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domenica 8 dicembre 2013

"Se nourrir des inscriptions, des tracés instinctifs" - Art Brut a Verona

Presento una mostra d'arte. Alla Gran Guardia di Verona. Dove - se verificate - è in corso "Verso Monet. Il paesaggio dal Settecento al Novecento". Con opere di Poussine, Lorraine, Van Ruisdael, Van Goyen, Hobbema, Canaletto, Guardi, Bellotto, Monet, Renoir, Sisley, Pissarro, Caillebotte, Degas, Manet, Van Gogh, Gauguin e Cézanne. Però io non presentavo quella. In un grande stanzone dal soffitto altissimo, illuminato con faretti assieme troppo forti e troppo deboli che lo fanno assomigliare alla biglietteria di una stazione ferroviaria, un gruppo di amici generosi e cari immolano i loro giorni prenatalizi alla causa di un ciclo di incontri sulla condizione carceraria (http://www.verona-in.it/wp-content/uploads/2013/12/FRATERNITA-tra-murales-manifesto-1.jpg). Al centro della sala, la ricostruzione filologicamente fedele di una cella per quattro persone, in cui si può entrare e assaggiare la claustrofobia, moderata: perché la ricostruzione non ha il soffitto, e perché è fatta di legno caldo e non di intonaco sordido. Ai lati tanti cavalletti e tanti quadri, dipinti da detenuti e da detenute che han frequentato un corso di Pittura. Questa è la mostra che devo presentare: qualche decina di persone, mentre a qualche metro ce n'è una lunga fila in attesa di vedere i Grandi Maestri, e in piazza Bra impazzano gli ormai onnipresenti mercatini di Natale.

Inizia l' "evento". Un po' di musica: Renato dei Kings. I Kings, hanno inciso con la Durium i Kings. Cinquant'anni fa.  Renatodeikings. Viene così presentato: Renatodeikings unmitounaleggenda. Non scherzo. Morandi, Dik Dik, Equipe 84, Jimmy Fontana (il mo-ooondo, non si è fermato mai un mome-e-e-e-e-nto). Musica che si sentiva quando ero appena nato. renatodeikings si esibisce appollaiato su una postazione da one-man-band - senza che gli venga fatta neppure la carità di un abbassamento di luci - con davanti un amplificatore e un pc su cui scorrono, tipo karaoke, le parole delle canzoni. Poi in serie vengono lette: una poesia bellissima di un detenuto di Volterra, una conversazione con Ho Chi Minh, una terribile lettera di Gramsci, e viene recitato - benissimo - un monologo in romanesco sul carcere di Alessandro Mannarino. "E ora si presenta la mostra d'arte". Tocca a me. Sono nel posto giusto, altro che i sussiegosi paesaggisti della porta accanto...

Quel che segue è la trascrizione del mio intervento:

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Non sono un artista, non sono un critico, non sono un intenditore d’arte, e non so neppure disegnare. Inoltre non sono un giurista, non sono un operatore o un volontario nel carcere. E questa è una mostra di arte realizzata in carcere. Rimangono quindi per me piuttosto misteriose le ragioni per cui Arrigo ha voluto che fossi io a presentarla.
Il mio ‘avere a che fare’ con l’arte è comune a tanti: frequentarla, come e quando posso, in modo ingenuo, non colto, non raffinato, fa parte dei modi di nutrire la mia vita, come direbbero i saggi del Daoismo. Proprio qualche giorno fa mi trovavo in Università e ho sentito proprio nel corpo che mi mancava la bellezza, proprio la bellezza artistica, ed era una sensazione strana, di deprivazione, come se mi mancasse lo zucchero o i sali minerali e facessi fatica a camminare. Allora ho lasciato lì le cose che avevo da fare e mi sono precipitato a Palazzo Reale (che a Milano è il luogo dove si tengono le principali mostre), e non sapevo veramente neppure cosa andare a vedere, poi ho scelto Rodin, e per qualche ora mi sono abbeverato alle sue forme, ai marmi che lui rende luce liquida.
Il mio ‘avere a che fare’ con la Giustizia si limita all’aver condiviso – fin quasi dal suo inizio, in Italia – l’esperienza della mediazione, e particolarmente di quella fra reo e vittima. Di avere visto e ascoltato tante storie, di avere visto e ascoltato tanti volti, tante parole, di avere incontrato tanta sofferenza, di essere stato testimone di tante trasformazioni. Ho con incoscienza accettato la proposta così, senza pensarci troppo: mi metterò davanti a queste immagini, provando a essere vuoto. Come accade in mediazione: il mediatore siede con il reo e con la vittima, silenzioso, impotente, vuoto, inutile, solo “testimoniando” quel che avviene tra coloro che la sofferenza e talvolta la tragedia di un conflitto tengono legati l’uno all’altro.
Sì, proverò a mettermi così davanti a questi quadri, con gli occhi e la mente e il cuore vuoti, lasciando che i colori e che le forme entrino, tocchino, commuovano, scompiglino, turbino, chiamino, richiamino, piangano, ridano, danzino, pretendano, gridino: sì, gridino. Dando loro spazio, lo spazio che chiedono, lo spazio che meritano. E’ ciò che faccio quotidianamente in mediazione, con quelle particolari opere d’arte, tutte rivelanti la mano di un artista ignoto ma divino, che sono gli esseri umani.

Ho raccontato della mia piccola esperienza di deprivazione di bellezza.
Nel 1912, cento anni fa, il pittore allora ventunenne Egon Schiele fu arrestato e rinchiuso per 24 giorni nel carcere di Neulengbach, vicino a Vienna. L’accusa era di aver sedotto una ragazzina quattordicenne e di aver esposto materiale pornografico in un luogo accessibile ai minori. Dopo la sua morte (morì a 28 anni) venne pubblicato il suo diario relativo alla permanenza in carcere, su cui da sempre pesano dubbi di autenticità, ma in questo momento a noi non importa.



Scrive Egon Schiele:

Finalmente! – Finalmente! – Finalmente! – finalmente un sollievo alla pena! Finalmente carta, matite, pennelli, colori per scrivere, per disegnare. Le ore confuse e desolate erano un tormento, quelle ore uguali, informi, noiosamente grigie, che dovetti trascorrere tra mura fredde e nude, spogliato di tutto come un animale
Un uomo più debole interiormente sarebbe subito impazzito e anch’io sarei diventato pazzo se avessi dovuto continuare ancora a lungo in quello stato di continua ebetudine. Perciò, nella condizione in cui mi trovo, sradicato con violenza dal mio terreno creativo, con dita tremanti inumidite nella mia saliva amara, mi sono messo a dipingere per non impazzire del tutto. Servendomi delle macchie dell’intonaco ho creato paesaggi e teste sulle pareti della cella, poi osservavo il loro lento asciugarsi fino a impallidire e sparire nella profondità del muro, come fatti sparire dall’invisibile potenza di una mano incantata.
Ora per fortuna ho di nuovo il materiale per disegnare e scrivere; mi è stato restituito perfino il mio pericoloso temperino. Posso dipingere e così sopportare ciò che altrimenti sarebbe stato insopportabile. Mi sono sottomesso e umiliato per averli, ho chiesto, pregato, mendicato, avrei anche piagnucolato se non ci fosse stato altro modo 

Dentro da pochi giorni, Schiele sente acutamente la deprivazione, che nel suo caso non riguarda solo la fruizione della bellezza, ma la possibilità di generarla, di crearla.
Nel Diario ci sono parole molto chiare a proposito dell’assurdità e della disumanità della detenzione, ma non voglio impigliarmi in questo. Vorrei piuttosto riportare altre frasi.

Ho dipinto il letto della mia cella. In mezzo al grigio sporco delle coperte un’arancia brillante che mi ha portato Vally è l’unica luce che risplende in questo spazio. La piccola macchia colorata mi ha fatto un bene indicibile.

Io sono incarcerato, rinchiuso – non mi posso muovere, non posso far nulla – e fuori è primavera, la terra scusa e umida spande il suo profumo, la linfa sale, si dischiudono i primi fiori! Vorrei fare un giro a piedi verso prati pieni di fiori variopinti e sotto arbusti fioriti ascoltare il canto di piccoli e graziosi uccelli dagli occhi luccicanti come gemme incastonate o gocce di smalto colorato.

Ho sognato Trieste, il mare, posti lontani. Nostalgia, ardente desiderio! Per consolarmi mi sono dipinto una barca panciuta e colorata come quelle che dondolano sull’Adriatico. E con essa la nostalgia e la fantasia possono veleggiare in mare aperto, verso isole lontane, dove uccelli rari scivolato tra alberi inimmaginabili e cantano. Oh, mare!

Ecco, di frasi come queste, scritte dagli autori a commento delle loro opere, ne troverete molte. Gli autori che qui espongono – indipendentemente dal loro talento che, lo ripeto, io non sono in grado di valutare – sono tutti in spirito confratelli di Egon Schiele, nel senso che hanno attraversato come lui questo genere di esperienza.

Quando un mediatore ascolta un conflitto, cercando di sentire nel profondo le persone che ha di fronte nelle parole e oltre le parole, a volte restituisce con una brevissima frase quel che ha sentito.

1. In questi quadri io ho sentito la vita e la morte. Che sono questione di vita o di morte.

Cerco di spiegarmi. Ciascuno di noi, forse, ha una vecchia zia, e forse disgraziatamente qualcuno di noi è una vecchia zia con l’hobby della pittura. Senza far niente di male, mentre i nipoti sono altrove, riempiono le ore vuote dipingendo sulla tela l’albero di melo nel giardino. Poi – ahimé – lo regalano a Natale e tu devi fingere di apprezzarlo. Che vuoi, ho l’hobby della pittura, ho fatto anche il corso del Comune, dice fiera la vecchia zia.

Qui c’è un corso e c’è la pittura: ma non si tratta di un hobby, di un passatempo. Si tratta – semmai – di una passione (nel senso duplice di sentimento intenso, potente trasporto e di sofferenza), di qualcosa che sporge sull’anima e che chiede di essere dato alla luce, alla forma, al colore. Il maestro Caldana [l'insegnante del Corso] è stato ostetrico (ossia colui che sta davanti – ob-stare – per servire) di questi parti creativi, educando, esortando, incitando, seguendo, trepidando.

C’è un travaglio e c’è un parto, perché in gioco – come nel caso di Egon Schiele – c’è la propria vita anche da rinchiusi. L’alternativa è generare o diventare folli.



2. Poi, ho sentito coraggio.

Il coraggio di esporsi intimamente agli sguardi, pur attraverso la mediazione tipica della creazione artistica. Ognuno di questi quadri è un gettare la maschera. L’arte, grande mediatrice, ci consente di entrare in contatto intimassimo con l’autore. Non è un caso che la categoria di empatia sia nata appunto nell’ambito dell’estetica, a descrivere il sentimento che si prova davanti a un’opera d’arte. Ma l’empatia è anche l’attitudine specifica del mediatore.
Il coraggio del denudarsi esige, da parte di chi guarda, un assoluto rispetto. Mi permetto di suggerire: non guardate questi quadri come si farebbe a una normale mostra. Accogliete invece nel rispetto il denudamento delle anime che si manifesta in forme e colori, e custoditelo nel vostro cuore. Osservate i dipinti, ma lasciatevi anche guardare dentro da loro. Un’opera d’arte è capace non solo di essere guardata, ma di guardare. E il coraggio di denudarsi non sopporta spettatori, ma esige coinvolti: persone cioè capaci di denudarsi a propria volta.

3. Poi, ho sentito la possibilità della libertà.

Tra le tante, tutte bellissime, frasi che accompagnano queste opere, ne cito – considerato il tempo a disposizione – solo una (ma vi esorto a leggerle tutte):
Ragazza con capelli neri: Ti avevo persa entrando in cella, ma ti ho ritrovato al corso di pittura.
E’ una frase semplice, ma di tale profondità che è difficile aggiungere qualcosa. Chi è chiuso in carcere perde tutto il prima (per usare un’espressione di Adolfo Ceretti)– e abbiamo sentito il grido di Egon Schiele – e in questo caso ci viene detto che è l’amore ad essere perduto, l’amore per o di una ragazza dai capelli neri. Ma ancora una volta l’arte ne media il ritrovamento, così che pur nella reclusione chi ha scritto questa frase ha compreso che non gli è negata la via della profondità, e che seguendo questo cammino tutto, in qualche modo, è ridato, restituito, ridonato, riparato, anche l’amore perduto della ragazza dai capelli neri.

Cosa fare dunque noi, che artisti non siamo? Pur non detenuti, ciascuno di noi ha dentro di sé il medesimo grido: di vita-e-morte, di coraggioso desiderio di denudarsi e finalmente esistere come noi stessi, di libertà. Forse dobbiamo metterci alla ricerca di un nostro ostetrico, non necessariamente il maestro Caldana, non necessariamente la pittura. E anche se non abbiamo alcun talento – come me, per esempio, che non ho alcun talento artistico – rimane il compito di rendere arte la propria vita.



Scrive la filosofa veronese Adriana Cavarero:

Karen Blixen racconta una storia che le raccontavano da bambina. Un uomo, che viveva presso uno stagno, una notte fu svegliato da un gran rumore. Uscì allora nel buio e si diresse verso lo stagno ma, nell’oscurità, correndo in su e in giù, a destra e a manca, guidato solo dal rumore, cadde e inciampò più volte. Finché trovò una falla sull’argine da cui uscivano acqua e pesci: si mise subito al lavoro per tapparla e, solo quando ebbe finito, se ne tornò a letto. La mattina dopo, affacciandosi alla finestra, vide con sorpresa che le orme dei suoi passi avevano disegnato sul terreno la figura di una cicogna. “Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno, una cicogna?”, si chiede a questo punto Karen Blixen. Noi potremmo aggiungere. il percorso di ogni vita si lascia alla fine guardare come un disegno che ha senso? 

E Picasso, in modo meno ingentilito della baronessa Blixen, scriveva: Se si segnassero su un foglio tutti i punti per i quali sono passato e li si unisse con un tratto, forse si otterrebbe un Minotauro.

Minotauro o cicogna, rimane per tutti il compito di dipingere con i pennelli del proprio corpo, anima, spirito, con i colori delle proprie emozioni e dei propri valori, un disegno che spesso rimane misterioso a noi medesimi (si cade, e si inciampa, ma retrospettivamente ci si accorge che proprio questi sono i punti di espressione del disegno, e talvolta i suoi punti di bellezza).

Proprio in questi giorni ci è dato di contemplare il disegno meraviglioso composto dalla lunga, intensa, oso dire felice vita di una persona che ha trascorso gran parte di essa chiuso in una cella di due metri per due a Robben Island. Quest’uomo è Nelson Mandela, che – sul livello in cui parlo, che non è quello delle personali responsabilità – è confratello degli uomini che con coraggio esprimono loro stessi pur reclusi nelle esteriori prigioni, e di tutti noi che tentiamo di esprimere noi stessi con la vita, pur reclusi nelle nostre interiori prigioni.

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Ci sono poi altri interventi: studiosi di diritto penale, un gesuita.

L'evento finisce: ma Renatodeikings non si tiene, recupera la posizione e si lancia in un personale e solipsistico autokaraoke. Gente un po' spersa. Freddo fuori, e anche un po' dentro. Proprio vicino alla porta questo quadro. Un detenuto ha preso il lenzuolo con cui un suo compagno di galera si è impiccato, ne ha tagliato una striscia, ne ha fatto un quadro, una sacrasindone di non risorti, o non ancora, e accanto i nomi e le date.


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