF6pMapftJq3eX990DrWzErobz0UvCrgAuH0Z34Lj4V_gZCQXXY0IFpFhEFNS_hLg9uRYdahIzbjduRs3/s1600/IMG_1190.JPG" height="240" width="320"></a></div>
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Ora, in queste lunghe ore trascorse in piedi nel microclima
caldoumido che si è creato sotto la cupola (dal colmo della quale ti scruta
l’occhio del Pantrocratore), io talvolta guardo le bambine che cantano, e sento
che vorrei che uscissero, che potessero correre via, giocare sulla spiaggia,
nuotare e spruzzarsi fra le onde, spalmarsi la crema sulle spalle e sulla
faccia, raccontarsi sottovoce i segreti, impiastricciarsi le mani con
ghiaccioli dai colori improbabili, comprarsi tatuaggi al sapore di chewingum, ascoltare con le cuffiette Adele, i Green Day o altro rock (ma attenzione che
Рок (rock) in russo vuol dire <i>fato</i>,
povere bimbe inseguite dagli dèi fin nei lettori mp3) e che non è giusto che
invece siano chiuse lì, ben dritte, ben attente, a prestare la loro voce alle
schiere angeliche. E anche il padre V, prete ortodosso ebreo russo dal cognome
polacco - con le coppie cromosomiche pertanto avvinte in un abbraccio che è
anche lotta primordiale e terribile, e che han dato origine a uno straordinario
potpourri di tensioni e dolcezze, di rigore e pazienza, a un senza patria tre
volte, a un esule al cubo – mi confessa di essere attirato irresistibilmente
dal mare, di voler nuotare verso il largo, e com’è logico non riuscirà neppure
a toccarlo, stretto come si ritrova (è in Liguria) da orari ferroviari, amici
in ritardo e trolley protesico quasi fosse Sean Penn in <i>This must be the place</i>. Si pone e si impone quindi il problema
relativo a che cosa Dio ci facciamo qui tra i simboli se fuori ci sono il mare
il cielo e il resto della realtà.</div>
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Ci sarà pure una ragione se nei templi indiani non si entra,
ma ci si può salire sopra, mentre le cattedrali eran fatte per starci dentro,
almeno prima della costruzione di ascensori per portare i turisti a vedere da
vicino la Madonnina. in generale i templi d’Oriente sono santuari attorno a cui
si deve camminare, dando possibilmente la destra al luogo sacro. Poi c’è pure
la nicchia chiusa con lo Shivalingam cosparso di burro fuso, incenso e petali
di fiori, ma insomma, in generale sono molto aperti. Arunachala è una
montagna-tempio, così come il Kailas o il lago Manasarovar. E anche i templi
greci o romani. E anche il tempio di Gerusalemme. Insomma, è la divinità o il
suo <i>eidolon</i> ad abitare una cella, i
fedeli stanno all’interno di <i>confini
sacri</i>, di <i>temenoi</i>, ma ben esposti
alle nuvole e alle stelle. Sembra invece che il cristianesimo tema l’aperto, si
difenda da esso chiudendosi dentro un edificio per celebrare i misteri. Il
grande filosofo della religione nonché autodefinitosi <i>spiritual entertainer</i> Alan Watts (che fu tra le altre cose uno fra
i maestri di Eugene Dennis Rose, colui che diventerà il santo monaco Seraphim
di Platina) centra perfettamente questo punto doloroso e cruciale. Dopo aver
citato una poesia di John Betjelman:</div>
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<div class="MsoNormal">
<i>Messali miniati,
guglie, ampie<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>balaustre, cantorie
istoriate: tutto<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>amavo, ed in ginocchio
ringraziavo<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>me stesso per averlo
conosciuto,<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>mentre passava il sole
del mattino<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>tra le ricche vetrate
vittoriane<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>e, nell’aria tinta
d’ombre colorate,<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>genuflesso pensavo:
Dio c’è.<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Ora, disteso in questa
bruma triste<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>so bene che il Signore
non esiste.</i></div>
<div class="MsoNormal">
<i><br></i></div>
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scrive: “Mi sono sentito cristiano solo in luoghi chiusi.
Appena esco all’aria aperta , mi distacco completamente da qualsiasi cosa possa
avvenire in una chiesa, compresi il culto e la teologia. Non che non mi piaccia
stare in chiesa. Al contrario, ho trascorso gran parte della mia infanzia sul
sagrato e nei chiostri di una delle più nobili cattedrali europee e non mi sono
mai sottratto al suo incantesimo. (…) Ma tutto ciò si trova in un compartimento
stagno, o piuttosto in un santuario chiuso, dove la luce del cielo aperto
giunge soltanto filtrata dalla ricca simbologia delle vetrate istoriate. (…) Ho
sempre avuto l’impressione che ci fosse
una profonda e straordinaria incompatibilità tra l’atmosfera del cristianesimo
e l’atmosfera del mondo naturale. Mi sembrava pressoché impossibile associare
Dio Padre, Gesù Cristo, gli angeli e i santi all’universo in cui effettivamente
vivevo. Contemplando gli alberi e le rocce, il cielo con le sue nubi e le sue
stelle, , il mare, o la nudità del corpo umano, mi trovo in un mondo in cui la
religione semplicemente non si adatta- (…) Eppure, se Dio ha creato questo
mondo, com’è possibile che si percepisca tanta differenza tra il Dio della
chiesa e dell’altare, con tutto il suo splendore, e il mondo del cielo aperto?
A nessuno verrebbe in mente di attribuire un paesaggio di Sesshu a Constable,
né una sinfonia di Hindemith a Haydn. Allo stesso modo, io ho trovato
impossibile identificare con l’autore della religione cristiana l’autore
dell’universo fisico. E questo non è evidentemente un giudizio di valore sui meriti
dei due diversi stili. E’ la semplice constatazione che <i>non sono opera della stessa mano</i>.”</div>
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<br></div>
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Ora, è indiscutibile che qualunque persona seria questa
bizzarria l’avverta. Il grande enigma, il grande <i>koan</i>, la sfida alla quale ogni cristiano è chiamato, consiste
precisamente di conoscere l’<i>Ortonimo</i>
dietro gli <i>Eteronimi</i>: il Dio del
tempio e il Dio dell’aperto, Colui che è Padre delle sue quattro Figlie, le
Quattro Supreme Interazioni, l’Interazione Forte, l’Interazione
Elettromagnetica, L’Interazione Debole e l’Interazione Gravitazionale e
mediante Esse governa e regge l’Universo, e Colui che si fa bagnare i piedi di
lacrime e se li fa asciugare coi capelli di una donna sulla crosta di un
nanoscopico frammento di polvere cosmica rotante attorno a una delle 300 miliardi
di stelle appartenenti a una fra le 100 miliardi di galassie che sembrano
esistere, l’Impassibile e il Patetico, il Big Bang e la carezza del Nazareno.
Un Dio che per esistere indossa le maschere, come Pessoa utilizzava il
nichilista Alvaro de Campos, il medico Ricardo Reis, il contadino Alberto
Caeiro, l’impiegato metafisico Bernardo Soares, e molti altri. Senza maschere
non esisterebbe, perché un Dio esistente è già un Dio mascherato d'Essere. Lo dico
arrossendo dalla vergogna ma mi sento all’opposto del Pascal del <i>Memoriale. </i>Il <i>Dio dei filosofi</i> è un eteronimo di Dio al pari del <i>Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe.</i>
Se, come già a Dostoevskij, venisse posta la domanda su che cosa sceglierei fra
Cristo e la verità, qualora fosse dimostrato che sono in direzioni diverse, io
sceglierei entrambi <i>anche sapendo</i> che
sono contraddittori, anzi: <i>soprattutto
perché lo sono</i> perché questa contraddizione affascinante è l’unica modalità
che ci è data per avvertire direttamente la vibrante presenza dell’Ortonimo.</div>
<div class="MsoNormal">
Risponderei quindi all’intelligente obiezione di Alan Watts
che sì, io condivido la sensazione che il Dio dell’aperto non sia lo stesso del
Dio del tempio, esattamente come potrebbe non essere possibile pensare che vi
sia un’unica mano dietro Soares e dietro Reis. La soluzione, però, non è che la
verità (altro eteronimo, appunto) sia solo dalla parte del Dio dell’aperto, ma
che [esiste] un Dio Pessoa: che è la pace di questo conflitto.</div>
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<br></div>
<div class="MsoNormal">
C’è nella Bibbia la lotta del D-o terribile del deserto, con
se stesso e con l’uomo, per farsi e non farsi addomesticare. <i>Clibanus fumans et lampas ignis</i>, forno
fumante e fiaccola ardente<i> </i>che passa
fra gli animali divisi in Genesi 15, e poi colonna di fuoco e nube, e poi tuoni
e fulmini e poi l’Arca di Mosè e poi il Santuario, <i>Qodesh haQodashim,</i> povero Dio delle galassie chiuso in un cubo di
10 metri di lato, e il <i>sibilus aurae
tenuis</i> di Elia e poi finalmente e gloriosamente uomo, quindi con un volume
di circa 65 litri e un peso di 70 chili e un’altezza, non so, di 180
centimetri. Forse Dio è più basso di me.</div>
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<br></div>
<div class="MsoNormal">
Commuove C fino alle lacrime questo tentativo struggente di
costruire una casina a Dio. Irrita invece il mio Maestro L, devoto dell’eteronimo
delle galassie. C sovrainterpreta il poeta Yehuda Amichai (<i>Square letters want to stay / closed; each letter a closed house, / to
stay and to close yourself in / and to sleep inside it, forever</i>) facendogli
dire, nel suo rammemorare trasognato, che ogni lettera quadrata dell’alfabeto
ebraico è come un piccolo Sancta Sanctorum per ospitare il D-o di Israele. L
non darebbe mai credito a un dio tribale che tifa per gli ebrei contro i
delicati egiziani che amavano la luce e la raffinatezza e il grande fiume
nutritore.</div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
A me anche il linguaggio sembra materiale per mascheramento,
quindi non posso che dire che anche l’Ortonimo, laddove lo si nomini e lo si
dica, come sto facendo io, altro non diventa che l’ennesimo Eteronimo, <i>so what we cannot talk about we must pass
over in silence</i>, come suggerisce Wittgenstein.</div>
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<br></div>
<div class="MsoNormal">
Però certamente ricordo, da bambino, la lettura dei libri di
Salgari sotto il letto, con la pila a illuminare, come un’esperienza di assoluto
aperto, e forse il linguaggio allora serve a tenere insieme gli eteronimi. Forse
le ragazzine di Yaroslavl sono entrate nella chiesa così. L’eteronimo delle
galassie lo si adora col silenzio, con l’audacia dell’esporsi; quello delle
carezze infilandosi dentro un microcosmo misterioso e aprendo i sensi alle
immagini e ai canti e il cuore allo slancio d’amore. </div>
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<br></div>
<div class="MsoNormal">
Ma N mi ricorda una poesia di Aleksandr Blok (la riporto in
mia traduzione dall’inglese):</div>
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<br></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Una fanciulla cantava
in un coro di chiesa<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>per tutti i viandanti
in contrade straniere<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>per tutte le navi smarrite nelle tempeste<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>per tutti coloro che
avevano perso la gioia.<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Si innalzava la sua
voce fino alla cupola<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>e un raggio incendiava
le sue candide spalle<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>e ognuno nel buio
guardava e ascoltava<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>mentre lei cantava,
circonfusa di luce.<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<i>E sembrava che la
gioia fosse tornata<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>che tutte le navi avessero
raggiunto i loro porti<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>che tutti gli stanchi,
che tutti gli esausti<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>avessero trovato la
gioia e il riposo.<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<div class="MsoNormal">
<i>E la voce era dolce, e
il raggio sottile;<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>solo più in alto,
presso le Porte Regali<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>un bimbo, iniziato al
Mistero, piangeva<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<i>perché nessuno sarebbe
mai tornato.<o:p></o:p></i></div>
<div class="MsoNormal">
<br></div>
<br>
<div class="MsoNormal">
Perché nonostante tutto la tragedia permane e guai ad
accettare le consolazioni, anche se offerte da questi angeli bianchi. Serve restar
lì sanguinando, piangendo, gridando, nel Tempio e nell’Aperto, finché Qualcuno finalmente venga e ti
dica e ti prenda e ti baci.</div>
leolenzihttp://www.blogger.com/profile/15160155900702922860noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6735303804734336030.post-84838638628099430182014-07-13T22:58:00.003-07:002014-07-13T22:58:44.070-07:00[Due anni dopo] Fort Silence: piccola introduzione alla mostra di Bill ViolaQuesta nota risale al 14 luglio 2012. Ma Fort Silence esiste ancora, e (fra le sue mura chiare, sotto i suoi archi armoniosi e misteriosi, fra l'ìncanto rigoroso e di una classicità - così impossibilmente classica da trascendere nel romantico - dei suoi giardini) ospita ancora in questo luglio una formidabile iniziazione antropologica: Aisthesis, Robert Irwin e James Turrell.<br />
<br />
++++++++++++++++++++++++++++++++++++++<br />
<br />
Fort Silence - Forte Silenzio. Forte non nel senso di 'forte' (strong), ma 'Forte' come Fort Apache, costruzione militare isolata, circondata da mura e da mistero. 'Forte' come la Fortezza Bastiani, allucinata da Buzzati. Il Conte Panza di Biumo, collezionista d'arte contemporanea, vero Guggenheim italiano, ha reso tale la sua villa, gioiello gentilizio settecentesco, collocata nei pressi di una Varese che non sono mai riuscito a conoscere, e quindi neppure ad amare. L'ha resa uno spazio cosmico e interiore, ornandola in permanenza con i monocromi di Phil Sims, il corridoio di Dan Flavin, le stanze dell'anima di Robert Irwin e di James Turrell. Solo per questo bisognerebbe andare a Fort Silence: per abitare un poco questo luogo e lasciarsi invadere dalla densità delle presenze che ospita.<br />
<br />
Fort Silence, però, in questi mesi ospita anche Bill Viola e la sua Reflections (ed è proprio dalla parola Reflections, che, anagrammando alla rabbinica, mi è venuto in mente Fort Silence). Le sue videoinstallazioni trovano posto al primo piano e nelle scuderie. Tra l'uno e le altre, l'attraversamento di stanze da sogno e da estasi. Fuori, il giardino all'inglese arde sotto il sole di luglio.<br />
<br />
Le opere di Bill Viola non si concedono allo sguardo rapace dell'intenditore d'arte. Bussano invece ai cuori pazienti e agli sguardi aperti di coloro che sono abbastanza innamorati o abbastanza infelici o abbastanza sapienti da potersi sedere davanti a loro e accettarne il ritmo lentissimo, eppure implacabile. Si negano al frettoloso - che subito sente ticchettare qualcosa di angosciante dentro, che gli preme nel cuore, nella testa e nelle gambe ed è costretto ad alzarsi e andar via - ma anche al faustiano incantato e incatenante che vorrebbe rendere eterno ciò che passa (Augenblick, verweile doch, du bist so schoen!). Tutto è molto lento, ma non si ferma mai. Come il respiro, come la vita.<br />
<br />
Ecco, si entra e tre donne ci vengono incontro (Three Women, 2008). Sono parvenze grigie nel grigio, si avvicinano. Al centro forse una madre, alla sua destra un'adolescente, una bimba alla sinistra. Si sfrange il grigio e si comprende che il velo d'acqua che le separava da noi si sta rompendo ed esse appaiono alla luce del senso (de aqua et per aquam consistentes, Dei verbo). La madre è la prima, essa trae all'essere forse le sue due figlie. Ma è solo un attimo, perché come sono tutte e tre al di qua della barriera, subito qualcosa di inevitabile sembra chiamare da dietro la madre che viene riassorbita dall'indistinto. La figlia grande la segue, la bimba indugia ancora alla luce, non vuole andare, il braccio della sorella riattraversa la soglia per condurla con gesto fermo e dolce, anche lei è ripresa, ora sono tutte dietro, nuovamente grigie, volgono le spalle e ci lasciano. 'Ma chi ci ha rigirati così / che qualsia quel che facciamo / è sempre come fossimo nell'atto di partire? Come / colui che sull'ultimo colle che gli prospetta per una volta ancora / tutta la sua valle, si volta, si ferma, indugia - così viviamo per dir sempre addio.' RM Rilke, Ottava Elegia di Duino.<br />
<br />
Nella stessa sala, due adolescenti, un ragazzo e una ragazza, emergono lentamente dalla barriera d'acqua (The Innocents, 2007). Lei, siccome è donna, è sacerdotessa, perché il sacerdozio di questi mutamenti è femminile (il maschio può esser solo sacerdote dell'eterno) quindi ha gesti solenni, di potere. Lui è più spaurito e più solo. Struggimento, bellezza, qualcuno fermi questa immagine! vien voglia di dire, e non è neanche Faust che parla, ma lo strazio di chi ha la sua giovinezza alle spalle e vorrebbe che per loro due così non fosse. Vanno, invece.<br />
<br />
A queste due opere credo sia giusto associare la celeberrima 'Emergence' (2002). Ispirata esplicitamente a un affresco quattrocentesco di Masolino da Panicale, sconvolge e chiama a una comprensione più profonda. Due donne (una madre e un'amante) attendono sui gradini di un sepolcro, o di un pozzo, costruito nello stile apparentemente armonico del rinascimento italiano - ma che qui svela l'inquietudine di cui sempre è intessuto. D'un tratto si increspa la superficie liquida superiore del sepolcro, e un giovane nudo, il corpo bianco come la neve, emerge ad occhi chiusi dal basso, mentre l'acqua si riversa sui gradini, scuote le due donne che si slanciano, e l'innamorata è piena di meraviglia, prende incredula la mano del giovane e gliela bacia. Ma a poco a poco questa resurrezione è come se abortisse, il corpo bianco si piega come un fiore, no, non ce la fa a risorgere, (le donne forse lo hanno trattenuto? Mê mou haptou!), ricade fra le braccia della madre, la resurrezione si trasforma in una deposizione piena di tenerezza: e la donna più giovane copre il corpo, che non è riuscito a risorgere, con il velo. La deposizione 'dopo' una resurrezione incompiuta? E' dunque una negazione? Ad un livello psicologico: vince veramente sempre la madre, sempre la morte, sempre l'Uno? Non si nasce, non si ri-nasce mai? Si è sempre trattenuti? Ad uscire da questo dilemma, credo che bisognerebbe dedicare mattutini e lacrime a contemplare l'icona bizantina del Nymphios, che, senza spiegare, tutto chiarifica, anche l'inversione del vettore del tempo.<br />
<br />
Un'intera stanza dedicata all'apparire della luce dietro un albero bellissimo e regale, dalle infinite ramificazioni vibranti di foglie (The Darker Side of Dawn, 2005). Un'ora di durata. Dal buio totale alla luce del sole che appare da dietro, sorge, illumina, e tutto diventa nitido e meraviglioso, e l'albero è maestoso e presente davanti a noi, ma la luce continua a crescere, erode il tronco stesso, satura i colori che virano verso un colore livido, nuovamente si perde l'immagine (assorbita, questa volta, non dall'oscurità ma dall'eccesso di luce) e l'intero schermo - che occupa un'intera parete - diventa bianco. Siamo fatti per condizioni di mezzo, troppa luce e troppo buio ci impediscono di vedere, siamo abitanti del crepuscolo da-sempre-e-per-sempre "Non vi stupì sulle attiche stele, la discrezione / del gesto umano? E come posa lieve / sulle spalle Amore e Addio, come se fosse / d'altro che da noi? Rammentate le mani, / come posano senza peso, e sì che nei tronchi c'è vigore. / Questi maestri della misura sapevano: noi arriviamo fin qui, / 'questo' è nostro, di toccarci 'così', più forte / ci gravano gli Dei. Ma è cosa degli Dei" (RM Rilke, Seconda Elegia di Duino)<br />
<br />
Poem B (The Guest House) (2006). Piccolo trittico, al centro un volto di donna. L'anima come ostello di ricordi frammentati. C'è un cielo pieno di stelle cadenti che si rivela essere una pozzanghera di un parcheggio illuminato da luci notturne. Onde marine. A un certo punto appare un volto d'uomo. Una candela. C'è una casa distrutta, ci sono decorazioni di festa o di natale. Sullo schermo centrale il dolore di lei, il cui cuore è premuto da queste memorie che appaiono per subito scomparire, senza che si crei un senso.<br />
<br />
Soglia tra vita e morte. ma questa volta il tuffo è invertito. Sembra di cadere ma si è attratti verso l'alto. Anche qui il capovolgimento di un vettore, quello dello spazio stavolta (in Emergence, quello del tempo). Viene in mente Florenskij. "Forse che in questo mondo capovolto, in questo mondo ontologicamente riflesso in uno specchio, non riconosciamo il piano immaginario, anche se è piuttosto immaginario questo nostro mondo per coloro che si sono capovolti su se stessi, che si sono rovesciati, giungendo al centro del mondo spirituale che è più autenticamente reale di loro stessi". Eternal Return, 2000.<br />
<br />
La più bella, almeno per me: Passage into Night (2005). In un deserto così luminoso che l'aria è come acqua, è un ariaacqua, fluida, tremante, densa, viene, eternamente viene, incessantemente viene-incontro una figura, chè è l'amata, la morte, la notte, il Messia. Non si capisce per molto tempo (durata: 50 minuti) se si stia avvicinando o si allontani. Poi si capisce che viene, ma viene lentamente, inesorabilmente ma lentamente, non puoi correrle incontro, viene, "verrà quasi perdono di quanto fa morire" (Rebora), e poco a poco si impone la sua presenza, occupa l'intero spazio, e vorresti vederne il volto ma non puoi, non ti è dato. Il blu profondo della sua veste, il blu quasi nero del centro delle icone teofaniche, il grembo misterioso delle cose, in questo sì, ti è concesso di entrare.<br />
<br />
Ablutions (2005). N'tilat Yadaym, una mitzvah preliminare ad ogni gesto di senso. L'acqua - asse del corpo umano, suo rachide. Le mani, l'agire umano, hanno il compito di perturbare quest'asse primordiale, di scomporlo, di diffrangerlo, esso si ricompone incessantemente nella sua limpida verticalità.<br />
<br />
Inaccessibiltà e intimità del sonno. Nei bianchi bidoni pieni d'acqua schermi che riproducono volti dormienti. Inquietudine da reparto di terapia intensiva dell'anima. Sensazione di violazione, i quasi inviolabilità del sonno. Appare in alcuni il sogno, in altri la resa. Per qualcuno è già il volto dell'agonia. 'The Sleepers' (1992)<br />
<br />
Uno stagno-piscina quadrato in mezzo a un bosco, si avvicina un uomo, teso in una presa di decisione drammatica. D'un tratto balza, un grido, e tutto si congela, lui rimane sospeso, immobile, raccolto come un feto nell'aria. Solo la paziente riflessione dell'acqua della piscina continua a muoversi, riflette il cielo e le foglie, appaiono delle onde, si vedono delle presenze camminare sul bordo. Solo la superficie si oscura, è notte, passano misteriose luci. Cerchi concentrici, come se un sasso vi cadesse dentro. Lo spazio di sopra è fisso, solo il feto adulto sospeso perde consistenza, e alla fine non si vede più, confuso fra le fronde degli alberi. Riemerge più tardi, nudo, dall'acqua che mai è stata ferma. Superamento della pietrificazione esistenziale attraverso l'incessante rispecchiamento del qui-e-ora. Così il lavoro del mediatore, sulle relazioni congelate dal conflitto. 'The Reflecting Pool' (1977-1979)<br />
<br />
Per ulltimo ci attende la straordinaria esperienza del 'Nantes Triptych' (1992). Una parete contiene tre grandi immagini: a sinistra quella di un parto, a destra quella di un'agonia e di una morte, al centro una figura vestita fluttuante in un ambiente acquoreo, grigionero, tridimensionale. Si tratta di un vero parto (amici di Viola) e di una vera agonia (la madre stessa di Viola). Il parto è glorioso, la donna è frontale, seduta, con le ginocchia raccolte al petto e le gambe aperte, un abito azzurro che la copre fino al grembo teso; dietro di lei il padre, a torso nudo, a piedi nudi, che la sostiene roccioso, senza emozioni vistose, ma comunicando fortezza, solidità totale, imperturbabilità fin sorprendente. Compaiono talvolta le mani e le teste di due ostetriche, che tergono i liquidi, appoggiano le mani sul ventre, verificano la dilatazione con le dita, con gesti caravaggeschi quanto al realismo totale e alla poeticità. La vecchia donna morente è distesa, un po' contratta, su un letto di ospedale, è intubata, alle sue spalle alcune prese elettriche. Il respiro è un rantolo, ogni tanto apre gli occhi e sbatte le palpebre. Anche qui c'è il suo sposo, seduto vicino a lei, le tiene la mano sotto il lenzuolo-sindone bianco, con il dito le umidifica le labbra. Mi viene fatto notare che le due donne (la madre e la morente) si assomigliano molto. Al centro la figura fluttuante rispecchia quel che sta accadendo nel ventre della madre e forse nella mente della morente. Il bimbo appare dalla matrice dilatata, e viene estratto con una certa violenza; deposto fra le braccia della madre, subito tende una mano verso il suo volto, con un gesto di incredibile e struggente tenerezza, da Maestà di Duccio, di Giotto o di Simone Martini. Si schiudono dopo poco gli occhi in uno sguardo che non si sa se veda. Anche la morente apre gli occhi, e anche il suo sguardo - dolcissimo in quel momento - non si sa se veda. Interruzione. Il bimbo adesso è stato lavato, ha gli occhi aperti e una sua fisionomia compiuta sembra potersi riconoscere: ha un volto da saggio. La donna è morta, la bocca disarticolata dell'agonia, il figlio adulto vicino compie gli ultimi atti di cura. La figura fluttuante scompare verso il basso, i tre schermi si spengono, prima quello al centro, poi quello a destra, infine quello a sinistra.<br />
<br />
Scrive Chris Townend in un suo saggio su Bill Viola: "Si può almeno affermare con certezza che l'arte di Viola sia un'arte di emozione. E' raro, almeno nel tipo di musei e gallerie che frequento abitualmente, vedere qualcuno che piange davanti a un'opera d'arte. In quasi tutte le mostre di Viola che ho visitato, invece, ho sempre visto qualcuno in lacrime o almeno così profondamente commosso che, considerate le convenzioni sociali che limitano il pianto in Europa, avrebbe potuto esserlo."<br />
<br />
Lascio Fort Silence. Che fino alla fine di ottobre accoglie fra le sue mura questa grande iniziazione al mistero dell'uomo.<br />
<br />
(14/07/2012)<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
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