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giovedì 19 dicembre 2013

Il discorso del Re

Per chi parlava? A chi si rivolgeva con quel suo linguaggio gestuale incomprensibile a tutti – e credevano fosse per i sordi, ma i sordi lo capivano meno degli altri -, chi è che serviva, con quel volto impenetrabile, serissimo, tutto compreso nella sua funzione? Per chi, e volendo dir cosa, quell'uomo si toccava fronte, labbra, cuore? Chi era che sedeva nello stadio, e aveva mandato quel traduttore, apparentemente a mediargli le parole degli Importanti della Terra?



Muore Mandela e il mondo si ritrova nella com-unione e nella con-divisione, nelle con-doglianze e nella con-vivialità. Muore uno statista, un simbolo, un guerriero, un profeta, un rivoluzionario, un capo, una speranza, muore l' icona delle icone (come titola un giornale irlandese), muore un gigante, una nera luce, un padre, un apritore di sentieri, un logo tardomoderno, un nobel-per-la-pace , un santo, un'ispirazione per l'umanità, muore Madiba.

Il web lo celebra, lo piange, lo esalta, il suo solo volto compare su milioni di profili, e anche sul mio, sì, anche io, che mi faccio punto d'orgoglio di non unirmi alle campane delle concelebrazioni social mediatiche, anche io pubblico su Facebook una sua immagine - pur se triste: lui a letto, con quel pallore particolare che appare sulla faccia dei neri, lui cupo, lui solo, e i colori freddi di uno schermo digitale in un angolo, chissà. Poi però la cambio subito, mi sposto sull’allusivo, e metto la foto di un elefante morto, immenso, disteso su un fianco, con un giovane indiano che gli cosparge il capo di fiori colorati e di burro fuso: perché l’India è così, nascita o morte, gioia o dolore, bellezza o orrore, uomini animali piante sassi, è sempre il dio che bussa alla porta, e credo che anche l’Africa sia un po’ così, e forse specialmente il Sudafrica in cui ci sono tanti indiani, così che perfino il Mahatma è venuto da lì. Forse nessuno lo ha capito che era una foto per Mandela. O magari qualcuno sì.

Perché infatti, la commemorazione, il memorial service, lo sappiamo tutti com’è andata. C’era il popolo ma c’erano anche i vip. C’era il Principe Carlo d’Inghilterra con accanto l’invisibile fantasma della Madre Immortale che gli sbarra la strada al trono, poi c’era l’Ultimo Re di Scozia, al secolo l’attore Forest Withaker, e c’era Oprah – poteva non esserci? – e la bellissima attrice afrikaneer Charlize Theron, e Bill Clinton, e Bono degli U2, e George Bush, e tanti presidenti e capi di stato, c’era perfino Letta, e Obama che naturalmente diventa anzitutto primo miracolato di san Madiba e stringe la mano a Raul Castro, poi protagonista di un gossip divertente: si scatta un selfie sorridente e malandrino con l’affascinante primo ministro danese Helle Thorning-Schmidt, provocando l’immediato protrudersi del labbro inferiore di Michelle, e infine un saggio scambio di posti fra loro.

Ci si immagina la security. I cecchini su ogni tetto coi loro mirini reticolati e i puntatori laser. I marcantoni in completo nerofumo con i Rayban e l’auricolare a spirale che chissà mai cosa gli dicono. I metal detector che scannerizzano ogni cosa che passa. Le perquisizioni minuziose. I documenti da presentare, controllare, verificare. Insomma, ci si immagina una fitta ragnatela anti-intrusione. Ed ecco che questo signore se ne fa un baffo della sicurezza, e si mette calmissimo accanto ai Potenti. Nessuno lo ferma, nessuno gli domanda nulla. E traccia in mondovisione gesti incomprensibili nell’aria. Rivolti a chi? E cosa diceva?

Fatto è che, con tutta probabilità, una coorte invisibile era stata mandata dall’alto – o dal profondo, ché non è diverso – a ricondurre Madiba nel luogo ove ogni conflitto tace, e ove anche la pace non è che una parola senza senso. Ma in quel luogo si entra nudi, bambini, smascherati. Combattere ad alta voce è da coraggiosi – scrive la Dickinson – ma so più valoroso chi si appunta dentro al petto la Cavalleria del Dolore. Quelli che vincono, e le nazioni non vedono, quelli che cadono, e nessuno li osserva, i cui occhi morenti nessun Paese gratifica di uno sguardo patriottico. In incorporea schiera, nelle loro uniformi di neve con gli elmi piumati,  - mentre il loro messaggero disegnava nel silenzio un discorso rivolto solo a lui - pietosamente spogliavano il defunto di ogni ruolo, gli toglievano dalle rughe ogni espressione di circostanza, lo liberavano da ogni personaggio, lo alleggerivano di ogni premio, lo affrancavano da ogni simbolo, lo sollevavano da ogni virtù di rappresentanza, lo aiutavano a deporre ogni peso – perfino da quello di dover essere colui che portava il bene e la pace nel mondo. E volete la traduzione del famoso discorso dei segni? Eccola. Dunque diceva:” Rolihlahla, Combinaguai,  è venuto il momento di mollare tutto, di dimenticare l’isola e la cella e il palazzo, e i ventisette anni e i ventitre anni, e l’apartheid, la rivolta e il trionfo, l’ingiustizia e la giustizia, la violenza e la pace, e l’arcivescovo Tutu e il presidente De Klerk e perfino il compagno di galera Ahmed Kathrada, e le mogli e le figlie e l’amore e i litigi e le separazioni, e il tuo paese arcobaleno ancora straziato e insanguinato, dimentica tutto, Combinaguai, è venuto il momento di lasciar andare tutto, ti è perdonato il tuo male (che è facile per Dio), ti è perdonato il tuo bene (che è più difficile perfino per Dio), a te - che tanto hai perdonato e convinto al perdono - è perdonato anche il tuo perdonare, ti è perdonato l’esserti considerato master of your fate, ti è perdonato l’esserti ritenuto captain of your soul [e qui gli elmi piumati hanno ondeggiato appena, e ciò perché gli angeli ridevano di un riso di cristallo, tanto assurde erano quelle parole, come fa l'anima ad avere un capitano], non sei Invictus, sei solo Rolihalhla, Combinaguai e ora devi lasciarti vincere”. Ah, c’è voluto tempo per convincerlo. La svestizione è stata lunga: Nelson Mandela, Presidente dell’African National Congress, Presidente del Sudafrica, Sakharov Prize for Freedom of Thought, Международная Ленинская премия, Nobel Prize for Peace, Istitutore della Truth and Reconciliation Commission, Balì di Gran Croce dell’Ordine di San Giovanni, Presidential Medal of Freedom degli Stati Uniti d’America, Bharat Ratna – ovverosia Gioiello dell’India - , Liberatore della Città di Soweto. Ma alla fine tutto è stato abbandonato, Combinaguai ha potuto finalmente andare, mentre sotto la pioggia assistevano, attente e intense, le anime ancestrali dell’Africa.

Leggo proprio adesso sul giornale che il signor Thamsanqa Jantjie il gesticolatore è uno schizofrenico con trascorsi criminali. La celeste schiera ha voluto vergare nell’aria il discorso del Re utilizzando – come pennello vivo – uno intriso del sangue e della follia dello sterminato, misterioso continente.

To fight aloud, is very brave—
But gallanter, I know
Who charge within the bosom
The Cavalry of Woe—

Who win, and nations do not see—
Who fall—and none observe—
Whose dying eyes, no Country
Regards with patriot love—

We trust, in plumed procession
For such, the Angels go—
Rank after Rank, with even feet—
And Uniforms of Snow. 


Combattere ad alta voce è da coraggiosi
Ma so più valoroso
Chi si appunta dentro il petto
la Cavalleria del Dolore.

Quelli che vincono, e le nazioni non vedono,
Quelli che cadono, e nessuno li osserva,
I cui occhi morenti nessun Paese
Guarda con amore patriottico.

Crediamo che – in piumata processione –
per coloro gli angeli procedano,
schiera dopo schiera, con passo cadenzato,
e le uniformi di neve.

Emily Dickinson


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